La poetica di cui parla
la critica postcrociana vuole avere ben diverso significato da quello che
essa ebbe nel De Sanctis, e che poi si irrigidì nel Croce, donde la sua
reiterata condanna della poetica come vicenda dialettale della poesia. Non
si tratta di distinguere tra mondo intenzionale e mondo attuale, come si
esprimeva il critico irpino (perché in questo caso avrebbe ragione il
filosofo napoletano a disfarsi di tale distinzione), ma si tratta di
delineare il gusto di uno scrittore, e come tale la poetica non è un prius
né un posterius, ma è immanente in tutti i momenti nell'opera d'arte in
atto. C'è la non poesia del Petrarca, ma non coane la poesia mancata dello
scrittore, sì bene come il gusto circolante perpetuamente in quella sua
poesia: ecco perché abbiamo parlato dell'umanesimo del Petrarca, ed ecco
perché abbiamo sentito la necessità di fondere insieme il Petrarca poeta e
il Petrarca umanista e confessore. L'individualità dell'accento, che è la
preoccupazione costante della nostra indagine storica, vale anche per la
poetica: sicché non si può dire che ci sia una poetica umanistica in
generale, ma c'è sempre- la poetica, individualizzata, del Petrarca, del
Boccaccio e di altri singoli scrittori. Però a questa ricerca della
poetica si lega l'indagine della filosofia del Petrarca, una filosofia da
Limbo, che non rinnega le antiche credenze medievali, e nemmeno afferma la
fede mondana dell'uomo, tutto calato su questa terra. Di questa sottile
angoscia, di cotesta anche deliziosa sospensione tra la Gerusalemme
celeste e la Gerusalemme terrena, si fa tutta la poesia e tutta l'opera di
confessione del Petrarca. E questa è la sua più vera modernità. Se noi
andiamo a studiare l'umanesimo del Boccaccio, lo troviamo più librato
nella leggerezza dell'intelligenza, più che profondato nell'interiorità
dell'animo; sono umanisti entrambi questi due scrittori, ma l'uno tutto
volto verso il cielo dell'intelligenza, in cui si motteggia, si ride, e si
commercia nelle umane e realistiche passioni, e l'altro tutto volto verso
il cielo dell'anima, percorsa sempre dalla sottile angoscia di un agognato
ma non mai posseduto paradiso.
Con Dante si era realizzato il tipo del poeta vate e del poeta
giustiziere; per Dante la poesia è velame di eterne ed anche trascendenti
verità. Per il Petrarca è messo da parte il vate e il giustiziere, ed
anche il poeta pedagogo o catechista, che si mescola a ruffiani, baratti,
e simile lordura: il nuovo poeta è solo e pensoso, e i più deserti campi
va misurando a passi tardi e lenti. L'ideale del nuovo poeta è la
solitudine preoccupata e malinconica; si comincia ad aprire un distacco
tra l'individuo e la società in cui egli è costretto a muoversi. Il
manifesto accorger delle genti gli dà fastidio, per cui egli non ha altro
schermo che gli occhi intenti a fuggire ove vestigio uman la rena stampi.
Si potrebbe dire che questo è umore personale del Petrarca e che questa
può essere tutt'al più una nota psicologica, e invece si tratta di una
caratteristica di tutta una età. L'appartarsi del poeta, dell'uomo
meditativo, del confessore dell'anima, con una punta di dispregio per il
volgo, è un costume che si inaugura col Petrarca e si conclude con
l'Alfieri, in cui un nuovo ideale di solitudine è affermato, una
solitudine agonistica, dalla quale si proietta nel mondo l'idea platonica
della nuova città, della nuova repubblica da fondare. L'Alfieri
nell'affermare la sua solitudine grida il suo manifesto per la nuova
storia militante che i poeti debbono sapere svolgere. È la predica del
solitario contro quella solitudine, che pure è il suo superbo e
invalicabile regno.
La solitudine del Petrarca è una solitudine di tipo religioso, ma la sua è
pure una religiosità fortemente venata di mondanismo; il gusto mondano è
il gusto delle bella letteratura, delle parolette ornate. E lo scrittore
che pare tutto volto all'intimità delle sue pene, o all'intimità dei suoi
pensieri celesti, invece ha un orecchio musicalissimo intento a cogliere
le aure più sottili e le melodie più vaghe del verbo degli uomini. Dante
predica il disinteresse scientifico della speculazione filosofica, ma
riconosce il giusto peso alle cure familiari e civili: « Non si dee
chiamar vero filosofo - scrive nel Convivio, III, XI, io - colui che è
amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, li medici, e
quasi tutti i religiosi, che non per saper studiano ma per acquistare
moneta e dignitade »; ma egli però riconosce e legittima « la cura
familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene degli uomini lo
maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono »
(Convivio, 1, i, 4). Il Petrarca invece ha un costante e altero disprezzo,
senza riserve, per la turba al vil guadagno intesa...
I luoghi delle opere del Petrarca, dove è continuamente vantato questo
aristocratico disinteresse dalle vili cure quotidiane, sono così numerosi,
che è imbarazzante la scelta. Ricorderemo l'Invectiva in medicum, dove c'è
un deprezzamento direi perfino animoso di tutte le arti utili e vili, e
dove si vendica la dignità della « inutile » poesia. Il vero ideale di
vita è quello della solitudine dei campi. L'uomo solitario della campagna,
risvegliandosi all'alba, « se ne va alacre alla vicina selva, pieno di
pace e di silenzio, e dove prima si ferma, trovato un sedile di fiori,
ovvero un colle aperto, incomincia a godere dello splendore del sole, e
lieto canta con voce gaia le cotidiane lodi al Signore, tanto più
dolcemente se ai devoti sospiri per avventura tengono bordone il mormorio
lene di una cascatella e i dolci lamenti degli augelli ».
È un passo della Vita solitaria, trattatello in due libri, dedicato a
Filippo di Cabassole, vescovo di Cavaillon, scritto nel 1346. Un uomo
moderno reagirebbe a cotesto ideale, reputandolo una forma di egoismo e di
ozio; ma tutte le parole del Petrarca non bisogna mai interpretarle in
senso psicologico, ma in senso storico. Il desiderio della solitudine
georgica del Petrarca è a suo modo la continuazione dell'ideale del
raccoglimento cristiano; è una forma di ascesi, ascesi verso Dio nei
religiosi, ascesi nelle umane lettere nei letterati. Continua l'abito
cristiano, coi pensieri rivolti all'eterno, non più un eterno teologico,
ma un eterno letterario. Il Petrarca continua a essere l'uomo di due età,
uomo del chiostro anche lui, che non legge soltanto però i libri che
parlano del paradiso, ma viene tracciando il recinto di un nuovo parco di
beatitudini, attraverso le lettere umane. Il Petrarca, andando a visitare
il fratello Gherardo, nel monastero di Montrieux, se ne torna da quella
visita con l'animo pieno di rapimento e di entusiasmo.
« Io venni in paradiso; vidi in terra gli angeli di Dio, che ora abitano
in corpi terreni, ma un giorno, terminato il travaglio del presente
esilio, abiteranno il cielo, e andranno presso quel Cristo, nel cui nome
militano oggi. Quel breve tempo mi passò rapido senza che me ne
accorgessi, mentre contemplavo il vostro santo eremo e il tempio, e
ammiravo il silenzio religioso e gli angelici canti, e mentre vi
abbracciavo in ispirito, ora tutti insieme, ora ad uno ad uno, e dimentico
delle auree terrene, mi acquetavo nella gratissima conversazione di voi e
del mio ottimo fratello, e però mancò al mio animo la possibilità di
coordinare le parole che avrei voluto dirvi ».
Il poeta sente il bisogno di tradurre l'esperienza di quel silenzio
eremitico, e scrive il De ocio religiosorum, nel 1347, e lo manda in
omaggio ai certosini di Montrieux. Egli si sente uno spirito fraterno di
quei certosini, ed è sincerissimo in questa profferta fraternità, ma non
si accorge che egli ha mutato se non il metodo, il contenuto del suo
ideale. Egli ci dà la teoresi letterario-poetica di quella solitudine
eremitica, e mondanizza a modo suo quella solitudine, ribattezzandola
nelle umane lettere. Continua la sua coerenza: l'uomo medievale dà la mano
all'umanista, e l'umanista accoglie e porta il cenobita nel inondo, in
mezzo agli uomini, che si giovano.della favella ornata, e sognano la
gloria presso i posteri.
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