Il modo di concepire del Pascoli si stacca da tutta la
tradizione della nostra poesia: e perciò è importante anche
per i suoi riflessi nella storia della nostra lirica. Il
Pascoli è l'iniziatore della poesia frammentaria che ha
dominato dai suoi tempi sino ad oggi, cioè sino alla « poesia
pura ». Fino a Carducci la nostra lirica ha uno. scheletro,
uno sviluppo lineare, un prima e un poi voluti dalla logica,
un nucleo e una sintassi subordinativa: le liriche del Pascoli
non hanno un filo né narrativo né logico; e quando egli lo
cerca, forza la propria natura. La sua poesia è una vibrazione
che si ripete ora più bassa ora più alta, è senza dimensioni e
senza linee; è tutta atmosfera e stato d'animo. Il suo
endecasillabo si disperde in un seminio sonoro, è un fiotto di
onde musicali con arsi e tesi distribuite senza una legge
visibile; il suo periodare è grammaticalmente slegato. Lo
stato d'animo dà a questi suoni vaganti un'unità poetica
insolita e affascinante.
La poesia riuscita del Pascoli è tutta di questo genere.
Quando egli tenta la poesia di pensiero, la sua inettitudine
alla sintassi tradizionale, cioè alla subordinazione logica,
si rivela apertamente: la sua poesia rimane senza nessi:
esempio, il poemetto L'eremita.
Questo modo di concepire è indissolubile da quello stato
d'animo che è il tema della poesia pascoliana. E così si
spiega che la prosa del Pascoli, nella quale egli vuol fare un
discorso filato, ragionare, congegnare delle idee, sia fra le
peggiori della nostra letteratura.
Lo stato d'animo del Pascoli è quello d'un uomo che, sperduto
nella natura, sente un ineffabile e melanconico riposo. Le sue
evocazioni della campagna, le sue contemplazioni del cielo
stellato conservano l'impronta d'un passato di dolore: il
Pascoli non è uno spirito pacato, ma pacificato. Dietro tutte
le sue contemplazioni c'è una storia: come se osservate un suo
ritratto, dietro il suo sguardo tranquillo si stende un velo
lontano. Il senso e il valore della sua poesia è in questo
passato, sottinteso e assorbito in quel silenzio intento dei
campi. Notate che la vera poesia del Pascoli è quella che
nasconde la fonte da cui è derivata: i lutti della sua
famiglia, che sono il seme della sua poesia gli hanno
suggerito, fra le tante, ben poche pagine belle; e così quel
suo continuo travagliarsi intorno al problema del male e del
mistero, che ha generato il suo stato d'animo di poeta, non
gli ha dettato nemmeno una lirica vitale. Quei lutti e quel
problema sono il presupposto della sua poesia, non la sua
poesia.
Dai lutti domestici sono nati un ciclo di liriche familiari e
un ciclo di liriche che si aggirano intorno al motivo della
morte. Questo motivo, singolarmente insistente nelle Myricae e
ancora nei Canti di Castelvecchio, si continua a più larghi
intervalli nei Poemetti e nei Poemi Conviviali. Il Pascoli lo
ha rivoltato da molti lati e ha finito per farsene un
problema. Seguendo una cronologia ideale si può dire che egli
abbia incominciato col cercare di fermarne l'immagine e la
sensazione, con l'approfondire in forma di scena
impressionante qualche credenza popolare, e poi - in un
periodo già più lontano dai suoi lutti, e già più sereno -
abbia meditato sulla vita che continua e sul significato della
morte. Così per la porta della morte egli entrava nel regno
del mistero.
Di tutto questo lavorìo ben poco è rimasto. Il tentativo, che
ha ossessionato per lungo tempo il Pascoli, di fissare
l'immagine o l'impressione della morte nel momento drammatico
in cui essa compare a mietere le sue vittime, è fallito quasi
sempre: il Pascoli non aveva temperamento drammatico. Sono
rimaste alcune sensazioni che appartengono alla consueta sfera
pallida e lontana della sua poesia: apparizioni di morti come
di ombre che riprendono, in atteggiamenti spenti, le abitudini
care e perdute della vita, e danno a chi legge un senso
ineffabile di sgomento e di pena; la tranquillità desolata che
circonda una tomba, quel senso insieme di annullamento e di
sopravvivenza che essa ci lascia nell'anima. Momenti e non
più. Una sola lirica bella è nata da queste contemplazioni e
da questi colloqui coi morti: La tessitrice, una specie di
colloquio con l'ombra di Laura, trasferito nel solito ambiente
familiare e dimesso, alleggerito in un'atmosfera di larve, un
po' guasto dalla chiusa di ballata romantica.
Il pensiero della morte gli impose il problema della fede. È
evidente in alcune delle Myricae già citate che la prima tappa
del Pascoli su questo cammino fu, se non atea, negativa. La
morte in quelle brevissime liriche non è che un'apparizione
orrenda: tracce, forse, dello stato d'animo cupo e ribelle in
cui lo avevano gettato i lutti domestici. Da questa cupezza si
sollevò con un conforto misterioso, con un senso malinconico
di pace il trapasso è segnato dalle poesie che chiudono
Myricae - In cammino, Ultimo sogno - che sono fondamentali
nello svolgimento del Pascoli. Comincia con esse il suo stato
d'animo caratteristico: un appagamento malinconico, uno
smemoramento triste. Di lì comincia quel suo atteggiamento di
fronte alla vita che circonda di silenzio, di stupore, di
lontananza, di malinconica dolcezza i quadri che egli
descrive, e che è anche più evidente quando egli non lo
rappresenta direttamente in espressioni come: «Questo mondo
odorato di mistero», «Un'orma lieve, che non sa sia Spento
dolore o gioia che non fu», «E a tutto era più presso il cuore
Di quanto il piede n'era più lontano».
Così, con questa dolce rassegnazione, comincia il
pellegrinaggio poetico del Pascoli nel regno del mistero. E a
questa luce nuova anche la morte gli si colora diversamente.
In Suor Virginia, che forse è il suo capolavoro; la morte è
accettata con un'umiltà contenta e come disciolta nell'arcana
e serena immensità della notte. La lirica, apparentemente
dispersa, prende a poco a poco il lettore e l'attira nella sua
sfera d'incanto, nel mistero di quella notte e di quella
dipartita. Il brivido che si propaga di verso in verso, non ha
più nulla di pauroso: è sentimento e presentimento d'un
mistero che si compie e dinanzi al quale l'anima tace
affascinata e persuasa. La parola è musica: non la musica
congegnata ed esteriore di troppa poesia del Pascoli, mala
musica dello spirito e delle cose.
Similmente La cetra d'Achille è, in una sfera d'eroica
tristezza e in un'intonazione un po' monotona, la
rappresentazione musicale dell'ultima notte d'un vivente, una
meditazione senza parole intorno al mistero della vita che
cessa.
Nel Pascoli il mistero è rappresentato da quest'incanto
malinconico, in cui l'anima si dimentica e si perde; o da
un'esaltazione, che per lo più cade in una retorica di tipo
vittorughiano, e solo riesce interamente nella sceneggiatura
ariosa e deserta del Libro, nelle sue grandi onde sonore e nei
suoi improvvisi e sospesi silenzi.
Ma il Libro in confronto con Suor Virginia è un po' esteriore
e ha già qualche momento di debolezza che nasce dalla sua
natura simbolica. Peggiori sono gli altri poemetti simbolici:
«Il cieco», «Il focolare», «Il naufrago» ecc., dove - se
qualche cosa si salva - questa è la modulazione musicale del
paesaggio.
Si riconferma così per altra via che il Pascoli sapeva
esprimere il suo stato d'animo sopra tutto per mezzo della
contemplazione della natura, pur avendo lasciato anche in
questi motivi poco di veramente bello alcune brevi Myricae,
alcuni brevi Canti di Castelvecchio, Suor Virginia, il libro,
e frammenti di molte poesie incerte e forzate.
Ben presto il Pascoli mirò verso il complesso, verso i
sentimenti insoliti e le riflessioni profonde: e non riuscì
mai ad altra che a tentativi. Tentò la psicologia torbida o
sublime in Digitale purpurea e nel Sogno della vergine e,
tranne brevi momenti, si perdette in intrighi simbolici e
balbettamenti musicali; tentò di filosofare sulla vita, e si
smarrì nelle sottigliezze dell'Eremita o nelle declamazioni
dei Due fanciulli; tentò di allargare il suo sentimento del
mistero nella speculazione dell'universo stellato, e si smarrì
troppe volte nell'ambizione del sublime o in un ingenuo
sfoggio di dottrina astronomica. Il regno della sua poesia era
quello semplice e indefinito che abbiamo tante volte
accennato: quello de Sole e la lucerna e della seconda parte
de La piada, che esprimono con misurata delicatezza il suo
ideale modesto di vita; quello delle persone umili della sua
poesia - Suor Virginia, la servetta di monte, Paulo Ucello, la
vecchietta coetanea del papa - nelle quali si coglie una nota
sincera, sia pure qua e là adulterata da una troppo insistente
consapevolezza.
È appunto questo il tarlo che rode gran parte della sua poesia
la soverchia coscienza della propria sublimità sentimentale e
intellettuale. Come la poesia di D'Annunzio sarà adulterata
dal desiderio di una sensibilità eccezionale o di
un'intelligenza e di una potenza superumana, così quella di
Pascoli è sofisticata da questo desiderio di pensieri, e sopra
tutto di sentimenti, non mai detti. C'è qualche cosa di
smisurato e di falso così nella bontà e nell'umiltà del
Pascoli come in quelle sue meditazioni sul grande problema
della vita. Egli non era sostenuto né da un cuore veramente
grande né da una mente forte: e, assumendosi una parte che non
era la sua, doveva fatalmente cadere nell'infantilismo e nel
vittorughismo.
Quindi per lo più la sua poesia si restringe nell'ambito breve
ma profondo di una Sehnsucht che svapora attraverso una
campagna silenziosa. Poche volte il Pascoli ha saputo
infondere questa sua immobile malinconia in una lirica più
vasta che non degenerasse in conati incoerenti: in Suor
Virginia e nei poemetti cristiani, che esprimono, con maggiore
tristezza, la stessa spiritualità velata e sognante del
poemetto italiano. Forse la critica futura dirà che queste
sono le sole liriche in cui il Pascoli abbia superato i limiti
che sembravano fatali al suo temperamento. Il Pascoli non si è
mai ritrovato in un'atmosfera così adatta ad esprimere la
storia intima del suo spirito, come quando descriveva la
malinconia del paganesimo morente e la fiducia indefinita e
triste del cristianesimo nel suo primo sorgere. Quei due mondi
crepuscolari rappresentavano veramente la materia concreta
adatta alla sua anima mortificata e ansiosa: sicché quel senso
di sospensione di mestizia, quel bisogno d'un fraterno
conforto in mezzo all'universale incertezza, quel bisogno di
bontà e di perdono di esaltazione spirituale che tentarono
vanamente di esprimersi nella contemplazione del mistero
cosmico e nella rappresentazione di grandi simboli o di fatti
leggendari o contemporanei, si trovarono invece espressi senza
nebulosità e senza leziosaggini misere in una grande epoca
della storia in cui tutta una folla doveva aver sentito quello
smarrimento e quell'ansia, quel desiderio d'amore. Mentre il
Pascoli sembrava dimenticare se stesso nelle umili e nelle
altre figure d'un passato remotissimo, proprio allora
rappresentava nitidamente la sua anima profonda che invano
aveva tentato di parlare nelle tragedie proprie e nelle
proprie meditazioni. L'apparente oblìo di sé nella campagna
velata e silenziosa, e nell'elegia di un'età lontana diede al
Pascoli i momenti della sua vera e nuova poesia. |