ORIGINI E DUECENTO

  • IL MILIONE DI MARCO POLO
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    Autore: Luigi Foscolo Benedetto Tratto da: Grandezza di Marco Polo, in Uomini e tempi

     
         

    L'anima sempre viva che è al centro del Livre des Merveilles può definirsi con una sola parola : è l'anima di un vero esploratore. Bisogna dare, naturalmente, alla parola il suo valore essenziale. Quel che fa l'esploratore è l'attrattiva dell'ignoto, è la sete di sapere quello che c'è di là dall'orizzonte. Non è, forse, una sete che sia naturale quanto si crede. « Guai a chi sa come si chiamano quelli che abitano l'altra riva! ».
    È una sentenza cinese, che viene attribuita a Confucio. Ma Marco Polo non è cinese. È un veneziano, un latino. È un latino come lui, un figlio del medesimo secolo, il poeta che celebrò, col suo mito di Ulisse, la grandezza ideale di quella sete. Egli la definiva « l'ardore a divenire del mondo esperto e de li vizi umani e del valore » (l'ardore di sapere che cos'è questa terra e sotto quali forme vi cresca la pianta uomo). È la divisa delle geografia militante. Potrebbe esserlo, in genere della scienza.

    Se si volesse dare il suo vero nome al mestiere che Marco ebbe per tutto il tempo che rimase alla corte del Gran Khan - dall'età di venti anni a quella di quaranta all'incirca - il nome sarebbe esploratore. Sappiamo da lui stesso che fu impiegato, durante tutto quel tempo, in continue ambascerie. Ma sotto il Gran Khan Kubilai - è sempre da lui che lo sappiamo - gli ambasciatori avevano un compito che andava molto al di là, agli occhi del Gran Khan, dei doveri ordinari della loro carica.
    Qualunque fosse lo scopo d'una ambasciata, si doveva, al ritorno, fare rapporto al Gran Khan di ciò che s'era visto di singolare nei paesi ove si era stati mandati. L'Asia era in gran parte terra incognita per i suoi nuovi conquistatori. Kubilai era avido d'essere informato. Non soltanto per prudenza di capo. Spirito sveglio, s'interessava veramente alle differenze de moeurs et de coutumes (sono le parole del testo), alle mille choses inaccoutumées che potevano esserci nel suo impero. Marco ci ha raccontato, in una pagina squisita, quanto il Gran Khan sia stato felice di trovare in lui, Marco, l'ambasciatore che sognava. Aveva trovato in lui uno che sapeva osservare e che sapeva riferire. Di lui perciò si serviva per le ambasciate nelle regioni più remote.

    Nel 1298, nelle carceri di Genova, quando scrive il Libro delle Meraviglie, Marco Polo riprende, al cospetto dell'Europa, la funzione che ha assolto così spesso presso il Gran Khan. Ci si sbaglia di grosso quando si dice che il Libro delle Meraviglie fu composto senza alcun dubbio per fornire una guida al commercio europeo, che è un libro di mercante, per dei mercanti. Marco si rivolge a tutti quelli che vogliono sapere: sapere quello che c'è di là dalle frontiere della vecchia Europa. Non mette il suo libro sotto il segno dell'utile, ma sotto il segno della conoscenza. Ridiviene l'ambasciatore di un tempo: un ambasciatore che l'Europa avrebbe incaricato d'esplorare per lei quello che per lei era il mondo sconosciuto. Le sue diverse missioni di un tempo, i suoi diversi contatti con l'immensa e molteplice Asia, si fondono allora in una sola missione dalle proporzioni gigantesche, le mille e una novità che ha osservato separatamente si coordinano in un grande quadro sintetico.

    Esiste forse ancora in qualche luogo, e si troverà forse un giorno, qualcuno dei rapporti che Marco redigeva al ritorno delle sue ambascerie e che piacevano tanto al Gran Khan. Nessun dubbio che il Libro delle Meraviglie, sotto molti rispetti, nella sostanza e nel tono, non ne sia che la ripresa ideale. Il Marco che esce dal Libro delle Meraviglie con la maggiore evidenza - il solo che ne esca per la maggior parte dei lettori - è senza dubbio l'antico Marco: un viaggiatore attento alla singolarità dei paesi e dei popoli, innamorato dei particolari curiosi, dotato d'una capacità sorprendente d'osservazione. Il libro genovese conferma in maniera magnifica il suo talento d'osservatore con l'abbondanza prodigiosa e la nitidezza, non meno prodigiosa, dei ricordi.
    Spirito chiaro e solido, uomo d'azione innanzi tutto, Marco si ripromise forse quando diede mano alla sua opera di essere soltanto un informatore oggettivo. Ed è questo solo se si esamina il suo libro per capitoli, se non se ne considerano che i particolari. Ma sopra i capitoli staccati vi è il libro; vi è, al di sopra dei particolari, l'argomento vero: la rivelazione sintetica di un mondo. Si trattava di fare sentire agli occidentali quale vita possente e multiforme vi fosse in uno spazio immenso nel quale l'immaginazione occidentale vedeva soltanto solitudini e mostri. Questo mondo da evocare s'identificava, per di più, con la sua giovinezza, con la sua vita. Era la sua esistenza libera e intensa, i suoi giorni di felicità. E doveva evocarla un prigioniero, tra gli orrori forse di una cattività reale. Un libro tanto legato con il suo più intimo essere, in tali condizioni, non poteva scriversi solo con la fredda ragione. Marco non poté lasciar trasparire un poco del suo io segreto, del suo cuore: Possiamo così intravedere tutta la ricchezza e tutta la nobiltà della sua umanità.

    L'indizio più chiaro della sua attitudine generosa verso la vita, è, a mio avviso, la sua capacita di ammirare. Il Libro delle Meraviglie non è soltanto una rivelazione, ma un'esaltazione dell'Asia. Da un capo all'altro esso risuona d'esclamazioni. I superativi vi sono prodigati. Si sente che il vero argomento del libro non è il nuovo, la semplice cognizione inattesa, ma la meraviglia, quello che vi strappa un grido d'ammirazione felice. Marco ha slanci d'entusiasmo per tutto ciò che è bello, perfetto, raro. Non solo per il loro valore venale egli s'estasia davanti ai tappeti magnifici, ai ricchi tessuti, alle pietre preziose; egli ha parole d'ammirazione anche per palazzi, giardini, paesaggi, opere d'arte, varietà animali e umane: per tutto ciò che dà un'impressione di gioia, di splendore. Il Libro delle Meraviglie - questo libro in apparenza così lontano dal lirismo - ha pur esso la sua anima lirica: l'entusiasmo. Si comprende senza sforzo che è soprattutto consacrato a tre glorificazioni principali. La glorificazione di Kubilai innanzi tutto, della sua potenza sovrumana, della magnifica organizzazione imperiale. (È quella una delle vette liriche del libro). La glorificazione, in secondo luogo, delle grandi metropoli della Cina: Cambaluc, Quinsay, Zaitun, città immense, dagli splendori favolosi, espressione suprema della magnificenza orientale. La glorificazione infine dell'Asia in quanto serbatoio di tesori infiniti.

    La capacità d'ammirare è uno soltanto dei segni del suo sentimento generoso della vita. C'è bisogno di citarne altre prove? Tutti conoscono il rispetto ch'egli mostra ai più diversi stadi di civiltà e alle forme religiose più diverse. (Ha parlato di Budda come di un santo cristiano). Tutti conoscono pure - almeno io spero - le pagine tanto simpatiche e umane nelle quali fa l'elogio dei Cinesi. La sua ammirazione per Kubilai, per il vincitore, non gli ha impedito d'inchinarsi dinanzi ai vinti. Basta sfogliare il suo libro per vedere che nell'Oriente non ha visto soltanto il fasto. Il suo sguardo vede tutto perché verso tutto ha la medesima umanità generosa.
    Marco non è soltanto un osservatore intelligente della vita, un ammiratore degli spettacoli in cui la vita trionfa. Non si limita ad amare l'azione; gli piace agire. Solo indirettamente il suo libro ci dice il suo amore del rischio e dell'avventura: per l'orgoglio che rivela d'averli affrontati. Certo è che egli lo dice. Nonostante il suo riserbo, egli ha frasi che non sono senza fierezza. « I due frati predicatori ebbero grande paura d'andare più avanti. Essi ci lasciarono ». (Egli invece continuò il cammino). « E sappiate senza menzogna che quando ci imbarcammo sulle navi eravamo ben seicento persone, senza contare i marinai. Tutti morirono, tranne diciotto ». Come l'Ulisse di Dante egli certamente perseguì con l'ideale della conoscenza, del sapere, quello della virtú, della prova che tempra e ingrandisce.

    Sono persuaso, per parte mia che Marco finirà per avere un giorno, nelle storie letterarie, un posto d'onore, un posto ben superiore a quello che gli si accorda oggi, per nulla inferiore in ogni modo a quello che gli si riconosce sin d'ora nelle storie della scienza e della geografia. Sono certo che si finirà col comprendere, universalmente, cos'è davvero il Libro delle Meraviglie nella storia morale del nostro Occidente; una delle sintesi più potenti che ci abbia lasciato il medio evo, laica e terrena da porsi accanto alle due celebri sintesi in cui si è riassunto il medio evo teologico e filosofico, la Summa di San Tommaso d'Aquino, e la Divina Commedia: sintesi grande com'esse, benché di una grandezza di altra natura.
    Mi limito con queste poche osservazioni a ricordare che il libro di Marco Polo è un libro, un libro che non appartiene solo alla letteratura didattica ma alla letteratura senz'altro. La chiarezza luminosa delle sue esposizioni, la sua oggettività vigorosa, la bella impersonalità con cui si rivela subito l'elevatezza del suo spirito (tranne che nel Prologo Marco non ci parla di sé stesso che incidentalmente e solo per meglio assicurare, con la sua testimonianza personale, la credibilità del racconto), non sono soltanto il distacco che già preannuncia lo scienziato, ma il distacco superiore che già preannuncia l'artista. Fuori di ogni tradizione letteraria, su di una linea ideale che lega i nostri compassi occidentali e le relazioni degli ambasciatori al servizio dei Tartari, il libro di Marco ha il primitivismo spontaneo dell'arte che è ancora fuori dell'arte. La sua bellezza si riduce alla linfa segreta che lo percorre, alla nobile personalità che è diffusa nell'opera intera. Si sprigiona dal libro quasi un calore velato, a pena percettibile. Orgoglio di aver fatto parte di una grande realtà e di rivelarla Palpito di ricordi in via di divenire evocazioni? L'anima, comunque, di Marco, un'anima che si rivela a noi in ciò ch'essa ha di più personale e di più profondo.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis