IL PETRARCHISMO

  • LA LIRICA DEL BEMBO
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    Autore: Luigi Baldacci Tratto da: Lirici del Cinquecento


         

    È impossibile parlare della lirica del Bembo senza implicare un discorso di troppo più vasta portata sulla complessità della sua figura di critico e di platonico filosofo: insomma d'istitutore generale di un costume i cui caratteri coinvolgono settori ben più vasti di quanto non sia quello di una semplice pratica sonettistica. Potremmo, volendo, raccogliere anche tra i moderni qualche testimonianza favorevole al tono e alla sensibilità della sua voce; ma è fin troppo evidente a quali pericoli andrebbe incontro una disposizione critica sprovveduta e affidata a semplici reazioni di gusto. Un'identificazione dei fatti poetici del Bembo con i caratteri della sua più vasta missione culturale fu perciò sempre favorita dalla responsabilità storica che il Bembo aveva assunto .nel quadro del suo tempo; e nella stessa maniera che quel ruolo di protagonista di una complessa vicenda della cultura italiana fu più o meno approvato e condiviso dai posteri, le stesse prove poetiche dello scrittore ne risentirono profondamente. Per questo già il rinnovato interesse degli Arcadi identificava nel poeta l'umanista pioniere di una cultura nuova. Sommamente indicativo è a questo proposito il giudizio del Muratori: « Il secolo seguente dal 1500 insino al 1600 fu senza dubbio il più fortunato per l'italica poesia, essendo questa, per così dire, rinati e giunta ad incredibile gloria in ogni sorte di componimenti. A Pietro Bembo, che fu poi cardinale, l'Italia è principalmente obbligata per sì gran beneficio. Non solamente la lingua nostra per cura sua tornò a fiorire più che ne' tempi andati, ma il gusto ancor del Petrarca tornò a regnare negli ingegni italiani ». È già evidente attraverso queste poche righe in quale misura il neopetrarchisrno arcadico per la sua posizione reazionaria in senso antimarinistico fosse determinato ad una esaltazione dell'esperienza lirica del XVI secolo e alla sua riduzione, per quanto più possibile assoluta, all'intervento storico del Bembo. Da una tale impostazione si doveva giungere conseguentemente a riconoscere tutti i crismi a quella poesia. Sempre il Muratori affermava: « Ora, generalmente parlando, i poeti di quel secolo ebbero gusto sano, scrissero con leggiadria, adoperarono pensieri profondi, nobili, naturali, ed empierono di buon sugo i lor componimenti ». Assai affine al giudizio del Muratori, dovrà considerarsi, quanto al Bembo, quello del Gravina che, dopo avere indicate le vicende della italiana lirica, conclude: « Poté questo genere di poesia ripigliar colle mani del Bembo la cetra del Petrarca »; dove, oltre l'apparato eloquente del discorso, si dovranno avvertire le stesse ragioni storiche che avevano ispirato il Muratori. Anche il Gravina d'altronde, come il Muratori, avvertiva, secondo una più segreta disposizione critica, l'insufficienza artistica di tanta parte di quella poesia: masi trattava di un rilievo proposto cautamente e non emerso a una piena coscienza: quella cetra del Petrarca fu « imitata poi degnamente da stuolo sì numeroso, che non trova qui -luogo per sé capace; e così noto, che muri oltraggio riceve dal nostro silenzio. Conciosiaché niuno di loro per propria invenzione richieda da noi giudizio distinto, se non che il Casa ». Ora, se quella limitazione non implicava la figura del Bembo, ciò era dovuto soltanto alla preoccupazione di contrapporre polemicamente il secolo XVI al XVII in nome del petrarchismo, del quale appunto nel Bembo si riconosceva il massimo rappresentante. Debbono perciò considerarsi come improntati a un carattere di eccezionalità i giudizi del Crescimbeni e del Quadrio che nel Settecento sembrano distinguere, se pure con un carattere di precisazione, la realtà poetica del Bembo dalle sorti del petrarchismo, lamentando in quelle Rime un eccesso d'imitazione. Dalle premesse critiche dei primi arcadi - vorremmo soprattutto insistere sul Muratori e sul Gravina -, secondo un'accentuazione della tendenza apologetica della lirica cinquecentesca si doveva giungere, per quanto concerne il Bembo, alla posizione estrema d'incondizionato favore rintracciabile nelle Annotazioni di Anton Federigo Seghezzi alle Rime secondo la grande edizione veneziana del 1729; oppure, sviluppando le intenzioni critiche larvatamente ostili a un'eccessiva imitazione petrarchesca, si doveva approdare al furore iconoclastico di un Bettinelli o di un Baretti, ove sarebbe illusorio cercare di scorgere un interesse diretto - sia pure ispirato da una determinazione ostile - al testo e alla figura individuale del poeta: ancora una volta la considerazione generale sul petrarchismo s'identificava nella persona stessa del Bembo. D'altronde il Baretti, distinguendo più lucidamente dei critici precedenti - e dello stesso Bettinelli - un petrarchismo riducibile ai propri esercizi poetici da un petrarchismo come fatto essenzialmente critico e culturale, sembrava proporre la formula critica di un Bembo inutile poeta ma indispensabile uomo di cultura secondo un'indicazione ancora una volta a piacere estendibile dalla persona specifica del Bembo al complesso di tutto il fenomeno petrarchistico. Così il Baretti riconosceva che « l'Italia e forse tutta l'Europa deve moltissimo a' cinquecentisti », precisando che « le lingue dotte, e la grammatica, e l'arte del dire, e tutte le parti della filologia, principali fondamenti di tutte le scienze, furono da' cinquecentisti coltivate molto e rese piane e di facile acquisto al mondo ». Che tale impostazione, sottolineando il carattere critico e culturale del petrarchismo rispetto a quello creativo e di riflesso biografico ed esistenziale esaltato soprattutto dal Cinquecento, costituisse una novità per il suo stesso senso quasi storicizzante, non è dubbio; ma dovrebb'essere altrettanto evidente il pericolo di « facilità » a cui per la deficienza di approfondimenti ulteriori sarebbe potuta approdare tale formula. Recentemente il Croce riproponeva un'interpretazione della figura del Bembo articolata secondo un riconoscimento della sua attività culturale e una negazione della sua opera artistica. Infatti, dopo aver riconosciuto che « il Bembo adempì un ufficio di molta importanza nella storia della poesia e della critica italiana », conclude che sulla sua « gloriosa figura di apostolo » non gettarono ombra le sue opere (il Croce usa la parola pesare « delle quali il De Sanctis a ragione si sbrigò con recise parole negative ». Particolarmente degli Asolani il Croce osserva che si tratta di « una delle molte teorie dell'amore che si ebbero nel Cinquecento e delle più deboli e pallide »; e quanto alla poesia riconosce il valido giudizio di pedanteria; e, nelle sue pratiche applicazioni, il concetto d'imitazione che ebbe il Bembo gli pare « ripetizione propria dei particolari di una poesia o di un poeta, disciolto il loro nesso ».

    Ma nel quadro di un'intelligenza più approfondita dell'opera del Bembo, il Ferrero aveva già avvertito che « ad una piena comprensione e ad un equo giudizio su quel grande letterato non è né legittima né utile una rigida separazione fra i due aspetti dell'opera sua: la quale dovrà invece essere considerata unitariamente, vedendo negli Asolani, nelle Prose, nelle Rime... tre momenti di una stessa attività, di cui l'uno non può stare, e non può essere interamente compreso senza l'altro ». E queste parole del Ferrero vorremmo intendere non tanto nel senso di una stretta interdipendenza dei vari documenti artistici o critici del Bembo, quanto secondo l'esigenza di recuperare un significato compiuto di quella figura non soltanto per la sua umanistica istituzione rettorica, ma nelle stesse dimensioni degli Asolani e delle Rime, che furono avvertiti dal Cinquecento come gli esempi più validi dello spiritualismo petrarchesco e delle esigenze di perfezione estetica proposte dal Canzoniere in vita e in morte di Laura.

    Ma, prima del Ferrero, il Dionisotti aveva richiamato l'esercizio delle Rime all'esperienza delle Prose non già nel segno di un magistero della tecnica che con le Prose si fosse definitivamente costituito, ma come pratica esemplificazione rispetto a un precedente teorico, per cui il Bembo avrebbe continuato in altro registro - quello lirico e più propriamente creativo - i suoi interessi critici per la lingua volgare: « Non sono uno sfogo dell'anima, ed è inutile rivederle alla luce di questo o quel sentimento-tipo... dipendono dalla ricerca compiuta nelle Prose e ne sono la eco sottile; significano per il Bembo un ritorno ogni volta diverso e nuovo a quella esperienza della lingua e della poesia volgare che era il tesoro della sua cultura ».

    Da parte nostra, nonostante che il carattere di esercizio retorico sia ineliminabile a ogni pagina dell'intera opera bembiana, in coerenza alla teoria dell'imitazione, vorremmo indicare nelle Rime, insieme con gli Asolani, il documento massimo di un petrarchismo di costume per il quale il Canzoniere fu modello di stile, ma anche specchio di vero amore e perfetto itinerario di vita.
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis