FRANCESCO PETRARCA

  • L'ELEGIA POLITICA DEL PETRARCA
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    Autore: Attilio Momigliano Tratto da: Introduzione ai poeti

     
         

    Le due maggiori canzoni politiche del Petrarca appartengono al numero di quelle poesie che, per la loro eccellenza, sono diventate il centro della storia d'un motivo o d'un genere, e quindi sono state vedute meglio nei loro riflessi e nella loro forza propulsiva che nella loro essenza. « Italia mia » e « Spirto gentil » fanno parte, per una cinque volte secolare vicenda, della storia generale della nostra poesia e della nostra patria: e perciò riesce difficile, oramai, leggerle senza pensare a quello che esse hanno potuto sulla poesia politica, e a quello che esse hanno significato nella storia dell'Italia. La storia della nostra poesia politica e quella dell'italianità sono diventate, quasi, parte integrante di quelle due canzoni: e non c'è forse critico che, parlando di esse, sia riuscito a fare astrazione da quei due elementi. Trovo in tre critici stranieri tre indizi significativi di questa sorte che è toccata alle due canzoni, e particolarmente a quella indirizzata all'Italia: lo Ginguené scrive: « Voilà de ces traits nationaux que tout un peuple répète avec orgueil, et qui l'attachent au nom d'un ponte par d'autres sentiments que ceux qu'on a pour de beaux vers »; il Villemain racconta che una volta a Milano, al tempo degli Austriaci, una voce giovane e melodiosa cantò, in una riunione elegante, la canzone all'Italia suscitando un entusiasmo indescrivibile: e l'indomani la cantatrice veniva imprigionata; il Mézières, infine, chiama questa canzone la Marseillaise dell'Italia. Poco dopo, il De Sanctis citando alcune frasi di questa canzone scriveva: « Anche oggi, dopo tanto tempo, un Italiano muta colore innanzi a queste parole, che suscitano tanti sentimenti ».
    Ma nemmeno il De Sanctis, pur facendo la storia di tutta la poesia del Petrarca, si è fermato davvero a notare che cos'hanno di caratteristicamente petrarchesco queste canzoni, che cosa sono in sé e per sé, come richiamino le altre liriche non politiche del Petrarca, perché stiano bene in quel Canzoniere, che pure ha come argomento dominante un tema ben diverso da questo politico, patriottico, esortatorio.
    Questo mi propongo di fare per non ripetere quanto da molti è stato detto su queste canzoni avendo l'orecchio agli echi che esse hanno suscitato nel corso della nostra letteratura e della nostra storia.
    La poesia patriottica del Petrarca nasce da uno stato d'animo simile a quello della poesia amorosa e da un atteggiamento della fantasia uguale a quello della poesia amorosa: perciò essa, almeno nelle due canzoni maggiori, fa tanta impressione sul lettore.

    In queste due canzoni si ritrovano i sentimenti dominanti del Petrarca: la molle e tenera vena di affetto; la malinconia che colora di sé tutta la storia del suo amore; e quel pensiero della vanità e fugacità terrena che dalle rime in vita alle rime in morte di Laura, alla canzone alla Vergine, affatica sempre più l'anima del Petrarca. E ci si ritrova quel suo stile alto, quel suo sentire raccolto, senza il quale la storia particolare del suo amore non sarebbe diventata così universale; e, se anche in misura minore che nei sonetti più belli, quella morbida capacità sintetica, quella musicale potenza suggestiva che fanno di lui, nella lirica, un poeta superiore a Dante.
    Derivano da quella vena affettuose espressioni come « I', che dì e notte del suo strazio piango », in cui sembra di sentire l'eco dei notturni pianti dell'innamorato di Laura, e la gioia di Fabrizio alla notizia della risurrezione di Roma (vv. 40-46), e la passione dolce e senza violenza, che nella canzone « Spirto gentil » è sparsa qua e là e non si lascia isolare, e nell'altra è diffusa dovunque, e infusa così chiaramente da costituire la nota dominante. La ragione della straordinaria celebrità della canzone all'Italia e del fascino che essa ha esercitato sulla fantasia di tanti poeti dal '500 all'800, è in quella commozione, in quel palpito di affetto, in quella voce suadente che di rado si arrotonda in eloquenza, e per lo più si leva ad un ammonimento pieno di carità e di solennità o si ammorbidisce quasi fino alle lacrime. Questa nota comincia subito nell'invocazione iniziale; continua nella rappresentazione dell'Italia, adombrata qua e là con l'ammirazione e l'affetto che si hanno per una persona cara (« le piaghe mortali Che nel bel corpo tuo sì spesso veggio », il « tuo diletto almo paese », « le belle contrade », « i nostri dolci campi »), e con le parole semplici e scarse che nascono dai sentimenti profondi; culmina in quella definizione domestica della patria (« Non è questo il terren... ») che fa una cosa sola della nostra vita e della terra su cui la trascorriamo.
    Ma qui c'è qualche cosa di diverso dalla poesia del resto del Canzoniere. Lo stile è nobile come sempre: e l'ultimo periodo (« Non è questa la patria in ch'io mi fido, Madre benigna e pia, Che copre l'uno e l'altro mio parente? ») ha quell'andamento grave, quel tono contemplativo che è costante in tutto il Canzoniere e che solleva in un'altra sfera anche i motivi più umili. Tuttavia il sentimento del Canzoniere non è mai sceso così vicino al suo oggetto come qui. Laura è sempre distante; e il poeta stesso che la canta, con malinconia o con trasporto o con disperazione, ha sempre intorno a sé tanta solitudine e tanto silenzio, che il lettore lo sente alto e lontano. Questo è il solo punto del Canzoniere in cui si stabilisca fra il poeta e il lettore una comunanza di affetti, perché qui il poeta che parla, non è l'uomo che s'è creato un suo mondo aristocratico e romito, ma il fanciullo. A1 tocco delle sue parole, in cui vibrano brevemente e profondamente i ricordi dei suoi primi anni, si ridesta nel lettore il mondo dei suoi primi affetti; e il lettore rivede nel Petrarca che cresce al sentimento della patria, la propria vita che si forma, e insieme con essa, inseparabile da essa, la terra da cui essa ha preso significato e colore...

    In queste due canzoni c'è tanto più medio evo che nella poesia politica di Dante. C'è un senso d'abbandono, di rovina, di miseria, di tristezza: e questo attira la fantasia del Petrarca assai più che il suo nobile proposito di incoraggiare un liberatore o di placare dei signori bellicosi.
    E non solo la sua fantasia, ma attira assai più anche il suo cuore. Perché egli è, sì, addolorato da quello spettacolo - di Roma devastata, dell'Italia lacerata dalle guerre -: ma quello spettacolo lo induce in pensieri malinconici, e i pensieri malinconici sono il pascolo continuo del suo cuore. Una certa amara dolcezza viene al Petrarca non solo dai suoi motivi amorosi, ma anche da questi motivi politici. Se egli avesse scritto solo queste canzoni, la cosa non apparirebbe così chiara: ma il confronto con gli atteggiamenti elegiaci delle rime per Laura, con quel romanticismo non tempestoso non tragico ma morbido e insinuante e seducente, ci fa capire meglio quale sia il timbro particolare della tristezza politica di quelle canzoni nelle quali, nonostante la vastità e la dignità del tema, si insinua un'affettuosa vena di pianto.
    Questi due componimenti, solitari, meditativi, poveri di impeti, tanto più affettuosi che appassionati, sono non canzoni ma elegie: elegia della Roma in rovina, quella rivolta allo « Spirto gentil »; elegia dell'Italia e del tempo che passa, l'altra.
    E così, sotto temi tanto diversi, sotto apparenze tanto diverse, si scopre il cantore di Laura; e si comprende perché la poesia politica non sia un motivo a sé nella storia poetica del Petrarca, ma una delle note che compongono il tessuto elegiaco del suo libro, uno dei temi della sua storia di contemplativo e di malinconico.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis