Ma questo già non vuol dire che i versi del Pascoli manchino
di carattere proprio; anzi l'uno se ne discernerebbe in mezzo
a mille, a una certa sua risonanza, che qual sia non si sa
sempre dire bene, ma che non si può confondere con altra.
Certo è che le parole più comuni in un verso di lui rendono un
suono nuovo; pare che la sua voce nel profferire le faccia
vibrare lungamente e tragga dai loro seni riposti echi non
conosciuti.
Provate a leggerne qualcuno a caso:
O stolti, quelle trombe erano terra
concava donde il vento occidentale
traeva ansando strepiti di guerra
oppure
Salpava l'eternale àncora e mosse
o ancora
i fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora al vento
e negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie dimenticate.
Son versi che possono contentare qual più qual meno; alcuno è
veramente stupendo; ma tutti hanno qualche cosa di comune e di
particolare, il suono, l'indefinibile aura pascoliana.
Pare che il loro effetto maggiore nasca dalla intensità del
ritmo che li fa spaziosi e vibranti, tutta la loro consistenza
è negli accenti che spiccano una battuta dall'altra, che
creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga
con vasta eco sonora. Rileggete quello che ho sottolineato, e
vedrete se è vero.
In termini tecnici, la loro ragione è meramente quantitativa;
il verso è sentito come un accordo di tesi profondamente
calcate e di arsi vibranti, come musica pura.
Ma intendiamoci bene; musicali, si dice, non melodiosi; poiché
a considerare le sillabe e i suoni in se stessi, quanti ce n'è
invece duri aspri spezzati difficili!
E vorrei dire che la loro melodia non nasce semplicemente e
materialmente dai suoni: nasce da ciò che egli, facendoli, li
ha cantati; se li è cantati. Ma non è già la voce intonata
caldamente a piena gola sulla lira, modulata e variata nella
ricchezza della melodia; è una voce bianca che lascia cadere
il verso come cosa venuta di lontano, da un invisibile mondo;
voce piana, uguale, un poco stanca d'uomo a cui le parole non
importano, poiché la sua anima è assorta: e gli basta che in
quell'abbandono monotono di cantilena duri la muta eco dei
sogni.
In quanto a fattura e struttura il verso del Pascoli è cosa
molto semplice, le parole per solito seguono l'una l'altra
secondo la legge dell'uso più comune. Non c'è discorso, non
c'è disegno, non c'è composizione; e la frase è la frase
usuale, che si trova su tutte le bocche. Voi potete scriverne
di seguito quanti volete, senza che nessuno s'accorga mai,
almeno alla disposizione e alla composizione delle parole, di
avere innanzi dei versi. Da questo punto di vista non sono
altro che prosa, la più povera delle prose («O madre il cielo
si riversa in pianto, oscuramente, sopra il camposanto. È
mezzanotte, nevica. A la pieve suonano a doppio, suonano
l'entrata. Ti splende su l'umile testa la sera d'autunno,
Maria. Uomini nella truce ora dei lupi pensate all'ombra del
destino ignoto che ne circonda»).
Insomma, son versi senza forma; ma - perdonatemi l'orribile
bisticcio - in quella mancanza di forma è la loro forma
propria. In quell'indefinibile contrasto fra la intensità del
ritmo e la povertà del suono, fra la profondità delle
intenzioni e il languore dell'espressione, in quella musica
vaga di risonanze e di echi, di suggestioni e di accentuazioni
il poeta ha sentito se stesso; ha creato la qualità ultima
della sua poesia.
Io non saprei descriverla meglio che con le parole di lui; ché
veramente i suoi versi, secondo egli disse,
cantano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
rumore.
Cantano forte e non fanno rumore: proprio così. |