FRANCESCO PETRARCA

  • IL SENTIMENTO DELLA CADUCITA' DELLE COSE NEL PETRARCA
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    Autore: Umberto Bosco Tratto da: Petrarca

     
         

    La poesia « di Laura e quella della caducità di tutte le cose» pur ricondotte giustamente a un'unicità di sorgente, rappresentano per il Calcaterra due filoni sentimentali non solo distinti, ma anche contrastanti tra loro. Così per il Momigliano: « La coscienza della fugacità della vita terrena, della vanità delle belle forme, si esprime... con una desolazione non meno poetica dei malinconici rapimenti dietro le immagini di Latira. L'uno e l'altro sentimento risuonano con uguale tristezza e uguale profondità ». E dovendo, naturalmente, ricondurre anch'egli all'unum le due poesie, afferma reciso « l'origine amorosa di tanta desolazione ». Soltanto Laura gli avrebbe insegnato « questo nostro caduco e fragil bene, ch'è vento et ombra, et à nome beltate »; soltanto lei « che quanto piace al mondo è breve sogno » . Più rigorosamente, il Croce, che come sappiamo riduce la poesia petrarchesca al filone amoroso, considera il senso della caducità solo come un aspetto dell'intimo squilibrio del poeta, tutto teso in un'unica direzione: « 'Primo poeta moderno' dunque in questo senso, che in lui pel primo si vede l'aspirazione a un'inconseguibile beatitudine nell'amore di una creatura...; la felicità cercata nel sentire e nella passione, ossia nel particolare non redento nell'universale, ma posto esso come universale; con la disperazione e la malinconia che a ciò segue o s'accompagna, col senso continuo della caducità e della morte e del disfacimento ».

    In una lunghissima lettera all'amico di giovinezza Filippo di Cabassole (Fam., XXIV), il Petrarca, ormai giunto verso la fine della vita, analizza egli stesso questo senso della caducità che è suo costante compagno, e ce ne indica le origini. Richiama una sua lettera di trenta anni prima (è la Fam., I, 3) nella quale aveva affermato sugli albori della vita la irrimediabile caducità di essa; fugacità che allora semplicemente avvertiva e prevedeva, e ora conosce per esperienza. È quel giovanile « pensiero della morte » che ricorda anche nel Secretum (III, 6). Mentre i condiscepoli e lo stesso dotto maestro erano intenti a trarre da Orazio, Giovenale, Virgilio, Ovidio, Seneca, Cicerone, ammaestramenti semplicemente grammaticali e letterari, egli trovava in quei testi scolastici qualcosa d'altro, di nascosto: «notavo con sicurezza non le decorazioni verbali ma le cose stesse, cioè l'angustia di questa misera vita, la brevità, la velocità, l'affrettarsi, lo scivolare, la corsa, il volo e gl'inganni nascosti, l'irrecuperabilità del tempo, il fiore della vita caduco e mutabile, la fuggente bellezza di un viso roseo, l'irrefrenabile fuga della giovinezza che non tornerà più e le insidie della vecchiaia tacitamente strisciante; in fine le rughe e le malattie e la tristezza e il dolore e la dura implacabile inclemenza dell'indomabile morte » (Fam., XXIV, i, io). E la traduzione non rende l'appassionata eloquenza dell'originale latino.
    Da vecchio conserva i libri scolastici d'un tempo, e vi scopre i segni di sua mano sottolineanti soprattutto i passi di quegli autori che attestavano tale angosciosa fugacità. I compagni d'allora, e persino i vecchi, gli davan torto, donde frequenti discussioni e quasi lo ritenevano pazzo, sì che al giovinetto non restava che ritrarsi in sé stesso, nel silenzio, fiero e disperato della sua certezza: sogni per gli altri, queste considerazioni erano per lui « vere e quasi presenti ». Per questa assoluta mancanza di speranze egli si sottraeva e al matrimonio e alle altre difficoltà della vita vissuta, alle quali lo spingevano l'amore dei genitori e i consigli degli amici; e se si sottopose allo studio del diritto, fu solo per non negare ogni cosa ai genitori che speravano molto da lui che, non sperava nulla. Ed ora infatti sa che se gli è accaduto nella vita qualcosa di felice, ciò è stato sempre l'insperato; e che tutto quello che talvolta ha sperato non è mai avvenuto, forse perché egli disimparasse totalmente a sperare. Ora da vecchio ha finalmente quella speranza che da giovane non ebbe; ma essa è ormai lanciata di là dalla tomba, verso la vera vita: e questa speranza è l'unica consolazione di chi, come anche questa lettera conferma, alla fugacità delusoria dell'altra vita, della cara vita di quaggiù, non seppe rassegnarsi mai.
    La quale lettera, che è una specie di ricca autobiografia spirituale, prospettata sub specie del sentimento dominante dell'esistenza del Petrarca, condotta dall'alba al tramonto, ci suggerisce, tra le altre, due interessanti considerazioni. Anzitutto questa, che non fu Laura - con lo sfiorire della sua bellezza, con la sua morte - a insegnargli la brevità dei sogni umani: il senso di essa risale al primo formarsi della sensibilità e del pensiero del Petrarca. Non si vede ragione, in linea di fatto, di negar fede a quella lettera: perché non avrebbe dovuto ricordar Laura o il suo amore come sorgente di quel suo stato d'animo? E invece non solo non dice questo, ma neppure quel che ci aspetteremmo: la delusione amorosa aver recato conferma alle sue giovanili intuizioni. Si riferisce invece genericamente alle sue esperienze; e se puntualizza qualcosa, è solo la desolazione d'esser rimasto solo, stanchi del viaggio e lasciati a mezza via i compagni. E ci sono particolari che non s'inventano, neppure per far bella figura davanti ai posteri: dovremmo altrimenti ammettere una mostruosa fertilità d'infingimenti che il Petrarca non ha: egli è, nel suo appena dissimulato desiderio della bella figura, elementare e quasi ingenuo. Di tal genere è il particolare dei libri di ragazzo che ancora conservano i segni della direzione dei suoi pensieri di allora. E poi, perché avrebbe fatto miglior figura a raccontarci così, e non altrimenti, la storia del suo sentimento? Perché si sarebbe vergognato di dire in prosa a noi posteri, di dire all'amico che lo conosceva « ab initio », quel che, apparentemente, ci dice il canzoniere? La verità è che quel sentimento, cronologicamente anteriore all'amore perché congenito al suo spirito e quindi esistente in lui da sempre, trova in Laura, come accennavamo, il centro fantastico necessario alla sua espressione lirica. Accenna bensì il Petrarca, se non a Laura, almeno ai suoi « amori ed errori » : ma solo per meravigliarsi d'essersi lasciato per un momento irretire da essi, egli che pure da giovinetto sapeva la vanità d'ogni speranza. Fu una parentesi il fumo della vita vissuta diminuì l'acutezza della sua vista, e l'età più impetuosa estinse la prima luce dell'anima; ma almeno ora comincia a vedere qualcosa. Laura non è la sorgente né il centro; ella e il suo amore, o più genericamente l'amore, non è in questa fondamentale autobiografia che un momento d'esperienza. Del resto, poeticamente, ed è quello che più conta, l'accento del Petrarca non batte sullo sfiorire della bellezze di Laura - come abbiam visto e meglio vedremo - e neppure sull'immagine di lei morta: ella poeticamente è sempre viva e giovane e bella; e il Petrarca si afferra alla sua immagine appunto perché l'unica cosa certa e ferma in tanto fluire e precipitare. Il lamento, cioè la poesia, di lui consiste essenzialmente nell'amarezza di essere - lei viva o morta privo di qualcosa che con la sua bellezza possa consolarlo d'essere nato, per dirla con parola d'un altro poeta che dovremo tra poco più di proposito ricordare. Giacché non è il trasmutarsi e il termine di una singola vita quello che lo angustia, ma la fugacità totale, leopardianamente cosmica: «che importa se subito o tra cento mila anni perirà ciò che è destinato a perire una volta? » (Fam., XXIV, 6, g). O anche: « Che importa all'uomo se, inentre egli passa, il mondo resta? Ma neppure il mondo resta, se vogliamo confessare la verità: sia pure meno sensibilmente, anch'esso si affretta verso la sua fine » (De otio, II).

    L'altra considerazione importante che quella Familiare ci suggerisce, è che sulle origini e sullo sviluppo dello stato d'animo petrarchesco, non influì, con l'amore, neppure la meditazione religiosa. È significativo che in essa, di fronte a tante e tante testimonianze di classici, non ci sia che una sola citazione tratta dai libri sacri o dai padri; eppure il Petrarca scriveva, a un vecchio amico, sì, ma che era anche vescovo. Anzi egli afferma esplicitamente che quello stato d'animo si formò fin da quando ancora non conosceva familiarmente altri libri se non quelli classici adoperati nelle scuole. Gli è che si tratta, appunto, di uno stato d'animo, d'un'intuizione quasi istintiva, non di una convinzione razionale che tragga la sua ragion d'essere da letture e da meditazioni. Giacché non sono propriamente neppure i passi dei classici a spingerlo in quella direzione così poco conveniente alla sua età, come dice egli stesso; ma è al contrario il suo temperamento che lo spinge a notare nei classici particolarmente i passi che si confacevano al suo sentimento a compiacersi amaramente (« a bruciare », egli dice) nel vedere espresso in limpida forma, insuperabilmente, quel che gli fermentava dentro ancora imprecisato ed oscuro, nel riconoscersi unanime con quegli scrittori del grande passato. Ma su ciò dovremo tornare.
    Va da sé che questo senso, che non ci stancheremo di definire costituzionale, dell'universale labilità, si volga da una parte alla considerazione della particolare labilità della bellezza umana, fantasma impersonato in Laura, e dall'altra al pensiero di Dio; che esso, combinandosi con la tendenza, parimenti congenita, alla contemplazione, al gaudio visivo, ci dà uno dei caratteri salienti della lirica petrarchesca, cioè la contemplazione trepida, piena di perpetuo timore che l'oggetto contemplato si trasformi sotto gli occhi e dilegui, o della coscienza che esso non esista nella realtà. Insomma la poesia che abbiamo esemplificata leggendo Chiare, fresche e dolci acque. Nel Secretum (II, 3) egli dice con le parole di Svetonio che « nulla è più grato e nulla è più breve della bellezza », più grato e più breve insieme: qui è il centro lirico:

     

    Selve, sassi, campagne, fiumi e poggi,
    Quanto è create, vince e cangia il tempo (CXLII, 25-26).


    E come da questo stato d'animo sorga il pensiero di Dio, non è chi non veda; pensiero in un secondo tempo rafforzato e precisato da letture sacre, da meditazioni propriamente religiose.

     

    Ma se 'l latino e 'l greco
    Parlan di me dopo la morte, è un vento;
    Ond'io perché pavento,
    Adunar sempre quel ch'un'ora sgombre,
    Vorre' 'l vero abbracciar, lassando l'ombre (CCLXIV, 68-72).


    Il desiderio d'amore e quello di gloria sono una cosa sola; e se il poeta tenta di respingerli da sé, ciò non è soltanto perché siano peccaminosi, ma perché sono ombre. Meglio: la coscienza del peccato sorge dalla considerazione della loro labilità.
    Labilità non solo in quanto quei desideri, se soddisfatti, approderanno a conquiste destinate a non durare, ma anche in quanto essi stessi, i desideri, sono labili. Dice il Petrarca in un'importante Senile (III, 9) : « In questo mondo noi odiamo sempre il presente, come odiammo il passato quando era presente, e odieremo il futuro quando verrà. Solo il ricordo e l'aspettativa son dolci: sì che è facile comprendere quanto sia da valutare ciò che non piace se non è assente. O lieta e sempre uguale vita celeste, che non conosce né passato né futuro: tutto è presente... Là ciò che una volta è piaciuto, sempre piace e sempre piacerà, immutabile ed eterno, giacché lenisce ma non diminuisce il desiderio di cui si gode, lo soddisfa ma non lo estingue, lo raffredda per accenderlo; e insomma la sazietà non vi s'insinua né può insinuarvisi mai, né si temono la sua fine e il suo oscillare, o preoccupazione o molestia alcuna ».
    Il Petrarca non vede morire soltanto uomini e cose e dileguare intorno a sé, ma vede anche in sé stesso morire - e risorgere per rimorire - i desideri, le speranze, le credenze che credeva più saldi. L'instabilità spirituale di cui soffre è l'aspetto dell'instabilità del tutto; forse è il principal segno di essa. Che cosa potrà mai durare, se non dura neppure quel che sembrerebbe fosse in nostro potere far durare, il nostro desiderio? Che cosa sarà mai stabile, se stabile non è neppure la nostra volontà?
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis