CRITICA: GIOVANNI PASCOLI

 LA POESIA DEL PASCOLI

 AUTORE: Attilio Momigliano         TRATTO DA: Storia della letteratura italiana

 

Il modo di concepire del Pascoli si stacca da tutta la tradizione della nostra poesia: e perciò è importante anche per i suoi riflessi nella storia della nostra lirica. Il Pascoli è l'iniziatore della poesia frammentaria che ha dominato dai suoi tempi sino ad oggi, cioè sino alla « poesia pura ». Fino a Carducci la nostra lirica ha uno. scheletro, uno sviluppo lineare, un prima e un poi voluti dalla logica, un nucleo e una sintassi subordinativa: le liriche del Pascoli non hanno un filo né narrativo né logico; e quando egli lo cerca, forza la propria natura. La sua poesia è una vibrazione che si ripete ora più bassa ora più alta, è senza dimensioni e senza linee; è tutta atmosfera e stato d'animo. Il suo endecasillabo si disperde in un seminio sonoro, è un fiotto di onde musicali con arsi e tesi distribuite senza una legge visibile; il suo periodare è grammaticalmente slegato. Lo stato d'animo dà a questi suoni vaganti un'unità poetica insolita e affascinante.
La poesia riuscita del Pascoli è tutta di questo genere. Quando egli tenta la poesia di pensiero, la sua inettitudine alla sintassi tradizionale, cioè alla subordinazione logica, si rivela apertamente: la sua poesia rimane senza nessi: esempio, il poemetto L'eremita.
Questo modo di concepire è indissolubile da quello stato d'animo che è il tema della poesia pascoliana. E così si spiega che la prosa del Pascoli, nella quale egli vuol fare un discorso filato, ragionare, congegnare delle idee, sia fra le peggiori della nostra letteratura.

Lo stato d'animo del Pascoli è quello d'un uomo che, sperduto nella natura, sente un ineffabile e melanconico riposo. Le sue evocazioni della campagna, le sue contemplazioni del cielo stellato conservano l'impronta d'un passato di dolore: il Pascoli non è uno spirito pacato, ma pacificato. Dietro tutte le sue contemplazioni c'è una storia: come se osservate un suo ritratto, dietro il suo sguardo tranquillo si stende un velo lontano. Il senso e il valore della sua poesia è in questo passato, sottinteso e assorbito in quel silenzio intento dei campi. Notate che la vera poesia del Pascoli è quella che nasconde la fonte da cui è derivata: i lutti della sua famiglia, che sono il seme della sua poesia gli hanno suggerito, fra le tante, ben poche pagine belle; e così quel suo continuo travagliarsi intorno al problema del male e del mistero, che ha generato il suo stato d'animo di poeta, non gli ha dettato nemmeno una lirica vitale. Quei lutti e quel problema sono il presupposto della sua poesia, non la sua poesia.
Dai lutti domestici sono nati un ciclo di liriche familiari e un ciclo di liriche che si aggirano intorno al motivo della morte. Questo motivo, singolarmente insistente nelle Myricae e ancora nei Canti di Castelvecchio, si continua a più larghi intervalli nei Poemetti e nei Poemi Conviviali. Il Pascoli lo ha rivoltato da molti lati e ha finito per farsene un problema. Seguendo una cronologia ideale si può dire che egli abbia incominciato col cercare di fermarne l'immagine e la sensazione, con l'approfondire in forma di scena impressionante qualche credenza popolare, e poi - in un periodo già più lontano dai suoi lutti, e già più sereno - abbia meditato sulla vita che continua e sul significato della morte. Così per la porta della morte egli entrava nel regno del mistero.

Di tutto questo lavorìo ben poco è rimasto. Il tentativo, che ha ossessionato per lungo tempo il Pascoli, di fissare l'immagine o l'impressione della morte nel momento drammatico in cui essa compare a mietere le sue vittime, è fallito quasi sempre: il Pascoli non aveva temperamento drammatico. Sono rimaste alcune sensazioni che appartengono alla consueta sfera pallida e lontana della sua poesia: apparizioni di morti come di ombre che riprendono, in atteggiamenti spenti, le abitudini care e perdute della vita, e danno a chi legge un senso ineffabile di sgomento e di pena; la tranquillità desolata che circonda una tomba, quel senso insieme di annullamento e di sopravvivenza che essa ci lascia nell'anima. Momenti e non più. Una sola lirica bella è nata da queste contemplazioni e da questi colloqui coi morti: La tessitrice, una specie di colloquio con l'ombra di Laura, trasferito nel solito ambiente familiare e dimesso, alleggerito in un'atmosfera di larve, un po' guasto dalla chiusa di ballata romantica.
Il pensiero della morte gli impose il problema della fede. È evidente in alcune delle Myricae già citate che la prima tappa del Pascoli su questo cammino fu, se non atea, negativa. La morte in quelle brevissime liriche non è che un'apparizione orrenda: tracce, forse, dello stato d'animo cupo e ribelle in cui lo avevano gettato i lutti domestici. Da questa cupezza si sollevò con un conforto misterioso, con un senso malinconico di pace il trapasso è segnato dalle poesie che chiudono Myricae - In cammino, Ultimo sogno - che sono fondamentali nello svolgimento del Pascoli. Comincia con esse il suo stato d'animo caratteristico: un appagamento malinconico, uno smemoramento triste. Di lì comincia quel suo atteggiamento di fronte alla vita che circonda di silenzio, di stupore, di lontananza, di malinconica dolcezza i quadri che egli descrive, e che è anche più evidente quando egli non lo rappresenta direttamente in espressioni come: «Questo mondo odorato di mistero», «Un'orma lieve, che non sa sia Spento dolore o gioia che non fu», «E a tutto era più presso il cuore Di quanto il piede n'era più lontano».

Così, con questa dolce rassegnazione, comincia il pellegrinaggio poetico del Pascoli nel regno del mistero. E a questa luce nuova anche la morte gli si colora diversamente. In Suor Virginia, che forse è il suo capolavoro; la morte è accettata con un'umiltà contenta e come disciolta nell'arcana e serena immensità della notte. La lirica, apparentemente dispersa, prende a poco a poco il lettore e l'attira nella sua sfera d'incanto, nel mistero di quella notte e di quella dipartita. Il brivido che si propaga di verso in verso, non ha più nulla di pauroso: è sentimento e presentimento d'un mistero che si compie e dinanzi al quale l'anima tace affascinata e persuasa. La parola è musica: non la musica congegnata ed esteriore di troppa poesia del Pascoli, mala musica dello spirito e delle cose.
Similmente La cetra d'Achille è, in una sfera d'eroica tristezza e in un'intonazione un po' monotona, la rappresentazione musicale dell'ultima notte d'un vivente, una meditazione senza parole intorno al mistero della vita che cessa.
Nel Pascoli il mistero è rappresentato da quest'incanto malinconico, in cui l'anima si dimentica e si perde; o da un'esaltazione, che per lo più cade in una retorica di tipo vittorughiano, e solo riesce interamente nella sceneggiatura ariosa e deserta del Libro, nelle sue grandi onde sonore e nei suoi improvvisi e sospesi silenzi.
Ma il Libro in confronto con Suor Virginia è un po' esteriore e ha già qualche momento di debolezza che nasce dalla sua natura simbolica. Peggiori sono gli altri poemetti simbolici: «Il cieco», «Il focolare», «Il naufrago» ecc., dove - se qualche cosa si salva - questa è la modulazione musicale del paesaggio.

Si riconferma così per altra via che il Pascoli sapeva esprimere il suo stato d'animo sopra tutto per mezzo della contemplazione della natura, pur avendo lasciato anche in questi motivi poco di veramente bello alcune brevi Myricae, alcuni brevi Canti di Castelvecchio, Suor Virginia, il libro, e frammenti di molte poesie incerte e forzate.
Ben presto il Pascoli mirò verso il complesso, verso i sentimenti insoliti e le riflessioni profonde: e non riuscì mai ad altra che a tentativi. Tentò la psicologia torbida o sublime in Digitale purpurea e nel Sogno della vergine e, tranne brevi momenti, si perdette in intrighi simbolici e balbettamenti musicali; tentò di filosofare sulla vita, e si smarrì nelle sottigliezze dell'Eremita o nelle declamazioni dei Due fanciulli; tentò di allargare il suo sentimento del mistero nella speculazione dell'universo stellato, e si smarrì troppe volte nell'ambizione del sublime o in un ingenuo sfoggio di dottrina astronomica. Il regno della sua poesia era quello semplice e indefinito che abbiamo tante volte accennato: quello de Sole e la lucerna e della seconda parte de La piada, che esprimono con misurata delicatezza il suo ideale modesto di vita; quello delle persone umili della sua poesia - Suor Virginia, la servetta di monte, Paulo Ucello, la vecchietta coetanea del papa - nelle quali si coglie una nota sincera, sia pure qua e là adulterata da una troppo insistente consapevolezza.
È appunto questo il tarlo che rode gran parte della sua poesia la soverchia coscienza della propria sublimità sentimentale e intellettuale. Come la poesia di D'Annunzio sarà adulterata dal desiderio di una sensibilità eccezionale o di un'intelligenza e di una potenza superumana, così quella di Pascoli è sofisticata da questo desiderio di pensieri, e sopra tutto di sentimenti, non mai detti. C'è qualche cosa di smisurato e di falso così nella bontà e nell'umiltà del Pascoli come in quelle sue meditazioni sul grande problema della vita. Egli non era sostenuto né da un cuore veramente grande né da una mente forte: e, assumendosi una parte che non era la sua, doveva fatalmente cadere nell'infantilismo e nel vittorughismo.
Quindi per lo più la sua poesia si restringe nell'ambito breve ma profondo di una Sehnsucht che svapora attraverso una campagna silenziosa. Poche volte il Pascoli ha saputo infondere questa sua immobile malinconia in una lirica più vasta che non degenerasse in conati incoerenti: in Suor Virginia e nei poemetti cristiani, che esprimono, con maggiore tristezza, la stessa spiritualità velata e sognante del poemetto italiano. Forse la critica futura dirà che queste sono le sole liriche in cui il Pascoli abbia superato i limiti che sembravano fatali al suo temperamento. Il Pascoli non si è mai ritrovato in un'atmosfera così adatta ad esprimere la storia intima del suo spirito, come quando descriveva la malinconia del paganesimo morente e la fiducia indefinita e triste del cristianesimo nel suo primo sorgere. Quei due mondi crepuscolari rappresentavano veramente la materia concreta adatta alla sua anima mortificata e ansiosa: sicché quel senso di sospensione di mestizia, quel bisogno d'un fraterno conforto in mezzo all'universale incertezza, quel bisogno di bontà e di perdono di esaltazione spirituale che tentarono vanamente di esprimersi nella contemplazione del mistero cosmico e nella rappresentazione di grandi simboli o di fatti leggendari o contemporanei, si trovarono invece espressi senza nebulosità e senza leziosaggini misere in una grande epoca della storia in cui tutta una folla doveva aver sentito quello smarrimento e quell'ansia, quel desiderio d'amore. Mentre il Pascoli sembrava dimenticare se stesso nelle umili e nelle altre figure d'un passato remotissimo, proprio allora rappresentava nitidamente la sua anima profonda che invano aveva tentato di parlare nelle tragedie proprie e nelle proprie meditazioni. L'apparente oblìo di sé nella campagna velata e silenziosa, e nell'elegia di un'età lontana diede al Pascoli i momenti della sua vera e nuova poesia.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis