L'anima sempre viva che è
al centro del Livre des Merveilles può definirsi con una sola parola : è
l'anima di un vero esploratore. Bisogna dare, naturalmente, alla parola il
suo valore essenziale. Quel che fa l'esploratore è l'attrattiva
dell'ignoto, è la sete di sapere quello che c'è di là dall'orizzonte. Non
è, forse, una sete che sia naturale quanto si crede. « Guai a chi sa come
si chiamano quelli che abitano l'altra riva! ».
È una sentenza cinese, che viene attribuita a Confucio. Ma Marco Polo non
è cinese. È un veneziano, un latino. È un latino come lui, un figlio del
medesimo secolo, il poeta che celebrò, col suo mito di Ulisse, la
grandezza ideale di quella sete. Egli la definiva « l'ardore a divenire
del mondo esperto e de li vizi umani e del valore » (l'ardore di sapere
che cos'è questa terra e sotto quali forme vi cresca la pianta uomo). È la
divisa delle geografia militante. Potrebbe esserlo, in genere della
scienza.
Se si volesse dare il suo vero nome al mestiere che Marco ebbe per tutto
il tempo che rimase alla corte del Gran Khan - dall'età di venti anni a
quella di quaranta all'incirca - il nome sarebbe esploratore. Sappiamo da
lui stesso che fu impiegato, durante tutto quel tempo, in continue
ambascerie. Ma sotto il Gran Khan Kubilai - è sempre da lui che lo
sappiamo - gli ambasciatori avevano un compito che andava molto al di là,
agli occhi del Gran Khan, dei doveri ordinari della loro carica.
Qualunque fosse lo scopo d'una ambasciata, si doveva, al ritorno, fare
rapporto al Gran Khan di ciò che s'era visto di singolare nei paesi ove si
era stati mandati. L'Asia era in gran parte terra incognita per i suoi
nuovi conquistatori. Kubilai era avido d'essere informato. Non soltanto
per prudenza di capo. Spirito sveglio, s'interessava veramente alle
differenze de moeurs et de coutumes (sono le parole del testo), alle mille
choses inaccoutumées che potevano esserci nel suo impero. Marco ci ha
raccontato, in una pagina squisita, quanto il Gran Khan sia stato felice
di trovare in lui, Marco, l'ambasciatore che sognava. Aveva trovato in lui
uno che sapeva osservare e che sapeva riferire. Di lui perciò si serviva
per le ambasciate nelle regioni più remote.
Nel 1298, nelle carceri di Genova, quando scrive il Libro delle
Meraviglie, Marco Polo riprende, al cospetto dell'Europa, la funzione che
ha assolto così spesso presso il Gran Khan. Ci si sbaglia di grosso quando
si dice che il Libro delle Meraviglie fu composto senza alcun dubbio per
fornire una guida al commercio europeo, che è un libro di mercante, per
dei mercanti. Marco si rivolge a tutti quelli che vogliono sapere: sapere
quello che c'è di là dalle frontiere della vecchia Europa. Non mette il
suo libro sotto il segno dell'utile, ma sotto il segno della conoscenza.
Ridiviene l'ambasciatore di un tempo: un ambasciatore che l'Europa avrebbe
incaricato d'esplorare per lei quello che per lei era il mondo
sconosciuto. Le sue diverse missioni di un tempo, i suoi diversi contatti
con l'immensa e molteplice Asia, si fondono allora in una sola missione
dalle proporzioni gigantesche, le mille e una novità che ha osservato
separatamente si coordinano in un grande quadro sintetico.
Esiste forse ancora in qualche luogo, e si troverà forse un giorno,
qualcuno dei rapporti che Marco redigeva al ritorno delle sue ambascerie e
che piacevano tanto al Gran Khan. Nessun dubbio che il Libro delle
Meraviglie, sotto molti rispetti, nella sostanza e nel tono, non ne sia
che la ripresa ideale. Il Marco che esce dal Libro delle Meraviglie con la
maggiore evidenza - il solo che ne esca per la maggior parte dei lettori -
è senza dubbio l'antico Marco: un viaggiatore attento alla singolarità dei
paesi e dei popoli, innamorato dei particolari curiosi, dotato d'una
capacità sorprendente d'osservazione. Il libro genovese conferma in
maniera magnifica il suo talento d'osservatore con l'abbondanza prodigiosa
e la nitidezza, non meno prodigiosa, dei ricordi.
Spirito chiaro e solido, uomo d'azione innanzi tutto, Marco si ripromise
forse quando diede mano alla sua opera di essere soltanto un informatore
oggettivo. Ed è questo solo se si esamina il suo libro per capitoli, se
non se ne considerano che i particolari. Ma sopra i capitoli staccati vi è
il libro; vi è, al di sopra dei particolari, l'argomento vero: la
rivelazione sintetica di un mondo. Si trattava di fare sentire agli
occidentali quale vita possente e multiforme vi fosse in uno spazio
immenso nel quale l'immaginazione occidentale vedeva soltanto solitudini e
mostri. Questo mondo da evocare s'identificava, per di più, con la sua
giovinezza, con la sua vita. Era la sua esistenza libera e intensa, i suoi
giorni di felicità. E doveva evocarla un prigioniero, tra gli orrori forse
di una cattività reale. Un libro tanto legato con il suo più intimo
essere, in tali condizioni, non poteva scriversi solo con la fredda
ragione. Marco non poté lasciar trasparire un poco del suo io segreto, del
suo cuore: Possiamo così intravedere tutta la ricchezza e tutta la nobiltà
della sua umanità.
L'indizio più chiaro della sua attitudine generosa verso la vita, è, a mio
avviso, la sua capacita di ammirare. Il Libro delle Meraviglie non è
soltanto una rivelazione, ma un'esaltazione dell'Asia. Da un capo
all'altro esso risuona d'esclamazioni. I superativi vi sono prodigati. Si
sente che il vero argomento del libro non è il nuovo, la semplice
cognizione inattesa, ma la meraviglia, quello che vi strappa un grido
d'ammirazione felice. Marco ha slanci d'entusiasmo per tutto ciò che è
bello, perfetto, raro. Non solo per il loro valore venale egli s'estasia
davanti ai tappeti magnifici, ai ricchi tessuti, alle pietre preziose;
egli ha parole d'ammirazione anche per palazzi, giardini, paesaggi, opere
d'arte, varietà animali e umane: per tutto ciò che dà un'impressione di
gioia, di splendore. Il Libro delle Meraviglie - questo libro in apparenza
così lontano dal lirismo - ha pur esso la sua anima lirica: l'entusiasmo.
Si comprende senza sforzo che è soprattutto consacrato a tre
glorificazioni principali. La glorificazione di Kubilai innanzi tutto,
della sua potenza sovrumana, della magnifica organizzazione imperiale. (È
quella una delle vette liriche del libro). La glorificazione, in secondo
luogo, delle grandi metropoli della Cina: Cambaluc, Quinsay, Zaitun, città
immense, dagli splendori favolosi, espressione suprema della magnificenza
orientale. La glorificazione infine dell'Asia in quanto serbatoio di
tesori infiniti.
La capacità d'ammirare è uno soltanto dei segni del suo sentimento
generoso della vita. C'è bisogno di citarne altre prove? Tutti conoscono
il rispetto ch'egli mostra ai più diversi stadi di civiltà e alle forme
religiose più diverse. (Ha parlato di Budda come di un santo cristiano).
Tutti conoscono pure - almeno io spero - le pagine tanto simpatiche e
umane nelle quali fa l'elogio dei Cinesi. La sua ammirazione per Kubilai,
per il vincitore, non gli ha impedito d'inchinarsi dinanzi ai vinti. Basta
sfogliare il suo libro per vedere che nell'Oriente non ha visto soltanto
il fasto. Il suo sguardo vede tutto perché verso tutto ha la medesima
umanità generosa.
Marco non è soltanto un osservatore intelligente della vita, un ammiratore
degli spettacoli in cui la vita trionfa. Non si limita ad amare l'azione;
gli piace agire. Solo indirettamente il suo libro ci dice il suo amore del
rischio e dell'avventura: per l'orgoglio che rivela d'averli affrontati.
Certo è che egli lo dice. Nonostante il suo riserbo, egli ha frasi che non
sono senza fierezza. « I due frati predicatori ebbero grande paura
d'andare più avanti. Essi ci lasciarono ». (Egli invece continuò il
cammino). « E sappiate senza menzogna che quando ci imbarcammo sulle navi
eravamo ben seicento persone, senza contare i marinai. Tutti morirono,
tranne diciotto ». Come l'Ulisse di Dante egli certamente perseguì con
l'ideale della conoscenza, del sapere, quello della virtú, della prova che
tempra e ingrandisce.
Sono persuaso, per parte mia che Marco finirà per avere un giorno, nelle
storie letterarie, un posto d'onore, un posto ben superiore a quello che
gli si accorda oggi, per nulla inferiore in ogni modo a quello che gli si
riconosce sin d'ora nelle storie della scienza e della geografia. Sono
certo che si finirà col comprendere, universalmente, cos'è davvero il
Libro delle Meraviglie nella storia morale del nostro Occidente; una delle
sintesi più potenti che ci abbia lasciato il medio evo, laica e terrena da
porsi accanto alle due celebri sintesi in cui si è riassunto il medio evo
teologico e filosofico, la Summa di San Tommaso d'Aquino, e la Divina
Commedia: sintesi grande com'esse, benché di una grandezza di altra
natura.
Mi limito con queste poche osservazioni a ricordare che il libro di Marco
Polo è un libro, un libro che non appartiene solo alla letteratura
didattica ma alla letteratura senz'altro. La chiarezza luminosa delle sue
esposizioni, la sua oggettività vigorosa, la bella impersonalità con cui
si rivela subito l'elevatezza del suo spirito (tranne che nel Prologo
Marco non ci parla di sé stesso che incidentalmente e solo per meglio
assicurare, con la sua testimonianza personale, la credibilità del
racconto), non sono soltanto il distacco che già preannuncia lo
scienziato, ma il distacco superiore che già preannuncia l'artista. Fuori
di ogni tradizione letteraria, su di una linea ideale che lega i nostri
compassi occidentali e le relazioni degli ambasciatori al servizio dei
Tartari, il libro di Marco ha il primitivismo spontaneo dell'arte che è
ancora fuori dell'arte. La sua bellezza si riduce alla linfa segreta che
lo percorre, alla nobile personalità che è diffusa nell'opera intera. Si
sprigiona dal libro quasi un calore velato, a pena percettibile. Orgoglio
di aver fatto parte di una grande realtà e di rivelarla Palpito di ricordi
in via di divenire evocazioni? L'anima, comunque, di Marco, un'anima che
si rivela a noi in ciò ch'essa ha di più personale e di più profondo.
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