QUATTROCENTO

  • PROSA LATINA DEL QUATTROCENTO
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    Autore: Eugenio Garin Tratto da: Medioevo e Rinascimento

     
         

    Si aprono, a proposito della prosa latina, due questioni strettamente connesse e che sembrano in qualche modo, già nella loro impostazione, venir contrastando con quei caratteri stessi che si sono voluti definire: come, infatti, parlare della « umanità » di una produzione che si serviva di una lingua che nessuno ormai usava e che, dunque, già nel mezzo espressivo poneva come suo canone l'imitazione; in che modo una letteratura mimetica, ricalcata sui modelli « ciceroniani », poteva oltrepassare i limiti dell'erudizione? Ma i due gravi problemi, del latino umanistico e della imitazione classica, già tanto dibattuti, hanno ormai offerto anche l'avvio a una soluzione.
    Quanto infatti si obbietta intorno all'uso del latino, in luogo del volgare e ad una presunta frattura che si opererebbe rispetto alla tradizione trecentesca, deve essere corretto con l'osservazione che i generi di prosa a cui ci riferiamo - orazioni, trattati, epistole politiche, dialoghi dottrinali - avevano sempre fatto uso del latino. Non è quindi esatto dire che da un presunto uso del volgare si torna al latino; è vero invece che al latino medievale definito barbarico, e cioè goto o parigino, si oppone un altro latino che si determina e si definisce rispetto ai modelli classici. Il quale latino, che si dichiara - come dice esplicitamente il Platina - integrato da tutta la più feconda tradizione postciceroniana, ivi compresi i Padri della Chiesa, intende rivendicare i diritti di una lingua nazionale romana contro l'universalità di un gergo scolastico (lo stile parigino), ed innanzitutto nel campo di una produzione costantemente espressa in latino. Giustamente il De Sanctis sottolineava la frase del Valla che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al latinogotico dell'uso medievale. La quale « nostra lingua romana » degli umanisti, che si precisa con caratteri propri così rispetto al latino classico come a quello barbaro, va vista per quello che essa veramente è, anche rispetto al volgare: « un nuovo latino, in cui la complessità antica cede il posto alla scioltezza moderna ». Il latino degli umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno ad una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che si collocava chiaramente nel tempo definendo i propri rapporti così col mondo antico come con il Medioevo; il latino dei grandi umanisti, lungi dal rappresentare una battuta d'arresto o un momento di involuzione, si colloca nella storia stessa del volgare. « Il latino insegnava al volgare l'eleganza la misura la forza e l'eloquenza, e il volgare imprimeva negli scritti latini degli umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei suoi trapassi intuitivi, della sua eloquenza interiore » . Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v'è una collaborazione che del resto si traduce quasi materialmente nel fatto che gli autori spesso scrivono l'opera loro in latino e in italiano. Non sempre si è posto mente al fatto che dal Manetti al Ficino gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E come il loro latino è davvero una lingua loro, così il volgare che adoperano non è per nulla oppresso da una imitazione artificiosa di modelli classici.

    Giungiamo così a quello che forse è il punto più delicato ad intendersi dell'atteggiamento di questi quattrocentisti: l'imitazione degli antichi. Che la posizione assunta dagli umanisti rispetto agli autori classici sia alimentata da una preoccupazione storica e critica; che essi siano dei filologi desiderosi innanzitutto di comprendere gli autori del passato nelle loro reali dimensioni e nella loro situazione concreta: è cosa ormai in complesso pacifica. Ora già questo definisce il senso di quella imitazione, che indica un atteggiamento molto caratteristico. L'Accolti dichiarerà nettamente la parità di valore tra i nuovi autori e i classici. Poliziano nella polemica col Cortesi, che è un testo capitale, confuterà tutte le istanze del ciceronianismo, e proclamerà il valore di un'intera tradizione afferrata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo più tardo della letteratura romana (« neque autem statim deterius dixerimus quod diversum sit »). Ma dirà soprattutto l'enorme distanza fra una poesia che fiorisce come libera creazione su una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre - illa poetas facit, haec simias.

    L'Umanesimo fu in questa singolare « imitazione-creazione », come l'ha chiamato il Russo: umanità fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gli altri uomini nell'operoso sforzo di raggiungere una sempre più alta forma di vita. Di qui, appunto, il particolare carattere delle sue più felici espressioni letterarie.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis