Se l'Alfieri chiamò il
Petrarca « gentil d'amor mastro profondo», certo con l'intenzione
romantica di scorgere nel poeta l'elaboratore di un'esperienza di vita, ci
stupirà forse, dopo aver indicato quanto sull'interpretazione del
Canzoniere gravasse l'accento della disposizione rettorica del secolo, che
il Muzio nella Varchina non stimasse tanto il Petrarca come lirico, al
quale dichiaratamente anteponeva Pindaro e gli altri maggiori lirici
greci, quanto, secondo la definizione che ne avrebbe data l'Alfieri, come
insuperabile maestro delle cose d'amore: « Né del Petrarca crederò io, che
pareggi (come tiene il Varchi) Pindaro con gli altri lirici di Grecia.
Dirò bene che egli trattate ha le cose di Amore più gentilmente, che poeta
alcun greco, o latino. Ma altro è esser gran poeta, altro parlar ben di un
soggetto ». In realtà l'opinione che l'esempio petrarchesco fosse
recuperabile in una dimensione diversa da quella indicata dalle Prose
della Volgar Lingua e quindi delle successive poetiche, è largamente
diffusa nel Cinquecento; anche se, come nell'impostazione data dal Graf al
suo noto studio sul petrarchismo, si è preferito colorire la fortuna del
Petrarca nel XVI secolo a tinte forti e senza alcuna variazione di tono.
Quanto il gusto non diciamo già del documento di per sé illuminante, ma
dell'aneddoto come dato di vivace coloritura fine a se stessa abbia
impoverito, nel caso del petrarchismo dei cinquecentisti, una trama di
rapporti storici estremamente complessa, non si lamentò mai abbastanza. Ma
tornando alla testimonianza che abbiamo riprodotta dalla Varchina, non si
dovrà credere che il Muzio Iustinopolitano brillasse nel suo secolo di un
particolare disdegno per una interpretazione formalistica e rettorica di
un testo poetico, sì da accentuarne per contrapposto gli aspetti più
contenutistici o addirittura didascalici, come di vade-mecum o di codice
spirituale. Il Toffanin, esaminando la posizione umanistica del Minturno,
ne scorgeva un indizio fondamentale nella incredulità che la poesia
potesse avere influenza sulla vita. Di tale opinione abbiamo visto essere
il Bembo che in Cicerone non trovava niente a desiderare quanto allo
stile, anche se la vita dell'oratore in più di un punto poteva essere
riprovata. Certamente non siamo di fronte ad un atteggiamento troppo
avvertito quanto ai rapporti tra eticità ed arte; tuttavia ritengo che
sarebbe errato richiamare una forma mentale di così vasta divulgazione
allo slogan: l'arte per l'arte. Pronunciandosi in tal senso al Bembo
premeva soprattutto di assicurare l'autonomia della poetica come
precettistica rettorica da poter esser contemplata secondo una direzione
indipendente d'indagine. Ciò non significava tuttavia che fosse del tutto
accantonato l'interesse al mondo morale dello scrittore: è insomma una
distinzione che tende a considerare lo stile secondo un principio canonico
che lo riduce a una serie di indicazioni astratte, lontanissima da un
atteggiamento moderno che lo interpreti come integralità dell'espressione;
e d'altra parte, e direi di conseguenza, è ancora una distinzione disposta
a identificare il testo poetico, nelle sue aperture più propriamente
liriche, come documento di vita da poter utilizzare in funzione
psicologica. Se la vita di Cicerone non meritava forse di essere imitata,
poteva ritrovarsi un autore il cui stile e la cui vita fossero ugualmente
da proporsi per l'imitazione. Ancora una volta fu il caso del Petrarca:
laddove per il Boccaccio - come abbiamo veduto poteva ripetersi quanto si
era detto per Cicerone: che il suo stile fosse sempre da proporsi come
esempio di bene scrivere, ma non altrettanto fosse da imitare la sua vita
(cioè quanto le sue scritture potevano, per induzione psicologica, far
pensare della sua vita stessa) che più di una volta si dimostrava condotta
con poco giudizio. Ci si rivolse dunque al Petrarca nel segno delle
coincidenze spirituali che il Cinquecento riconobbe nel Canzoniere e che
si potranno facilmente ammettere individuando appunto nel Petrarca
l'esponente di una tradizione cristiana che, oltre ogni compromesso
platonico, assicurava il più certo sfocio alle esigenze spirituali del
secolo, garantendo ad un tempo pienamente il senso d'arte dell'umanesimo.
Tale aspetto che potremmo chiamare dell'imitatio vitae allato a quello
dell'imitatio stili appare generalmente trascurato o ignorato, mentre esso
ha un'importanza grandissima nella storia del petrarchismo.
Riferendoci semplicemente alla disposizione rettorica del Bembo, sarà
facile intravedere quali autorizzazioni da essa potessero derivare a una
posizione d'imitatio vitae, attraverso un approfondimento o un'estensione
di quel concetto di imitazione integrale ed esclusiva. Certamente non
dovrà essere sottovalutato l'impulso che per una tale interpretazione
vissuta del petrarchismo si comunicava al Bembo e alla coscienza del primo
Cinquecento dalle tesi o dai temi del De Imitatione a G. F. Pico: «
imitatio autem totam complectitur scriptionis alicuius formam, singulas
eius partes assequi postulat: in universa stili structura atque corpore
versatur ». Tuttavia è necessario affermare che sulla base della stessa
distinzione posta tra stile e vita, un interesse diretto ad una
considerazione psicologica del testo letterario, quando soprattutto si
trattasse di poesia lirica, era ineliminabile. Anzi, se le poetiche, pur
iniziando le proprie operazioni su un modello dato, tendenzialmente
aspiravano ad una normatività astratta e tutta riassumibile nell'esercizio
rettorico, quei documenti critici che per il loro carattere si riducevano
a un rapporto costante col testo, come i commenti al Petrarca o le lezioni
accademiche, si rivelavano essenzialmente orientati a una trasposizione
della lirica o in sede biografica e romanzesca o in funzione di una
scienza d'amore contemplata nei suoi possibili casi psicologici attraverso
le indicazioni che di essi poteva fornire un testo poetico. Tale
disposizione alla scienza d'amore doveva evidentemente cedere alla
tendenza codificatrice e rettorica della tarda Rinascenza: parallelamente
a quella delle forme, si sarebbe così sviluppata una rettorica dei
contenuti psicologici delle forme stesse. È un aspetto che mi pare
fondamentale per individuare la questione della lirica cinquecentesca.
Esso fu originato dall'interesse psicologico per la figura del Petrarca
ricercata nelle sue scritture. D'altronde se il mondo della pseudo-scienza
amorosa s'identificò con una fase negativa della lirica che, manifestatasi
all'inizio del secolo, si ripercosse anche nei poeti più tardi, il puro
interesse psicologico alla figura o alla vita del Petrarca contribuì ad
estendere il petrarchismo come fenomeno storico oltre l'ambito dei
canzonieri e ad accentuare nei canzonieri stessi il senso di quella
imitazione integrale ed esclusiva di cui abbiamo parlato.
|