FRANCESCO PETRARCA

  • GRAZIA E GRAVITA' NEL PETRARCA
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    Autore: Pietro Bembo Tratto da: Prose della volgar lingua

     
         

    Potea il Petrarca dire in questo modo il primo verso della canzone, che ci allegò Giuliano: Voi ch'in rune ascoltate. Ma considerando egli che questa voce Ascoltate, per la moltitudine delle consonanti che vi sono e ancora per la qualità delle vocali e numero delle sillabe, è voce molto alta e apparente, dove Rime per li contrari rispetti, è voce dimessa e poco dimostrantesi, vide che se egli diceva Voi ch'in rime, il verso troppo lungamente stava chinato e cadente, dove, dicendo Voi ch'ascoltate, egli subitamente lo inalzava, il che gli accresceva dignità. Oltra che Rime, per ciò che è voce leggera e snella, posta tra queste due, Ascoltate, e Sparse, che sono amendue piene e gravi, è quasi dell'una e dell'altra temperamento. E aviene ancora che in tutte. queste voci dette e recitate così, Voi ch'ascoltate in rime sparse, et esse più ordinatamente ne vanno, e fanno oltre a ciò le vocali più dolce varietà e più soave che in quel modo. Per che meglio fu il dire, come egli fe', che se egli avesse detto altramente. Il che potrà essere avertimento dell'ordine, prima delle tre parti che io dissi. Poteva eziandio il Petrarca quell'altro verso della medesima canzone dire così: Fra la vana speranza e'l van dolore. Ma per ciò che la continuazione della vocale A toglieva grazia, e la variazione della E trapostavi la riponeva, mutò il numero del meno in quello del più, e fecene, Fra le vane speranze; e fece bene, che quantunque il mutamento sia poco, non è per ciò, poca la differenza della vaghezza, chi vi pensa e considera sottilmente. E cade questo nel secondo modo del disporre detto di sopra. Per ciò che nel terzo, che è togliendo alle voci alcuna loro parte, o aggiungendo o pure tramutando come che sia, cade quest'altro:

     

    Quand'era in parte altr'uom da quel ch'i sono;


    e quest'altro:

     

    Ma ben veggi' or, sì come al popol tutto
    Favola fui gran tempo.


    Erano Uomo e Popolo le intere voci, dalle quali egli levò la vocale loro ultima; la quale se egli levata non avesse, elle sarebbono state voci alquanto languide e cascanti, che ora sono leggiadrette e gentili. Cadono altresì di molt'altri; sì some è:

     

    Che m'hanno congiurato a torto incontra;


    dove Incontra disse il medesimo poeta, più tosto che Contra. E Sface molte volte usò, e Sevri alcuna fiata, e Adiviene e Dipartio, più tosto che Disface e Separi e Aviene e Dipartì, e Diemme e Aprilla, dovendo dire direttamente. Mi diè e la aprì. E perché io v'abbia, di questi modi del disporre; le somiglianze recate dal verso, non è che essi non cadano eziandio nella prosa, per ciò che.essi vi cadano. È il vero che questa maniera, ultima delle tre, più di rado vi cade che le altre; con ciò sia cosa che alla prosa, per ciò che ella alla regola delle rime o delle sillabe non sottogiace e può vagare e spaziare a suo modo, molto meno d'ardire e di licenza si dà in questa parte, che al verso. Ora, sì come e nelle sillabe e nelle sole voci queste figure entrano, così dico io che elle entrano parimente negli stesi parlari, e per aventura molto più. Per ciò che oltra che non ogni parte che si chiuda con alquante voci, s'acconviene con ogni parte, e meglio giacerà posta prima che poi, o allo 'ncontro ; e quella medesima parte non in ogni guisa posta riesce parimente graziosa; e toltone o aggiuntone o mutatone alcuna voce, più di vaghezza dimostrerà senza comperazione alcuna che altramente; sì aviene egli ancora che il lungo ragionare, e di quelle medesime figure molto più capevole esser può, che una sola voce non è, e, oltre a questo, gli è di molte altre figure capevole, delle quali non è capevole alcuna sola voce; sì come ne' libri di coloro palese si vede, che dell'arte del parlare scrivono partitamente...
    Instando con M. Ercole mio fratello, che egli a M. Federigo facesse dire il rimanente, et esso stringendone lui, e il Magnifico parimente, che diceva che mio fratello aveva detto assai, egli dopo una brieve contesa, più per non torre a mio fratello il fornire lo incominciato ragionamento fatto, che per altro, lietamente a dire si dispose e cominciò:

    - Io pure nella mia rete altro preso non arò che me stesso. E bene mi sta, poscia che io tacere quando si conveniva non ho potuto, che io di quello favelli che men vorrei. Né crediate che io questo dica, perché in ciò la fatica mi sia gravosa, che non è, dove io a qualunque s'è l'uno di voi piaccia, non che a tutti e tre. Ma dicolo per ciò che le cose, che dire si convengono, sono di qualità, che malagevolmente per la loro disusanza cadono sotto regola, in modo che pago e sodisfatto se ne tenga chi l'ascolta. Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per questa via: che, per ciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione, dico che di queste tre cose aver si dee riguardo partitamente, ciascuna delle quali all'una o all'altra giova delle due primiere che io dissi. E a fine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l'onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera. Per ciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo 'ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sì come aviene delle composizioni di M. Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di M. Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già, tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun'altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte. Sì come, se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità, né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo più, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l'una e l'altra di queste parti empiè meravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis