CRITICA: GIUSEPPE PARINI

 LUCI E OMBRE NELLA POESIA PARINIANA

 AUTORE: Attilio Momigliano    TRATTO DA: Studi di poesia

 

Il Parini fu, senza dubbio, un grande poeta: ma non fu uno di quelli con cui siano permesse le idolatrie. Fu un rinnovatore della materia poetica, quale di rado ebbe l'Italia, e un artista capace di atteggiamenti assai disparati. Chi passa dall'Arcadia e dallo stesso Metastasio al Parini, si meraviglia che in quel secolo sia nato un poeta capace di tanta concretezza, e in campi del tutto ignoti alla poesia contemporanea. L'ambiente elegante è sottinteso in gran parte della lirica del tempo: solo nel Parini è descritto. E la sua descrizione non è lo sforzo retorico della poesia didascalica del secolo; ma uno specchio luminoso e preciso. I salotti, i lunghi ordini di sale, gli scaloni, i mobili - il canapè -, gli arnesi e i ninnoli sono ora delineati con un pennello largo e sicuro, ora delimitati e intagliati dalla parola con un nitido rilievo: sicché anche l'ambiente materiale, che di solito è assente dalla poesia o è cosa morta, qui diventa, per questo sguardo attento e chiaro, vera e difficile poesia. Il Parini è forse il più grande poeta descrittore che abbia avuto l'Italia.
Ed è, con il Porta e con il Folengo, il nostro più grande poeta caricaturista. Ma qui è già più facile notare quella relativa debolezza che le descrizioni, naturalmente, nascondono meglio. In genere le sue caricature sono esteriori, rivelano assai poco dell'anima. Il famoso inchino in più tempi del maestro di ballo si riflette, con varietà non sostanziali, nelle mosse compassate del giovane signore, della giovane dama, di altri nobili. Anche nelle celebri macchiette del divoratore e del vegetariano la parte spirituale è più commento, sia pure arguto, che rappresentazione. Solo l'immortale sfilata degli imbecilli, nella Notte, mostra nel Parini caricaturista la capacità di rispecchiare in un gesto la rovina profonda di una anima: quel nobile incretinito che per ore e ore ridesta gli echi delle sale immense agitando con il suo braccio magistrale la frusta sotto i ritratti dei grandi antenati, è la più geniale e corrosiva immagine fantastica della senilità del mondo rappresentato nel Giorno. Di rado il Parini ha saputo inventare situazioni poetiche così significative e tradurle in una forma così bizzarra e così concentrata.
La Notte, veramente, tradisce in lui un altro poeta. Direi che è il suo capolavoro, se il Mezzogiorno non contenesse quella pagina di suprema eleganza, di squisitissima ambiguità fra l'adulazione e la canzonatura, di magistrali trapassi, di prodigiosa densità, di tetro e furibondo dolore che è la scena della «vergine cuccia», e quell'esordio nudo, grandioso, religioso della favola del Piacere.

Il Parini fu insieme il demolitore e il cantore della società contemporanea: forse la Notte è la parte del poema dove si vedono più compiute le due facce. Quell'ambiente, fine, grazioso, sensuale, lo attirava e insieme lo respingeva. Dovette spiare anche lui, rapito, i nascosti candori delle belle dame, e sorridere ai loro svenimenti, e respirare l'aura di solitudine e di peccato che spirava dagli angoli discreti di quelle sale: perciò nessuno come lui ci ha fatto indovinare l'ebrezza tentatrice di quel mondo. Ma, volte le spalle alle dame gentili, non vedeva più in quei palazzi altro che la testimonianza e il teatro di una vita oziosa e corrotta. Quella filza di maniaci che ci passa dinnanzi nella Notte è, dopo tanti anni che egli aveva cominciato a descrivere come il giovin signore potesse ingannare i suoi «noiosi e lenti giorni di vita», l'unica forte prova che egli vedesse bene addentro lo sfacelo di quel tedio.

La Notte, pur così incompiuta, è l'opera del Parini che ci dà la più larga misura del suo ingegno poetico. Vi si continua, non nel principio - troppo celebrato -, ma nel seguito, la poesia indefinita e meditabonda delle ombre, che già aveva avvolto in un'aura prefoscoliana la fine del Vespro; vi si aggruppa la società nobiliare con l'arte che hanno i grandi pittori nella distribuzione dei personaggi lungo la tela di un quadro affollato. Il concilio dei numi nella sala della vecchia dama è, per parecchie centinaia di versi, d'una singolare ricchezza di motivi caricaturali, descrittivi, sentimentali, e si chiude con la scena del giuoco dei tarocchi e delle carte, che per grandiosità e complessità di linee e di sfumature è il capolavoro delle canzonature pariniane.

Il poeta s'accorge, certo che l'impostazione del Mattino era pericolosa e che non si poteva continuare con quel tono didascalico minuto, con quello scrupolo di maestro a cui non sfuggiva nessuna delle possibili occupazioni del discepolo. Lo prova il fatto che dalla prima all'ultima parte del Giorno l'attenzione del precettore si sposta sempre più risolutamente dal giovin signore alla società in cui egli si muove: ma questo pentimento è perfetto solo nella Notte, assai meglio composta del Vespro. Il Parini, dunque, si accorse che egli poteva sfuggire alla monotonia e alla pedanteria del tema: il De Sanctis, dunque, parla di «fatalità» dell'argomento con troppa indulgenza.

Qui tocchiamo appunto uno dei difetti fondamentali del poema - non il solo -. Non era necessario concepire la descrizione della giornata del giovin signore con quella diligenza pesante con cui la concepì il Parini, specialmente nel Mattino. Bastava descrivere, non tutte le possibili giornate del signore, ma una sola e tipica. Con questa semplificazione che più tardi si affacciò alla fantasia del Parini, il tema diventava naturalmente drammatico e mobile invece di essere, come rimase soprattutto nel Mattino, descrittivo e stagnante.
Può sembrare angustia di critico notare i legami più retorici che poetici, e l'abilità puramente esteriore nell'enumerare i casi possibili nella giornata del signore: ma è certo che questi sono i segni di una concezione debole e la spiegazione della fatica che si prova in una lettura continuata.
Si finisce col ricevere l'impressione che il Parini, perduto dietro quelle quisquilie così simili fra di loro, sia un poeta un po' limitato. Perciò anche quelle descrizioni, ad una ad una nitidissime, finiscono per parere soverchie.

L'altro difetto fondamentale è la mancanza di unità. Una descrizione unitaria della poesia del Giorno è impossibile. Eppure la poesia grandissima impone sempre la ricerca del motivo dominante: non importa che l'impresa sia difficile, che il risultato vari da critico a critico e magari si sposti di esame in esame: tutti sentiamo che la Commedia, i Promessi Sposi, i Sepolcri, hanno motivo poetico che spiega tutti gli altri. Questo nel Parini non accade. La sua coscienza virile spiega una parte del Giorno, non tutto. L'uniformità del poema è più stilistica, voglio dire esteriore, che poetica. Nel Giorno c'é una grande ricchezza di motivi non unificati. Non li ho ancora indicati tutti: posso aggiungere l'aspra poesia del lavoro umano, ritratto con le impronte visibili del travaglio d'ogni giorno; la gradazione dell'ironia, che in certi passi ha una grandiosità davvero sinfonica: l'attitudine alla rappresentazione epica, che talora giova alla canzonatura, talora la rende monotona e forzata, talora costituisce in sé e per sé un passo di alta poesia; uno squisito senso della decorazione... Ma il complesso di questo fine mosaico è frammentario, il disegno è più ordinato che sapiente, la vita intima manca spesso.

Si è detto: - Il protagonista è un nobile frivolo e vuoto: non poteva e non doveva riuscire un personaggio vivo -. E non è vero. Qualunque anima si presta ad una rappresentazione pensosa: tutto dipende dal poeta che la ritrae. Ma poi non importerebbe nemmeno che il protagonista per sé non fosse un vero personaggio; quello che è necessario è che la vita circoli ininterrotta nel mondo scritto dal Parini; e questo non accade. Il Goldoni ha commedie di ambiente animatissime, pur senza che i singoli personaggi abbiano caratteristiche originali. Il Parini, dunque, non ha osservato quella società con uno sguardo insieme mobile e sicuro, con l'agilità di spirito che sembra necessaria per il suo argomento. Io penso cosa sarebbe riuscito il Giorno se egli avesse avuto, con le altre doti, la facilità di motteggio e la fertilità inventiva che ebbe il Voltaire nei suoi brevi romanzi, o se avesse saputo insinuare fra pagina e pagina l'atmosfera malinconica, tetra dell'ozio dei grandi.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis