La poesia « di Laura e
quella della caducità di tutte le cose» pur ricondotte giustamente a
un'unicità di sorgente, rappresentano per il Calcaterra due filoni
sentimentali non solo distinti, ma anche contrastanti tra loro. Così per
il Momigliano: « La coscienza della fugacità della vita terrena, della
vanità delle belle forme, si esprime... con una desolazione non meno
poetica dei malinconici rapimenti dietro le immagini di Latira. L'uno e
l'altro sentimento risuonano con uguale tristezza e uguale profondità ». E
dovendo, naturalmente, ricondurre anch'egli all'unum le due poesie,
afferma reciso « l'origine amorosa di tanta desolazione ». Soltanto Laura
gli avrebbe insegnato « questo nostro caduco e fragil bene, ch'è vento et
ombra, et à nome beltate »; soltanto lei « che quanto piace al mondo è
breve sogno » . Più rigorosamente, il Croce, che come sappiamo riduce la
poesia petrarchesca al filone amoroso, considera il senso della caducità
solo come un aspetto dell'intimo squilibrio del poeta, tutto teso in
un'unica direzione: « 'Primo poeta moderno' dunque in questo senso, che in
lui pel primo si vede l'aspirazione a un'inconseguibile beatitudine
nell'amore di una creatura...; la felicità cercata nel sentire e nella
passione, ossia nel particolare non redento nell'universale, ma posto esso
come universale; con la disperazione e la malinconia che a ciò segue o
s'accompagna, col senso continuo della caducità e della morte e del
disfacimento ».
In una lunghissima lettera all'amico di giovinezza Filippo di Cabassole (Fam.,
XXIV), il Petrarca, ormai giunto verso la fine della vita, analizza egli
stesso questo senso della caducità che è suo costante compagno, e ce ne
indica le origini. Richiama una sua lettera di trenta anni prima (è la
Fam., I, 3) nella quale aveva affermato sugli albori della vita la
irrimediabile caducità di essa; fugacità che allora semplicemente
avvertiva e prevedeva, e ora conosce per esperienza. È quel giovanile «
pensiero della morte » che ricorda anche nel Secretum (III, 6). Mentre i
condiscepoli e lo stesso dotto maestro erano intenti a trarre da Orazio,
Giovenale, Virgilio, Ovidio, Seneca, Cicerone, ammaestramenti
semplicemente grammaticali e letterari, egli trovava in quei testi
scolastici qualcosa d'altro, di nascosto: «notavo con sicurezza non le
decorazioni verbali ma le cose stesse, cioè l'angustia di questa misera
vita, la brevità, la velocità, l'affrettarsi, lo scivolare, la corsa, il
volo e gl'inganni nascosti, l'irrecuperabilità del tempo, il fiore della
vita caduco e mutabile, la fuggente bellezza di un viso roseo,
l'irrefrenabile fuga della giovinezza che non tornerà più e le insidie
della vecchiaia tacitamente strisciante; in fine le rughe e le malattie e
la tristezza e il dolore e la dura implacabile inclemenza dell'indomabile
morte » (Fam., XXIV, i, io). E la traduzione non rende l'appassionata
eloquenza dell'originale latino.
Da vecchio conserva i libri scolastici d'un tempo, e vi scopre i segni di
sua mano sottolineanti soprattutto i passi di quegli autori che
attestavano tale angosciosa fugacità. I compagni d'allora, e persino i
vecchi, gli davan torto, donde frequenti discussioni e quasi lo ritenevano
pazzo, sì che al giovinetto non restava che ritrarsi in sé stesso, nel
silenzio, fiero e disperato della sua certezza: sogni per gli altri,
queste considerazioni erano per lui « vere e quasi presenti ». Per questa
assoluta mancanza di speranze egli si sottraeva e al matrimonio e alle
altre difficoltà della vita vissuta, alle quali lo spingevano l'amore dei
genitori e i consigli degli amici; e se si sottopose allo studio del
diritto, fu solo per non negare ogni cosa ai genitori che speravano molto
da lui che, non sperava nulla. Ed ora infatti sa che se gli è accaduto
nella vita qualcosa di felice, ciò è stato sempre l'insperato; e che tutto
quello che talvolta ha sperato non è mai avvenuto, forse perché egli
disimparasse totalmente a sperare. Ora da vecchio ha finalmente quella
speranza che da giovane non ebbe; ma essa è ormai lanciata di là dalla
tomba, verso la vera vita: e questa speranza è l'unica consolazione di
chi, come anche questa lettera conferma, alla fugacità delusoria
dell'altra vita, della cara vita di quaggiù, non seppe rassegnarsi mai.
