FRANCESCO PETRARCA

  • LA POETICA DEL PETRARCA
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    Autore: Luigi Russo Tratto da: Ritratti e disegni storici

     
         

    La poetica di cui parla la critica postcrociana vuole avere ben diverso significato da quello che essa ebbe nel De Sanctis, e che poi si irrigidì nel Croce, donde la sua reiterata condanna della poetica come vicenda dialettale della poesia. Non si tratta di distinguere tra mondo intenzionale e mondo attuale, come si esprimeva il critico irpino (perché in questo caso avrebbe ragione il filosofo napoletano a disfarsi di tale distinzione), ma si tratta di delineare il gusto di uno scrittore, e come tale la poetica non è un prius né un posterius, ma è immanente in tutti i momenti nell'opera d'arte in atto. C'è la non poesia del Petrarca, ma non coane la poesia mancata dello scrittore, sì bene come il gusto circolante perpetuamente in quella sua poesia: ecco perché abbiamo parlato dell'umanesimo del Petrarca, ed ecco perché abbiamo sentito la necessità di fondere insieme il Petrarca poeta e il Petrarca umanista e confessore. L'individualità dell'accento, che è la preoccupazione costante della nostra indagine storica, vale anche per la poetica: sicché non si può dire che ci sia una poetica umanistica in generale, ma c'è sempre- la poetica, individualizzata, del Petrarca, del Boccaccio e di altri singoli scrittori. Però a questa ricerca della poetica si lega l'indagine della filosofia del Petrarca, una filosofia da Limbo, che non rinnega le antiche credenze medievali, e nemmeno afferma la fede mondana dell'uomo, tutto calato su questa terra. Di questa sottile angoscia, di cotesta anche deliziosa sospensione tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, si fa tutta la poesia e tutta l'opera di confessione del Petrarca. E questa è la sua più vera modernità. Se noi andiamo a studiare l'umanesimo del Boccaccio, lo troviamo più librato nella leggerezza dell'intelligenza, più che profondato nell'interiorità dell'animo; sono umanisti entrambi questi due scrittori, ma l'uno tutto volto verso il cielo dell'intelligenza, in cui si motteggia, si ride, e si commercia nelle umane e realistiche passioni, e l'altro tutto volto verso il cielo dell'anima, percorsa sempre dalla sottile angoscia di un agognato ma non mai posseduto paradiso.
    Con Dante si era realizzato il tipo del poeta vate e del poeta giustiziere; per Dante la poesia è velame di eterne ed anche trascendenti verità. Per il Petrarca è messo da parte il vate e il giustiziere, ed anche il poeta pedagogo o catechista, che si mescola a ruffiani, baratti, e simile lordura: il nuovo poeta è solo e pensoso, e i più deserti campi va misurando a passi tardi e lenti. L'ideale del nuovo poeta è la solitudine preoccupata e malinconica; si comincia ad aprire un distacco tra l'individuo e la società in cui egli è costretto a muoversi. Il manifesto accorger delle genti gli dà fastidio, per cui egli non ha altro schermo che gli occhi intenti a fuggire ove vestigio uman la rena stampi. Si potrebbe dire che questo è umore personale del Petrarca e che questa può essere tutt'al più una nota psicologica, e invece si tratta di una caratteristica di tutta una età. L'appartarsi del poeta, dell'uomo meditativo, del confessore dell'anima, con una punta di dispregio per il volgo, è un costume che si inaugura col Petrarca e si conclude con l'Alfieri, in cui un nuovo ideale di solitudine è affermato, una solitudine agonistica, dalla quale si proietta nel mondo l'idea platonica della nuova città, della nuova repubblica da fondare. L'Alfieri nell'affermare la sua solitudine grida il suo manifesto per la nuova storia militante che i poeti debbono sapere svolgere. È la predica del solitario contro quella solitudine, che pure è il suo superbo e invalicabile regno.
    La solitudine del Petrarca è una solitudine di tipo religioso, ma la sua è pure una religiosità fortemente venata di mondanismo; il gusto mondano è il gusto delle bella letteratura, delle parolette ornate. E lo scrittore che pare tutto volto all'intimità delle sue pene, o all'intimità dei suoi pensieri celesti, invece ha un orecchio musicalissimo intento a cogliere le aure più sottili e le melodie più vaghe del verbo degli uomini. Dante predica il disinteresse scientifico della speculazione filosofica, ma riconosce il giusto peso alle cure familiari e civili: « Non si dee chiamar vero filosofo - scrive nel Convivio, III, XI, io - colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, li medici, e quasi tutti i religiosi, che non per saper studiano ma per acquistare moneta e dignitade »; ma egli però riconosce e legittima « la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene degli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono » (Convivio, 1, i, 4). Il Petrarca invece ha un costante e altero disprezzo, senza riserve, per la turba al vil guadagno intesa...

    I luoghi delle opere del Petrarca, dove è continuamente vantato questo aristocratico disinteresse dalle vili cure quotidiane, sono così numerosi, che è imbarazzante la scelta. Ricorderemo l'Invectiva in medicum, dove c'è un deprezzamento direi perfino animoso di tutte le arti utili e vili, e dove si vendica la dignità della « inutile » poesia. Il vero ideale di vita è quello della solitudine dei campi. L'uomo solitario della campagna, risvegliandosi all'alba, « se ne va alacre alla vicina selva, pieno di pace e di silenzio, e dove prima si ferma, trovato un sedile di fiori, ovvero un colle aperto, incomincia a godere dello splendore del sole, e lieto canta con voce gaia le cotidiane lodi al Signore, tanto più dolcemente se ai devoti sospiri per avventura tengono bordone il mormorio lene di una cascatella e i dolci lamenti degli augelli ».
    È un passo della Vita solitaria, trattatello in due libri, dedicato a Filippo di Cabassole, vescovo di Cavaillon, scritto nel 1346. Un uomo moderno reagirebbe a cotesto ideale, reputandolo una forma di egoismo e di ozio; ma tutte le parole del Petrarca non bisogna mai interpretarle in senso psicologico, ma in senso storico. Il desiderio della solitudine georgica del Petrarca è a suo modo la continuazione dell'ideale del raccoglimento cristiano; è una forma di ascesi, ascesi verso Dio nei religiosi, ascesi nelle umane lettere nei letterati. Continua l'abito cristiano, coi pensieri rivolti all'eterno, non più un eterno teologico, ma un eterno letterario. Il Petrarca continua a essere l'uomo di due età, uomo del chiostro anche lui, che non legge soltanto però i libri che parlano del paradiso, ma viene tracciando il recinto di un nuovo parco di beatitudini, attraverso le lettere umane. Il Petrarca, andando a visitare il fratello Gherardo, nel monastero di Montrieux, se ne torna da quella visita con l'animo pieno di rapimento e di entusiasmo.

    « Io venni in paradiso; vidi in terra gli angeli di Dio, che ora abitano in corpi terreni, ma un giorno, terminato il travaglio del presente esilio, abiteranno il cielo, e andranno presso quel Cristo, nel cui nome militano oggi. Quel breve tempo mi passò rapido senza che me ne accorgessi, mentre contemplavo il vostro santo eremo e il tempio, e ammiravo il silenzio religioso e gli angelici canti, e mentre vi abbracciavo in ispirito, ora tutti insieme, ora ad uno ad uno, e dimentico delle auree terrene, mi acquetavo nella gratissima conversazione di voi e del mio ottimo fratello, e però mancò al mio animo la possibilità di coordinare le parole che avrei voluto dirvi ».

    Il poeta sente il bisogno di tradurre l'esperienza di quel silenzio eremitico, e scrive il De ocio religiosorum, nel 1347, e lo manda in omaggio ai certosini di Montrieux. Egli si sente uno spirito fraterno di quei certosini, ed è sincerissimo in questa profferta fraternità, ma non si accorge che egli ha mutato se non il metodo, il contenuto del suo ideale. Egli ci dà la teoresi letterario-poetica di quella solitudine eremitica, e mondanizza a modo suo quella solitudine, ribattezzandola nelle umane lettere. Continua la sua coerenza: l'uomo medievale dà la mano all'umanista, e l'umanista accoglie e porta il cenobita nel inondo, in mezzo agli uomini, che si giovano.della favella ornata, e sognano la gloria presso i posteri.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis