Nella poesia latina il mondo poetico del Pascoli italiano è
trasportato integralmente. Fuori è rimasta qualche onomatopea:
qui la tradizione è stata più forte del gusto e della dottrina
poetica del poeta moderno, anche della sua audacia. Quel che
Valgimigli ha detto a voi di Achille e Odisseo e Alessandro,
che nel Pascoli si somigliano e si vede che sono come tanti
ritratti di una persona sola, «e questa persona la riconosco
subito, con quella sua faccia quadrata e quel suo occhio
placido e triste; è il Pascoli», questo vale altrettanto per
il Virgilio e per l'Orazio dei Carmina e non meno per il
Centurione. Il quale di troppo buona grazia si lascia prendere
prigioniero dai bambini e accetta di narrar loro quel che
l'interessa con una bonarietà che par si addica piuttosto al
secolo dei bambini che al primo avanti Cristo; se anche Orazio
si divertì dei vernae procaces e delle loro monellerie. Nel
Centurio il Pascoli tenta di mutare in poesia i
fraintendimenti degl'interlocutori bambini con procedimento
non ignoto alla sua lirica italiana. La madre fraintende, se
pure in modo del tutto diverso, il più bambino di tutti, Rufio
Crispino. Un bambino e una giovinetta sono il soggetto
rispettivamente del Paedagogium e della Phidyle: quello è in
tutta la prima parte una trasposizione dei Due Fanciulli. I
ragionamenti di Phidyle assomigliano a quelli di Rosa e di
Viola. E anche i carmi cristiani più giustamente celebrati,
sebbene da molti per ragioni non d'arte ma di contenuto,
Thallusa e Pomponia Graecina hanno bambini, vivi e morti, al
centro. Poesie antiche che abbiano per soggetto un bambino,
non ne conosco.
Tutta la prima parte di quello che dei poemi profani del
Pascoli sembra a me il capolavoro, il Fanum Vacunae, è
intessuto di sogni. Il sogno nella poesia antica è presagio,
vero o ingannevole; non rivela l'uomo a sé stesso. Qui tornano
a galla sentimenti che l'Orazio del Pascoli, forse inconsci,
ebbe in cuore, l'aspirazione alla mamma non conosciuta e di
cui vorrebbe, almeno in sogno, vedere il volto. L'Orazio
storico non parla della mamma, ed è alieno da questo così
raffinato sentire. Sul sogno dell'Orazio pascoliano agiscono
rumori che il dormiente sente e intende senza ridestarsi;
questa è osservazione moderna, che solo un poeta così delicato
e talvolta così incorporeo poteva sfruttare. Le visioni degli
antichi hanno contorni molto più netti.
Le Georgiche ci fanno rivivere innanzi agli occhi gli animali
con movenze e aspetti caratteristici, infondono in essi magari
vita umana; ma a ogni immagine è concesso un verso o poco più.
Non si troverà mai in esse una descrizione così
particolareggiata e lenta della sveglia mattutina degli
uccelli, come nella settima lirica del Fanum Vacunae. Gli
uccelli cacciano fuori il capino nascosto sotto le ali e
posano per terra la zampina rimasta a mezz'aria, non appena
l'allodola ha dato il segnale con la voce tintinnante. Il
paragone militare riempie cinque versi. E si seguita a lungo
con particolari squisiti. Si distinguono le parti delle
rondini e le parti dei passerotti (al solito un diminutivo,
passerculi): gli uccelli notturni, che la tromba antelucana
rende nervosi, fanno st! Non è questa la sola armonia
imitativa di questi versi, se anche rimane la sola onomatopea:
gli altri effetti fonici sono allusivi, non riproduttivi,
allitterazioni sapienti, silvas per omnes sibilus sonat levis
- st! hinc et illinc mussitant tristes aves, e, più
discretamente, serie di parole che finiscono tutte in s:
luteis relictis nidulis hirundines. In mezzo a una nota umana,
il destarsi della casa:
Pelluntur absque cardinum rittu fores,
patent fenestrae molliter ceu palpebrae.
Queste finestre che si aprono mollemente come palpebre, mi
sembrerebbero impossibili in poesia latina antica: il paragone
nella soggettiva indeterminatezza è moderno e pascoliano. Ed è
già, al confronto, quasi più classico:
Ma non lontana è l'umile casetta
con gli occhi aperti delle sue finestre,
che veglia il dì, che a sera poi l'aspetta...
E nessun poeta antico, inneggiando al sole, avrebbe cominciato
con un particolare pittorico del suo sorgere, le nuvole rosee
da cui s'inalza; nessuno avrebbe osato dire, e neppure far
dire a uccelli, che il sole di oggi è simile a quello d'ieri,
più che un loro uovo all'altro. Il proverbio non ha posto
nella lirica antica; del Pascoli è invece caratteristico (ed è
conforme alla sua poetica) questo mescolare modi familiari, e
volgari perforo talvolta, in lirica che vuol essere sublime.
E le cose in questa poesia moderna sono personificate con
molto minor ritegno che nell'antica: personificate, ma non
allegoricamente, non trasformate in dei, di quella categoria
di divinità-concetti astratti che la religione e la teologia
romana predilessero, ma umanizzate, sentite come creature
umane. Nel Jugurtha, nel breve carme celebre o, secondo altri,
infame per gli "spasimanti raffinamenti nel rendere le
sensazioni", le tenebre piene di silenzio videro il re chiuso
nel Mamertino; il re volse indarno intorno gli occhi aperti:
Tum tenebrae plenae regem videre
silenti:
rex oculos circum nequiquam volvit apertos.
È moderno anche che le cieche tenebre vedano. Due righi più
sotto il re si tappa gli occhi, vieta a essi, pur avidi, di
vedere, per poter credere lui di poter vedere, purché voglia;
si preme gli orecchi inconsapevole e li distoglie sordi dalla
tacita ombra:
Obstruit ipse oculos, avidos vetat
ipse videre,
ut se posse putet, velit modo: comprimit aures
inscius et tacita surdas avertit ab umbra.
È l'analisi raffinata e complicata di un'anima disperata, che
ha paura della verità: antica non è né questa psicologia né
questa analisi.
Lo stesso si può dire del paesaggio. Anche in una poesia che
vuol essere pastorale e idillica, le Bucoliche, non v'è di
paesaggio una descrizione filata, per quanto rapide notazioni,
sparse qua e là, bastino Perfettamente a creare l'atmosfera.
Ma, direi, l'ambiente rimane umano: la natura è, direi, per
l'uomo. 1 versi che ho letti nel Rufius Crispinus sono
dapprima, come si direbbe in pittura, una marina; una marina
senza riferimento all'uomo: il mare vive per sé, ha il proprio
sentimento in sé. E importano particolari che quel sentimento
suscitano: le lunghe file dei gabbiani, e le vele che vanno
per l'alto mare, poi ombre rapide, alate, e la villa di
Nerone. Poi lo sciabordare delle onde calme che mordicchiano
lievi lievi i sassolini, che tentano il lido con suggere
breve.
Si ripensi ai due ultimi versi della prima ecloga virgiliana:
et iam summa procul villarum culmina
fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
Qui la breve notazione paesistica serve, guardata dal di
fuori, a indicare l'ora, la sera; guardata dal di dentro, a
suscitare lo stato d'animo serotino. La vita umana non è
perduta di vista neppure per un momento è caratteristica
dell'ora il veder di lontano fumare i comignoli delle case
rustiche. E le ombre non sono ombre d'ala, non portano nel
paesaggio un elemento di mobilità e di irrequietezza; sono
ombre di montagne, statiche e maestose.
La forma latina, che pur sembra nata e cresciuta col corpo,
riveste nel Pascoli sempre un sentimento non soltanto
italiano, anzi europeo o universale, ma moderno e pascoliano.
Il mio venerato collega, Attilio Momigliano, che ammira molto
i poemi cristiani, ha scritto che «il Pascoli non si è mai
ritrovato in una atmosfera così adatta a esprimere la storia
intima del suo spirito come quando descriveva la malinconia
del paganesimo morente e la fiducia indefinita e triste del
cristianesimo nel suo primo sorgere». Questo significa che il
Pascoli non è umanista, che egli rimane uomo moderno anche in
ciò, che la dottrina etica del cristianesimo è per lui come
per ognuno di noi uomini del ventesimo secolo, credenti e non
credenti, qualche cosa di incondizionato. |