Nella ripresa il volgare
letterario non subì soltanto l'influenza del latino, ma anche l'intralcio
del dialetto. La prosa di L. B. Alberti abbonda non meno di latinismi che
di volgarismi, il numero degli scrittori dialettali del Quattrocento è
notevole, e vi si contano non solo persone indotte, ma anche colte e di
alto ingegno. Ricordiamo Leonardo, San Bernardino. Il capolavoro manca, e
la produzione d'intento letterario è scarsa: l'Alberti, il Magnifico, il
Sannazzaro sono i soli scrittori le cui opere tradiscano uno studio vigile
della forma, un ideale stilistico consapevole. Il Palmieri, che li precede
nel tempo, è poco esperto; Leonardo, che li segue, si aggira - ma solo
quando la sua pagina si presta ad un'analisi artistica - in una sfera più
poetica che prosastica: nel resto, la sua è prosa senz'arte; Savonarola
badò ad altro che allo stile: e perciò il fervore della sua
improvvisazione non nasconde ai nostri occhi il difetto del senso d'arte.
Tanti altri scrittori, anche se intimi di lettere, apparvero piuttosto
rozzi che culti, e perciò il loro contributo alla storia della nostra
prosa d'arte non è grande. Vespasiano da Bisticci, Feo Belcari, Giovanni
Dominici, Alessandra Macinghi Strozzi, San Bernardino da Siena, e quanti
altri modesti e un tempo obliati scrittori di quell'età risorsero alla
luce per opera dell'erudizione e dell'amore delle nostre fortune
letterarie, rappresentano meno la tradizione che un episodio nella storia
della nostra prosa letteraria: rappresentano - nei limiti del loro secolo
- il contromodello della prosa latina degli umanisti o le disperse fortune
del volgare, ma non rivelano nessuno svolgimento delle nostre forme
d'arte. Né la Vita Nuova né il Decameron furono per essi un'esperienza o
una fonte d'insegnamenti, né il latino un vero stimolo. Lo stile, il
lessico, la sintassi delle opere di alcuni di essi appaiono meno elaborati
persino delle Cronache del Compagni e del Villani, dello Specchio di vera
penitenza, dei Fioretti, opere che, paragonate a queste composizioni
parlate del Quattrocento, sembrano scritti di un'età più sensibile al
freno dell'arte.
Un genere di scrittori che avrebbe potuto contribuire alla conservazione
di quella prosa che il Boccaccio aveva resa limpida nel linguaggio, agile
di movenze, ordinata e piana di andamento - ricca fra la libertà e la
regola la sua sintassi, vario fra la brevità e l'ampiezza il giro dei suoi
periodi, - non si mantenne all'altezza del modello e cadde nella
popolarità. Alludo alla prosa dei novellieri del Quattrocento che è più
popolare di quella del Sacchetti, scrittore ancora corretto e classico.
Anche quando la materia e i temi del Boccaccio vi si conservano, non se ne
ritrova più l'originale finezza; e in una qualsiasi imitazione
quattrocentesca di qualcuna delle novelle del Decameron, si avverte subito
quanto i termini, i costrutti, lo stile siano come imbarbariti. Manca al
novelliere quattrocentesco la misura dello stile, quella misura che è lo
specchio della capacità di idealizzamento nella prosa del Boccaccio: e
manca, in genere, l'educazione alle finezze dell'arte.
Un tentativo di sollevarsi a un ideale di misura e di finezza fu fatto, in
questo genere, fuori di Toscana, per la penna di uno che, nonostante la
nativa tendenza all'espressione dialettale e rozza, ambiva di adornarsi
del decoro e della grazia toscana raccontando, o del paludamento latino
rivolgendosi ad amici e signori nelle sue più studiate dedicatorie.
Masuccio Salernitano deve parte della sua fama a quest'aspirazione
letteraria che ravviva e colorisce la sua nativa capacità di sbozzare
qualche personaggio o di tener saldi i vincoli di qualche situazione. Ma
il suo Novellino è del '76, e rappresenta uno sforzo inferiore a quanto
ormai si era raggiunto in Toscana nel processo di resurrezione della prosa
d'arte, e uno sforzo tardivo anche rispetto alle condizioni di quella
prosa fuori di Toscana, dove ormai non era lontana dall'apparire, e
proprio nella stessa Napoli, l'opera ben altrimenti elaborata del
Sannazzaro.
Sembra cosa indiscutibile che fu il trionfo del latino ad interrompere lo
sviluppo letterario del volgare, e invece è vero che non furono gli
scrittori più o meno popolari o lontani dai problemi dell'arte e dal
latino a farlo risorgere, sibbene quelli che uscivano dall'educazione del
latino. Nella prosa - ancor più che nella poesia - il risorgimento
letterario del volgare fu opera di quei pochi che avevano sperimentate le
loro virtù nella cultura umanistica, e richiese uno sforzo lentissimo, il
quale dal 1432, data approssimativa dei Libri della Famiglia dell'Alberti,
durò fino al termine del secolo quando apparve l'Arcadia...
Nella prosa dell'Alberti sono vivi dappertutto i segni del gran numero di
problemi di lingua, di fonetica, di sintassi, di stile, di grammatica che
egli affrontò, come se mai da altri fossero stati affrontati. Che
meraviglia passando da Dante, dal Boccaccio, dai Fioretti, dal Sacchetti a
questa prosa nuovamente così latineggiante! Un nuovo sforzo di
espressione, un avvento nuovo di difficoltà, un uscir nuovo dalla
desuetudine e dall'inesperienza per rincorrere un miraggio di stile
misurato, una ricerca di modelli a cui uniformarsi, un insorgere frequente
di dubbi additano il faticoso costituirsi della nuova prosa; ed è mirabile
il grado di compostezza a cui l'Alberti la condusse, pur lasciandola ad
altre mani tanto imperfetta.
Nel Due e nel Trecento si erano contemperate la forma romanza con quella
classica nella prosa più armoniosa e varia, delicata e insieme robusta,
che conosciamo. Ma il Quattrocento non riprese di lì le mosse, e creò una
nuova prosa, dove il delicato e il robusto cessarono di essere termini di
modulazione nell'organismo del discorso, e un criterio di giustezza, di
misura e d'armonia quasi senza varietà, fini per prevalere.
II nuovo organismo del discorso non sarà nella modulazione poetica, ma
nella struttura architettonica delle sue membra: ragione per cui la
complessità prevarrà via via sulla semplicità, e si definiranno sempre
meglio gli schemi di prosa del Cinquecento.
Come nell'architettura, l'Alberti impostò anche nella prosa il nuovo arco
edificatorio, e s'ispirò più ai modelli antichi che a quelli recenti.
Ricercò la leggiadria e la grazia non per via di strutture esili, alle
quali non avevano mancato di far ricorso scrittori come Dante e l'autore
dei Fioretti, ma attraverso membrature solide, e tuttavia gentili, del
discorso. II suo ideale, anche in prosa, è l'immagine che gli viene dal
duomo di Firenze, contemplando il quale lo attira quella « grazia » giunta
a « maestà », quella « gracilità vezzosa » congiunta insieme con una «
sodezza robusta e piena ».
Si capisce come i latini, piuttosto che Dante e il Boccaccio, gli
servissero da modelli. L'Alberti non scrisse che trattati, eppure non
ricorse al Convivio di Dante per apprenderne le forme, né alla sua prosa -
solidamente costruita ma di accento ancora poetico - per apprendere lo
stile. Dante coronava gli sforzi di un secolare tirocinio, ma con un
ideale stilistico ancora tutto passione e tensione; l'Alberti ripete gli
sforzi ma con un ideale stilistico tutto misura e riposo. Come è strano
trovare nell'Alberti, scrittore di più di un secolo dopo, una sintassi più
incerta che in Dante! trovare indebolite e scosse le leggi italiane
dell'uso dei tempi, per un tirannico riflesso di quelle latine, quando
dalle origini a Dante era accaduto esattamente l'inverso! Eppure dover
riconoscere che tutto ha la vitalità di una nuova esperienza, nulla indica
il corrompersi di una vecchia forma, lo sfasciarsi di un antico assetto.
Né diversamente accadde nei confronti del Boccaccio. Anche da lui
l'Alberti imparò poco, quasi niente: non la mirabile modulazione della
fonetica, non l'eleganza abilissima dei costrutti, non la straordinaria
varietà e duttilità dello stile, icastico non meno quando è paludato che
quando è nudo e plebeo. Ma costruì un edificio diverso, rispondente a una
tutt'altra armonia, col prospetto a meriggio, e l'aria intorno d'un soffio
ugualmente ventilato. Questa calma, questo uguale respiro, questa luce
senza mutamenti è una legge intima della prosa dell'Alberti, è il segno
della sua persona.
La pacatezza non è una grande virtù, ma praticata con quella forza, con
quella costanza, con quella inesausta disposizione d'animo con cui la
pratica l'Alberti, diventa ammirevole, produce gli effetti delle grandi
virtù: ti tiene elevato lo spirito, ti fa curioso della parte nobile di
te, ti ritrae la vita sotto un aspetto unico. Quel terzo libro della
Famiglia che, pur raffazzonato, corse le mani dei lettori come opera bella
e in sé compiuta, e, staccatosi dal vero padrone, corse rischio di restare
adespota - tanto era la sua uguaglianza intima - è la più bella immagine
di questo fascino della calma, la misura più esatta dell'ideale di
equilibrio che la informava. Una venustà quasi pura di inquinamenti, una
gentilezza di linguaggio che ritrae a meraviglia quel ragionare riposato
di cose e fra persone tranquille, senza più sforzi e guasti del periodo,
additano il nuovo olimpo della prosa, quell'orizzonte quasi poetico a cui
la saggezza e i ragionamenti della saggezza si possono innalzare. Quanto è
più viva qui la proprietà e l'esattezza dei termini, quanto delicata
l'assunzione del volgare e delle grazie del volgare che altrove non eran
grazie! Né il latinismo ti offende più, né il dialetto rimane grezzo, ma
un felice contemperamento di quanto l'uno ha di nobiltà con quanto l'altro
reca in sé di vivo e proprio dà una nuova immagine al discorso, e indica
il nuovo ideale della prosa futura, la sicurezza di un nuovo gusto.
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