Dove fu composto il
Novellino quando da chi?
Non è difficile stabilirne la patria. La lingua della novelle mostra
evidente il suo carattere fiorentino. Ma questo non vorrebbe dir molto, se
sono fiorentini tutti i manoscritti (compreso quello onde deriva
l'edizione gualteruzziana), e se tutti sono più o meno lontani
dall'originale: la loro fiorentinità potrebbe essere opera dei copisti.
Meglio la fiorentinità dell'originale si prova osservando come, tra i pur
prediletti aneddoti italiani, prevalgono quelli dove campeggiano
personaggi fiorentini, dove domina l'ambiente fiorentino, dove palpita la
vita fiorentina. I personaggi fiorentini sono molti, anche se non sempre
agiscano a Firenze o nel territorio fiorentino, e maestro Taddeo [di
Alderotto] insegni a Bologna, e il vescovo Aldobrandino [Cavalcanti] regga
la diocesi d'Orvieto, e messer Migliore degli Abati viaggi in Sicilia e
quella perla d'amico di Cante Caponsacchi vada in confino a Mantova.
Intanto il suo troppo fiducioso amico mantovano tien l'ufficio di podestà
a Firenze. Da Firenze muovono i due amanti fiorentini della «bella novella
d'amore » ; da ' Firenze esce Ciolo degli Abati per visitare in villa
l'amico Maso Leonardi; a Firenze il vescovo [Giovanni] Mangiadore si fa
cogliere in fallo da un suo colpevole piovano; a Firenze infine tra la
costa San Giorgio e il Ponte Vecchio, l'avaro set Frulli è allegramente
beffato da quel burlone di Bito. In questa novella sopra tutto la
descrizione particolareggiata dei luoghi, la rappresentazione minuta della
vita quotidiana è tale, che difficilmente sarebbe uscita dalla penna di
qualcuno che non fosse stato di quei luoghi e non avesse partecipato a
quella vita.
Il Novellino fu dunque composto a Firenze: quando tra i personaggi,
storici o leggendari, che affollano le nostre novelle, molti appartengono
all'antichità, altri al medio evo prima del secolo XIII; e i fatti che si
raccontano di loro provengono dai libri, tanto che quasi sempre se ne può
indicare la fonte. Non provengono invece dai libri, se non
eccezionalmente, i fatti che si raccontano di personaggi dugenteschi. E
questi sono in gran numero : dal prediletto Federico II a Carlo d'Angiò,
col re Corrado di Svevia, con Ezzelino da Romano, col vescovo Mangiadore
di Firenze, col vescovo Aldobrandino d'Orvieto, con altri che Dante ha
accolti nella sua Commedia: Marco Lombardo, Francesco d'Accorso, Lizio da
Valbona, Rinieri di Calboli...
Certo la frequenza delle persone appartenenti a quello scorcio di secolo
contrasta nel Novellino con l'assenza di uomini la cui attività sia da
porre, decisamente, nel Trecento, sia pure nei primi anni. Ond'è che la
data fissata dal d'Ancona nel suo lavoro Del Novellino e delle sue fonti,
pubblicato nel 1873 e accolto poi tra i suoi Studj di critica e storia
letteraria (2a ediz. Bologna 1912), è stata generalmente accettata.
Secondo lui il Novellino fu composto «verso la fine del Dugento, e forse
nel penultimo « decennio ». Noi diciamo, senza precisar troppo: non prima
del 1281 e non dopo il 1300...
Nelle migliori novelle del Novellino tutto è fresco e vivo. Nessun indugio
in descrizioni d'ambiente: i personaggi sono introdotti subito, con
formule spicce. E nessun indugio in motivazioni psicologiche: i personaggi
sono preferibilmente fatti parlare. E son fatti parlar bene: si ricordino
i dialoghi della novella fiorentina di Bito e di ser Frulli. Vien prima il
dialogo tra la ingenua serva di Frulli, che scende al mercato di ponte
Vecchio con un paniere di verdura, e quel burlone di Bito, che l'aspetta
per la strada, sulla Costa di San Giorgio, e la ferma, e le compra un
mazzo di cavoli, e la imbroglia sul prezzo, frodandole un « danaio ».
Poi c'è il dialogo tra il padrone e la serva, quando, tornata al podere,
gli sta rendendo i conti, e quegli s'avvede dell'ammanco, e s'adira, e le
fa confessare l'incontro con Bito, e capisce l'inganno. C'è infine il
dialogo tra ser Frulli e Bito, l'uno acceso alla vendetta, l'altro pronto
alla beffa, alla beffa estrema che rimanda a casa, frodato d'un altro «danaio»
ma contento (« Ben mi piace... »), il vecchio avaro e sospettoso. Tre
dialoghi brevi, e pur pieni di vivacità e di verità, che bastan da soli a
scolpire i caratteri dei tre diversi personaggi.
D'altra parte, se la proprietà e la vivacità del dialogo è in alcune
novelle mirabile, non meno degna d'ammirazione è, in altre, la grazia e la
schiettezza della narrazione : si ricordi la « bella novella d'amore ».
Con che schiva semplicità è precisata la situazione iniziale! «Un giovane
di Firenze amava una gentile pulzella; la quale non amava niente lui, ma
amava a dismisura un altro giovane, lo quale amava anche lei, ma non tanto
ad assai quanto costui » E con che attenta sobrietà son tratteggiati i
movimenti e gli atteggiamenti dei tre personaggi l'amante non riamato che,
condotto in villa, perché si distragga, da un amico pietoso, non può tanto
stare che non torni una notte, a cavallo, in città, sol per vedere le mura
della casa in cui abita la sua amata crudele; la fanciulla che, crucciata
con la madre, arditamente offre all'altro giovane, al suo tanto amato, di
fuggire una notte con lui; l'eletto che accetta, e prepara con amici
fidati le facilità occorrenti a una sicura fuga notturna.
Poi, i contrattempi e gli equivoci della notte fatale: l'amante riamato
che passa troppo presto, e ripassa troppo tardi davanti alla porta della
fanciulla; l'amante non riamato che vi passa, inconsapevole, proprio al
momento opportuno; e la fanciulla che, scambiandolo per l'altro, salta
dietro a lui sul suo cavallo; e galoppano a lungo silenziosi, fuor di
città, molte miglia, sino a un bel prato « intorniato di grandissimi abeti
». E con che grazia, a questo punto, con che misurata e pur arguta
discrezione è indicata la soluzione dell'intrico ! « Smontaro e legaro il
cavallo a un albero. E prese a baciarla. Quella il conobbe. Accorsesi
della disavventura, cominciò a piangere duramente. Ma questi la prese a
confortare, lagrimando, ed a renderle tanto onore, ch'ella lasciò il
piangere, e preseli a voler bene, veggendo che la ventura era pur di
costui, ed abbracciollo... »
Non volubilità femminile : umana accettazione del destino è quella che
l'autore vuol qui rappresentare nell'abbraccio della donna. Anche per lei
la « disavventura » si muta, con naturale spontaneità, in «ventura» Ond'è
che poi gli inseguitori, a trovarli e a mirarli «dormire così abbracciati
», nel « lume della luna ch'era apparito », non osano «disturbarli ».
Faranno più tardi quello che hanno a fare - non lo faranno anzi più, tanta
è la potenza della «ventura» non cercata, non voluta, ma infine accettata
con felice consenso. Chi avrebbe potuto narrare con maggior sobrietà e con
maggior verità la curiosa vicenda dei tre giovani fiorentini?
Ma, se vogliamo un ultimo esempio dell'efficacia che l'arte del Novellino
sa in qualche caso raggiungere, prendiamo infine la novella dei tre
maestri di negromanzia alla corte dell'imperator Federico. Vi fan
meraviglie; poi menan con sé partendo il conte di San Bonifazio. E lo
conducono in un paese lontano, di cui egli acquista la signoria, vincendo
a piú riprese i nemici, e in cui vive a lungo, accanto a sua moglie, con
dei figli, sino alla vecchiaia. Ond'è che quando riappaiono i tre maestri
e lo invitano a tornar con loro dall'imperatore, il conte risponde, tra
svogliato e stupito: « Lo 'mperio fra ora più volte mutato; le gemi frano
ora tutte nuove: dove ritornerei? » Ma alla fine li segue. E che trovano
L'imperator Federico, e i suoi baroni, non mutati d'aspetto né d'abito,
che ancora stanno per sedere a mensa, come stavano quand'egli era partito.
E i tanti e tanti anni di lontananza, e le molteplici vicende che li
avevano riempiti, tutto non era stato che una magica illusione di pochi
istanti, effetto prodigioso d'un gioco d'incantatori. Ma l'autore non dice
niente di tutto questo : perché il lettore intenda, gli basta far parlare
il conte. È l'imperatore che l'interroga; e il conte, come trasognato,
narra la sua avventura; mormora: «I' ho poi moglie, figliuoli c'hanno
quarant'anni; tre battaglie di campo ho poi fatte; il mondo è tutto
rivolto : come va questo fatto». E il lettore rimane sotto l'impressione
viva di questa sorpresa; gli par di tornare, anche lui, da un paese
lontano di sogni, destato, anche lui, bruscamente, dal riso
dell'imperatore e dei suoi baroni, che suona festoso alla fine della
novella.
Non tutte le novelle del Novellino rivelano l'istinto artistico che appare
così evidente e così efficace in queste ultime; ma esse (e, con loro,
altre che. si potrebbero pur ricordare) bastano ad assicurare il valore
singolare di questo piccolo, semplice libro, e a spiegare il favore di
cui, dopo tanti secoli, ancor sempre gode.
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