La quale lettera, che è una specie di ricca autobiografia spirituale,
prospettata sub specie del sentimento dominante dell'esistenza del
Petrarca, condotta dall'alba al tramonto, ci suggerisce, tra le altre, due
interessanti considerazioni. Anzitutto questa, che non fu Laura - con lo
sfiorire della sua bellezza, con la sua morte - a insegnargli la brevità
dei sogni umani: il senso di essa risale al primo formarsi della
sensibilità e del pensiero del Petrarca. Non si vede ragione, in linea di
fatto, di negar fede a quella lettera: perché non avrebbe dovuto ricordar
Laura o il suo amore come sorgente di quel suo stato d'animo? E invece non
solo non dice questo, ma neppure quel che ci aspetteremmo: la delusione
amorosa aver recato conferma alle sue giovanili intuizioni. Si riferisce
invece genericamente alle sue esperienze; e se puntualizza qualcosa, è
solo la desolazione d'esser rimasto solo, stanchi del viaggio e lasciati a
mezza via i compagni. E ci sono particolari che non s'inventano, neppure
per far bella figura davanti ai posteri: dovremmo altrimenti ammettere una
mostruosa fertilità d'infingimenti che il Petrarca non ha: egli è, nel suo
appena dissimulato desiderio della bella figura, elementare e quasi
ingenuo. Di tal genere è il particolare dei libri di ragazzo che ancora
conservano i segni della direzione dei suoi pensieri di allora. E poi,
perché avrebbe fatto miglior figura a raccontarci così, e non altrimenti,
la storia del suo sentimento? Perché si sarebbe vergognato di dire in
prosa a noi posteri, di dire all'amico che lo conosceva « ab initio »,
quel che, apparentemente, ci dice il canzoniere? La verità è che quel
sentimento, cronologicamente anteriore all'amore perché congenito al suo
spirito e quindi esistente in lui da sempre, trova in Laura, come
accennavamo, il centro fantastico necessario alla sua espressione lirica.
Accenna bensì il Petrarca, se non a Laura, almeno ai suoi « amori ed
errori » : ma solo per meravigliarsi d'essersi lasciato per un momento
irretire da essi, egli che pure da giovinetto sapeva la vanità d'ogni
speranza. Fu una parentesi il fumo della vita vissuta diminuì l'acutezza
della sua vista, e l'età più impetuosa estinse la prima luce dell'anima;
ma almeno ora comincia a vedere qualcosa. Laura non è la sorgente né il
centro; ella e il suo amore, o più genericamente l'amore, non è in questa
fondamentale autobiografia che un momento d'esperienza. Del resto,
poeticamente, ed è quello che più conta, l'accento del Petrarca non batte
sullo sfiorire della bellezze di Laura - come abbiam visto e meglio
vedremo - e neppure sull'immagine di lei morta: ella poeticamente è sempre
viva e giovane e bella; e il Petrarca si afferra alla sua immagine appunto
perché l'unica cosa certa e ferma in tanto fluire e precipitare. Il
lamento, cioè la poesia, di lui consiste essenzialmente nell'amarezza di
essere - lei viva o morta privo di qualcosa che con la sua bellezza possa
consolarlo d'essere nato, per dirla con parola d'un altro poeta che
dovremo tra poco più di proposito ricordare. Giacché non è il trasmutarsi
e il termine di una singola vita quello che lo angustia, ma la fugacità
totale, leopardianamente cosmica: «che importa se subito o tra cento mila
anni perirà ciò che è destinato a perire una volta? » (Fam., XXIV, 6, g).
O anche: « Che importa all'uomo se, inentre egli passa, il mondo resta? Ma
neppure il mondo resta, se vogliamo confessare la verità: sia pure meno
sensibilmente, anch'esso si affretta verso la sua fine » (De otio, II).
L'altra considerazione importante che quella Familiare ci suggerisce, è
che sulle origini e sullo sviluppo dello stato d'animo petrarchesco, non
influì, con l'amore, neppure la meditazione religiosa. È significativo che
in essa, di fronte a tante e tante testimonianze di classici, non ci sia
che una sola citazione tratta dai libri sacri o dai padri; eppure il
Petrarca scriveva, a un vecchio amico, sì, ma che era anche vescovo. Anzi
egli afferma esplicitamente che quello stato d'animo si formò fin da
quando ancora non conosceva familiarmente altri libri se non quelli
classici adoperati nelle scuole. Gli è che si tratta, appunto, di uno
stato d'animo, d'un'intuizione quasi istintiva, non di una convinzione
razionale che tragga la sua ragion d'essere da letture e da meditazioni.
Giacché non sono propriamente neppure i passi dei classici a spingerlo in
quella direzione così poco conveniente alla sua età, come dice egli
stesso; ma è al contrario il suo temperamento che lo spinge a notare nei
classici particolarmente i passi che si confacevano al suo sentimento a
compiacersi amaramente (« a bruciare », egli dice) nel vedere espresso in
limpida forma, insuperabilmente, quel che gli fermentava dentro ancora
imprecisato ed oscuro, nel riconoscersi unanime con quegli scrittori del
grande passato. Ma su ciò dovremo tornare.
Va da sé che questo senso, che non ci stancheremo di definire
costituzionale, dell'universale labilità, si volga da una parte alla
considerazione della particolare labilità della bellezza umana, fantasma
impersonato in Laura, e dall'altra al pensiero di Dio; che esso,
combinandosi con la tendenza, parimenti congenita, alla contemplazione, al
gaudio visivo, ci dà uno dei caratteri salienti della lirica petrarchesca,
cioè la contemplazione trepida, piena di perpetuo timore che l'oggetto
contemplato si trasformi sotto gli occhi e dilegui, o della coscienza che
esso non esista nella realtà. Insomma la poesia che abbiamo esemplificata
leggendo Chiare, fresche e dolci acque. Nel Secretum (II, 3) egli dice con
le parole di Svetonio che « nulla è più grato e nulla è più breve della
bellezza », più grato e più breve insieme: qui è il centro lirico:
Selve, sassi, campagne, fiumi e poggi,
Quanto è create, vince e cangia il tempo (CXLII, 25-26). |
E come da questo stato d'animo sorga il pensiero di Dio, non è chi non
veda; pensiero in un secondo tempo rafforzato e precisato da letture
sacre, da meditazioni propriamente religiose.
Ma
se 'l latino e 'l greco
Parlan di me dopo la morte, è un vento;
Ond'io perché pavento,
Adunar sempre quel ch'un'ora sgombre,
Vorre' 'l vero abbracciar, lassando l'ombre (CCLXIV, 68-72). |
Il desiderio d'amore e quello di gloria sono una cosa sola; e se il poeta
tenta di respingerli da sé, ciò non è soltanto perché siano peccaminosi,
ma perché sono ombre. Meglio: la coscienza del peccato sorge dalla
considerazione della loro labilità.
Labilità non solo in quanto quei desideri, se soddisfatti, approderanno a
conquiste destinate a non durare, ma anche in quanto essi stessi, i
desideri, sono labili. Dice il Petrarca in un'importante Senile (III, 9) :
« In questo mondo noi odiamo sempre il presente, come odiammo il passato
quando era presente, e odieremo il futuro quando verrà. Solo il ricordo e
l'aspettativa son dolci: sì che è facile comprendere quanto sia da
valutare ciò che non piace se non è assente. O lieta e sempre uguale vita
celeste, che non conosce né passato né futuro: tutto è presente... Là ciò
che una volta è piaciuto, sempre piace e sempre piacerà, immutabile ed
eterno, giacché lenisce ma non diminuisce il desiderio di cui si gode, lo
soddisfa ma non lo estingue, lo raffredda per accenderlo; e insomma la
sazietà non vi s'insinua né può insinuarvisi mai, né si temono la sua fine
e il suo oscillare, o preoccupazione o molestia alcuna ».
Il Petrarca non vede morire soltanto uomini e cose e dileguare intorno a
sé, ma vede anche in sé stesso morire - e risorgere per rimorire - i
desideri, le speranze, le credenze che credeva più saldi. L'instabilità
spirituale di cui soffre è l'aspetto dell'instabilità del tutto; forse è
il principal segno di essa. Che cosa potrà mai durare, se non dura neppure
quel che sembrerebbe fosse in nostro potere far durare, il nostro
desiderio? Che cosa sarà mai stabile, se stabile non è neppure la nostra
volontà?
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