Il problema del Della
Casa lirico, abbandonato dopo il primo ottocento e confuso nella generale
condanna dei petrarchisti da parte del tardo romanticismo, fu risollevato
dal Croce e, sulla sua scia, dal Flora e dal Sapegno, nelle loro storie
letterarie, mentre l'ermetico Bo lo valorizzava al massimo e il Seroni
studiandone la « tecnica », lo riduceva ad uno stilista complesso, ma
sostanzialmente senza poesia.
Il problema è ora in termini assai chiari: puro stilista o poeta che
attraverso un arduo tecnicismo sa tuttavia realizzare genuini motivi
poetici? E già il Bonora, in un acuto saggio, mostra di aver ben inteso
l'importanza e l'esagerazione del giudizio di Seroni e propone un riscatto
di autentico animo poetico dentro l'arte e l'artificio del letterato (e
del resto già il Croce aveva comunque escluso per i sonetti migliori una
semplice altezza oratoria).
Se il Seroni ha storicizzato assai bene la poetica e la tecnica
dellacasiane sottraendole alle determinazioni più psicologiche foscoliane,
alle suggestioni del Torti, ha poi finito e a volte per gusto polemico
(caratteristico il commento al sonetto « Al Sonno ») per negare troppo
facilmente qualità poetiche, temperamento poetico ad un artista sentito
piuttosto come intarsiatore, abilissimo tecnico e soprattutto oratore
della poesia, scolaro più che di Petrarca e Virgilio, di Cicerone, sulla
direzione della « gravitas » interpretata oratoriamente.
Senza dubbio il Seroni ha ben colto il procedimento costruttivo del Della
Casa, la sua preoccupazione di creare « spazi sonori perfetti » e sulla
via della « gravitas » proposta dal Bembo, è indubbia un'inevitabile
ricerca di appoggio oratorio (la « persuasione » raccomandata dallo stesso
Bembo nelle Prose della volgar lingua), ma tutto ciò non toglie che a
reggere ed utilizzare i complicati mezzi stilistici che il Della Casa
riprendeva, e personalizzava, dalla maniera, dalla scuola petrarchistica,
sia non solo un calcolo artistico avveduto e raffinato, ma una sua vera
capacità poetica che venne enucleandosi e precisandosi soprattutto
nell'ultimo periodo della sua produzione lirica.
Le ultime poesie nella loro alta aura meditativa, nella loro suggestione
di sviluppo profondo, intimo e distaccato, non potevano nascere per puro
calcolo, per pura volontà oratoria e la ragione prima del fantasma in cui
si compongono, non può essere che poetica, come la sentiva il Tasso nella
sua lezione sul sonetto « Questa vita morta] » che egli elogiava per
l'alta elocuzione, ma per cui partiva dalla constatazione della presenza
di due elementi indispensabili alla poesia: « la natura e l'arte », e per
cui scandagliava, riferendole ad unico fine poetico, non solo i
procedimenti più singolari del Della Casa (« la difficultà delle
desinenze, il rompimento de' versi, la durezza delle costruzioni, la
lunghezza delle clausole, e il trapasso d'uno in un altro quaternario e
d'uno in un altro terzetto, e in somrna la severità per così chiamarla
dello stilo »), ma le qualità più interne e naturali che a quelli poi
comandavano: studiava le qualità stilistiche del Della Casa, ma non
credeva perciò di negarne la spinta interna poetica.
Così - sfuggendo alle tentazioni di una totale riduzione ad artificio e
retorica, senza chiedere drammi e sfoghi autobiografici, a verifica di
poesia, né riducendo poesia a tecnica - si può cogliere nel più alto
stilista della lirica cinquecentesca la ricchezza e peculiarità dei suoi
mezzi e la individuale voce che in quelli si esprime.
Il cammino del Della Casa è cammino dalla letteratura, e dentro la
letteratura, verso la poesia, da forme più esterne attraverso forme più
sue, prevalentemente tecniche, a forme più genuine e sicure, ad esiti di
poesia (anche se non molto numerosi) dopo prove di abilità, di tecnica, di
ricerche di originalità più all'esterno che all'interno, nel linguaggio
petrarchistico più che al di sopra di quello in un intimo rinnovamento.
Meno impetuoso del Tarsia, che anche in alcuni sonetti meno riusciti può
far sentire improvvisamente la mossa energica e personale, il Della Casa
si svolge lentamente, in mezzo alla sua produzione di scrittore latino, di
oratore, di prosatore, di scrittore burlesco (i capitoli della stia
gioventù insidiosi per il suo cappello cardinalizio), alla sua attività di
ecclesiastico e diplomatico della controriforma, ai suoi impegni sociali
che ben trovano nel Galateo una salda giustificazione di moralità civile,
di contatto con la società: e la stessa lirica, in gran parte di
corrispondenza, contribuisce a questo senso di costruzione nella società,
per la società sia pure di élite. Ma proprio nella lirica si può vedere
anche lo svolgersi del Della Casa verso una sua solitudine, verso il
distacco e un più puro raccordo fra il suo animo e la sua arte, dopo tanto
contatto e interpretazione delle esigenze del suo tempo...
Il capolavoro del Della Casa, il sonetto più interamente suo, nasce da
un'evocazione, fatta in zone profonde dell'animo, di una coincidenza di
immagini: quella della sua vita ormai vicina alla fine e immersa inuna
luce avara c scarsa e quella di una selva solitaria e invernale (le selve
del Montello viste da Nervesa) senza nessuna crudezza di paesaggio « visto
», come paesaggio mitizzato, assoluto:
O
dolce selva solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'acre e la terra implica;
e la tua verde chioma ombrosa, antica,
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, ché 'nvece di fior vermigli e bianchi
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;
a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi;
ma più di dentro e d'intorno agghiaccio,
chè più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte e dì più freddi e scarsi. |
Sul paragone iniziale tutto intimo e fantastico e così mirabilmente svolto
nel lungo periodo senza interruzione, il motivo della vecchiaia, che sale
inesorabile, inquietante e pure a suo modo serena perché fatale, si
traduce tutto in simboli (disperso ogni psicologismo ed ogni esteriore
drammaticità), in figure e ritmi, sinché predomina, dopo l'inizio non
privo di qualche periodo prezioso (la corrispondenza della chioma del
bosco e della chioma del poeta superata però dallo slancio musicale
evocativo che limita la possibile banalità e ricercatezza), nella grande
ripresa della prima terzina, dove si realizza più intensamente la
impressione, accumulata lentamente nelle quartine, di una breve giornata
invernale come simbolo della vecchiaia.
Fermezza espressiva e suggestione di uno stupore quasi di miracolo, si
uniscono in questa frase così perfetta nel suo accordo di suoni, di echi,
di immagini rarefatte ed intime (scavate nell'intimo, staccate in una luce
irreale): pare quasi che questi versi iniziali della prima terzina
importino l'impossibilità di un ulteriore svolgimento. Ma ecco che un
movimento più deciso, é più comunemente dellacasiano con le sue fratture
ed i suoni aspri, viene a rilevare la linea giunta alla sua espressione
più alta, a portare una conclusione decisa e grave, più irta di suoni e di
contrasti: « e ghiaccio - gli spirti anch'io sento e le membra farsi ». Ed
il « Petrarca selvaggio » interviene più decisamente nella chiusa così
ricca di chiusi iati, di incontri aspri e prepara il verso finale
scolorito, vasto, assoluto nella sua impressione di una vita squallida e
sempre più fredda.
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