FRANCESCO PETRARCA

  • PREFAZIONE AL PETRARCA
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    Autore: Natalino Sapegno Tratto da: Pagine di storia letteraria

     
         

    I rerum vulgarium fragmenta del Petrarca si presentano al lettore moderno con un duplice aspetto e consentono, per così dire, due modi di interpretazione. Per un verso infatti si possono ridurre a una raccolta di poesie, composte in un lungo periodo di tempo (all'incirca dal 1330 al 1365), ciascuna delle quali può essere considerata a sé, ha cioè una sua unità lirica o letteraria, è un organismo compiuto in se stesso. Per un altro verso, tutti questi testi convergono a comporre un libro; alle unità singole si sovrappone un'unità più vasta e complessa; i diversi momenti lirici si compongono in una serie organica, contribuiscono a definire un'immagine che prende forma soltanto da una lettura seguitata e integrale.
    Questo doppio aspetto risponde in qualche modo alla genesi dell'opera, perché il proposito di una trascrizione e di una scelta, prima, di un ordinamento obbediente ad un criterio precostituito, poi, sorsero nella mente del poeta, come è naturale, soltanto quando già esisteva una ricca messe di testi nati giorno per giorno sulla trama delle occasioni e delle situazioni contingenti. E il proposito stesso di un ordinamento passò per varie successive fasi, che il filologo riesce parzialmente a identificare, prima di raggiungere, nell'autografo vaticano, la sua forma finale, se non propriamente definitiva (nell'animo almeno dello scrittore, fino all'ultimo perplesso ed incontentabile). D'altronde la duplicità accennata si ripercuote anche in seno a quell'ordine raggiunto e nel titolo stesso del libro; che è, o vuol essere, appunto un libro, ma pur risulta di fragmenta, di «rime sparse»; ed è una storia, un'effigie ideale, che comporta persino un fine morale e didattico, ma nello stesso tempo è anche un diario, il riflesso vario accidentato interrotto di un'esperienza sentimentale che si svolge nel tempo e tende a sfuggire ad ogni pretesa di ordine e di architettura.
    Sarebbe abbastanza facile, ma corrisponde solo in parte al vero, riconoscere in questa ambiguità della struttura la riproduzione di un contrasto, che esiste senza dubbio, fra la sopravvivenza di una mentalità medievale e scolastica, che impone all'arte una funzione educativa e la risolve, magari per vie tortuose e indirette, in allegoria, e l'insorgere prepotente di un'ispirazione modernamente soggettiva e lirica, che obbedisce soltanto a un proposito di sfogo e di illuminazione della coscienza, entrambi immediati e assolutamente liberi.
    Vero è però che, da un lato, il lirismo stesso del Petrarca si compone fin da principio per molti riguardi in una tradizione della lirica amorosa provenzale e italiana del XII e XIII secolo; dall'altro, l'intento unitario e architettonico del libro non rispecchia soltanto una concezione antiquata, ma un'esigenza attuale del poeta, la sua cosciente volontà di affermare, anche polemicamente, il nuovo ideale, la nuova visione della realtà, che egli incarna con sottile coerenza nella vita e negli scritti.

    È questo l'ideale che oggi chiamiamo umanistico; il quale proprio in quegli anni, e per merito del Petrarca sopra ogni altro, nasceva e si affermava in Italia, parallelamente al dissolversi della civiltà comunale e in rapporto con le nuove condizioni di vita imposte dalla civiltà delle signorie. Ideale caratterizzato dal progressivo straniarsi del letterato, ormai ridotto ad un compito tutto burocratico ed ornamentale, dalle lotte e dai problemi pratici, politici morali e religiosi, che avevano così fortemente impegnato l'umanità la polemica e la poesia di Dante. Ideale in se stesso contraddittorio, in quanto comporta un reale impoverimento, una vera e propria mutilazione dell'esperienza umana e il crollo di un ordine intellettuale e morale e una profonda frattura tra le forme della vita associata e il mondo della cultura, che tende sempre più a rinchiudersi nella sua solitudine e a ritrovare in essa, e in essa soltanto, le superstiti ragioni del suo orgoglio, e del suo prestigio, e pur non si rassegna a rinunciare a quella tradizionale funzione di guida e di ammaestramento, che le circostanze obiettive lo rendono ogni giorno più impotente ad assolvere in un senso pieno ed efficace.
    Proprio qui deve riconoscersi, anzi, il significato storico dei Rerum vulgarium fragmenta: nella presenza di un proposito unitario continuamente contraddetto, ma non distrutto, dal contenuto reale dell'ispirazione; la quale è essenzialmente lirica, e cioè individuale e solitaria, e pur tende a proporsi come una norma di valore assoluto e riesce di fatto ad esser sentita come tale nel corso dei secoli, sia pure soltanto in una cerchia aristocratica di spiriti privilegiati. Sì che la contraddizione, che si avverte nell'assunto del canzoniere petrarchesco, è in sostanza il riflesso della contraddizione più profonda insita in quell'ideale umanistico, di cui essa è la prima, e poeticamente più intensa espressione.

    Il canzoniere del Petrarca, è nella sua sostanza materiale, una storia d'amore, la storia di una passione costante e non mai domata, dinanzi alla quale non pur gli altri affetti minori, ma le idealità stesse più nobili e alte retrocedono, diventando secondarie e marginali. Passione umana e terrena, desiderio che investe tutta l'anima, e la carne, tanto più profondo e imperioso quanto meno è esaudito e soddisfatto, vivente ancora quando già, per la dipartita di Laura, ogni speranza è morta. Questo amore (come appare dalle confessioni minori del poeta, e specialmente da alcune pagine del Secretum) ha in sé qualcosa di oscuro e di morboso, nella sua natura stessa di desiderio perennemente inappagato, nella sua durata oltre la morte della donna, nella sua qualità di affetto unico e tirannico. Talora pare che il poeta si rassegni nella consuetudine del desiderio e del sogno, talora invece la passione insorge più prepotente e lo fa cercare la realtà della donna, e lamentarsi e implorare pietà e rimpiangere gli anni che fuggono senza consolazione e senza speranza; talora anche, stanco di tanto aspettare e desiderare invano, il poeta invoca di essere liberato dal suo travaglio, ma poi vi ricade e ritorna alle inutili ansie, ai morbidi vagheggiamenti dell'immaginazione, alle preghiere, al pianto. Morta Laura, egli trasferisce il suo amore nel cielo dove ella è salita, e la rievoca nei sogni, donna ancora bellissima, anzi più mite con lui e quasi materna, più sollecita delle sue pene, meglio disposta a consolarlo; ovvero, rivolgendosi a considerare la dura realtà della morte, vede il mondo fatto squallido e vuoto, prato senza fiori, anello senza gemma, e piange inconsolabile la perduta speranza della sua beatitudine. Ma intorno al nucleo costituito da questa storia d'amore si raccoglie, a guardar bene, una assai più vasta e ricca materia sentimentale; e cioè tutte le perplessità e le oscillazioni dell'animo petrarchesco, le sue preoccupazioni etiche e religiose, le sue angoscie, un fervore di passioni varie ancor più vagheggiate e contemplate che vissute. Non Laura, sì il poeta stesso campeggia nel quadro come protagonista; non le vicende esteriori dell'amore, si le ripercussioni di quelle nella vita intima del Petrarca costituiscono la materia affettiva del canto. E la storia stessa angosciosa e mutevole di quell'amore si trasforma in un simbolo dell'infermità del poeta, perché in essa si riassume il gioco vario e intricato delle passioni in contrasto con l'esigenza viva sempre, e mai soddisfatta, di un superiore equilibrio.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis