QUATTROCENTO

  • PROSA LETTERARIA DEL QUATTROCENTO E L'ALBERTI
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    Autore: Raffaele Spongano Tratto da: La prosa letteraria del Quattrocento

     
         

    Nella ripresa il volgare letterario non subì soltanto l'influenza del latino, ma anche l'intralcio del dialetto. La prosa di L. B. Alberti abbonda non meno di latinismi che di volgarismi, il numero degli scrittori dialettali del Quattrocento è notevole, e vi si contano non solo persone indotte, ma anche colte e di alto ingegno. Ricordiamo Leonardo, San Bernardino. Il capolavoro manca, e la produzione d'intento letterario è scarsa: l'Alberti, il Magnifico, il Sannazzaro sono i soli scrittori le cui opere tradiscano uno studio vigile della forma, un ideale stilistico consapevole. Il Palmieri, che li precede nel tempo, è poco esperto; Leonardo, che li segue, si aggira - ma solo quando la sua pagina si presta ad un'analisi artistica - in una sfera più poetica che prosastica: nel resto, la sua è prosa senz'arte; Savonarola badò ad altro che allo stile: e perciò il fervore della sua improvvisazione non nasconde ai nostri occhi il difetto del senso d'arte. Tanti altri scrittori, anche se intimi di lettere, apparvero piuttosto rozzi che culti, e perciò il loro contributo alla storia della nostra prosa d'arte non è grande. Vespasiano da Bisticci, Feo Belcari, Giovanni Dominici, Alessandra Macinghi Strozzi, San Bernardino da Siena, e quanti altri modesti e un tempo obliati scrittori di quell'età risorsero alla luce per opera dell'erudizione e dell'amore delle nostre fortune letterarie, rappresentano meno la tradizione che un episodio nella storia della nostra prosa letteraria: rappresentano - nei limiti del loro secolo - il contromodello della prosa latina degli umanisti o le disperse fortune del volgare, ma non rivelano nessuno svolgimento delle nostre forme d'arte. Né la Vita Nuova né il Decameron furono per essi un'esperienza o una fonte d'insegnamenti, né il latino un vero stimolo. Lo stile, il lessico, la sintassi delle opere di alcuni di essi appaiono meno elaborati persino delle Cronache del Compagni e del Villani, dello Specchio di vera penitenza, dei Fioretti, opere che, paragonate a queste composizioni parlate del Quattrocento, sembrano scritti di un'età più sensibile al freno dell'arte.
    Un genere di scrittori che avrebbe potuto contribuire alla conservazione di quella prosa che il Boccaccio aveva resa limpida nel linguaggio, agile di movenze, ordinata e piana di andamento - ricca fra la libertà e la regola la sua sintassi, vario fra la brevità e l'ampiezza il giro dei suoi periodi, - non si mantenne all'altezza del modello e cadde nella popolarità. Alludo alla prosa dei novellieri del Quattrocento che è più popolare di quella del Sacchetti, scrittore ancora corretto e classico. Anche quando la materia e i temi del Boccaccio vi si conservano, non se ne ritrova più l'originale finezza; e in una qualsiasi imitazione quattrocentesca di qualcuna delle novelle del Decameron, si avverte subito quanto i termini, i costrutti, lo stile siano come imbarbariti. Manca al novelliere quattrocentesco la misura dello stile, quella misura che è lo specchio della capacità di idealizzamento nella prosa del Boccaccio: e manca, in genere, l'educazione alle finezze dell'arte.
    Un tentativo di sollevarsi a un ideale di misura e di finezza fu fatto, in questo genere, fuori di Toscana, per la penna di uno che, nonostante la nativa tendenza all'espressione dialettale e rozza, ambiva di adornarsi del decoro e della grazia toscana raccontando, o del paludamento latino rivolgendosi ad amici e signori nelle sue più studiate dedicatorie. Masuccio Salernitano deve parte della sua fama a quest'aspirazione letteraria che ravviva e colorisce la sua nativa capacità di sbozzare qualche personaggio o di tener saldi i vincoli di qualche situazione. Ma il suo Novellino è del '76, e rappresenta uno sforzo inferiore a quanto ormai si era raggiunto in Toscana nel processo di resurrezione della prosa d'arte, e uno sforzo tardivo anche rispetto alle condizioni di quella prosa fuori di Toscana, dove ormai non era lontana dall'apparire, e proprio nella stessa Napoli, l'opera ben altrimenti elaborata del Sannazzaro.
    Sembra cosa indiscutibile che fu il trionfo del latino ad interrompere lo sviluppo letterario del volgare, e invece è vero che non furono gli scrittori più o meno popolari o lontani dai problemi dell'arte e dal latino a farlo risorgere, sibbene quelli che uscivano dall'educazione del latino. Nella prosa - ancor più che nella poesia - il risorgimento letterario del volgare fu opera di quei pochi che avevano sperimentate le loro virtù nella cultura umanistica, e richiese uno sforzo lentissimo, il quale dal 1432, data approssimativa dei Libri della Famiglia dell'Alberti, durò fino al termine del secolo quando apparve l'Arcadia...

    Nella prosa dell'Alberti sono vivi dappertutto i segni del gran numero di problemi di lingua, di fonetica, di sintassi, di stile, di grammatica che egli affrontò, come se mai da altri fossero stati affrontati. Che meraviglia passando da Dante, dal Boccaccio, dai Fioretti, dal Sacchetti a questa prosa nuovamente così latineggiante! Un nuovo sforzo di espressione, un avvento nuovo di difficoltà, un uscir nuovo dalla desuetudine e dall'inesperienza per rincorrere un miraggio di stile misurato, una ricerca di modelli a cui uniformarsi, un insorgere frequente di dubbi additano il faticoso costituirsi della nuova prosa; ed è mirabile il grado di compostezza a cui l'Alberti la condusse, pur lasciandola ad altre mani tanto imperfetta.
    Nel Due e nel Trecento si erano contemperate la forma romanza con quella classica nella prosa più armoniosa e varia, delicata e insieme robusta, che conosciamo. Ma il Quattrocento non riprese di lì le mosse, e creò una nuova prosa, dove il delicato e il robusto cessarono di essere termini di modulazione nell'organismo del discorso, e un criterio di giustezza, di misura e d'armonia quasi senza varietà, fini per prevalere.
    II nuovo organismo del discorso non sarà nella modulazione poetica, ma nella struttura architettonica delle sue membra: ragione per cui la complessità prevarrà via via sulla semplicità, e si definiranno sempre meglio gli schemi di prosa del Cinquecento.
    Come nell'architettura, l'Alberti impostò anche nella prosa il nuovo arco edificatorio, e s'ispirò più ai modelli antichi che a quelli recenti. Ricercò la leggiadria e la grazia non per via di strutture esili, alle quali non avevano mancato di far ricorso scrittori come Dante e l'autore dei Fioretti, ma attraverso membrature solide, e tuttavia gentili, del discorso. II suo ideale, anche in prosa, è l'immagine che gli viene dal duomo di Firenze, contemplando il quale lo attira quella « grazia » giunta a « maestà », quella « gracilità vezzosa » congiunta insieme con una « sodezza robusta e piena ».

    Si capisce come i latini, piuttosto che Dante e il Boccaccio, gli servissero da modelli. L'Alberti non scrisse che trattati, eppure non ricorse al Convivio di Dante per apprenderne le forme, né alla sua prosa - solidamente costruita ma di accento ancora poetico - per apprendere lo stile. Dante coronava gli sforzi di un secolare tirocinio, ma con un ideale stilistico ancora tutto passione e tensione; l'Alberti ripete gli sforzi ma con un ideale stilistico tutto misura e riposo. Come è strano trovare nell'Alberti, scrittore di più di un secolo dopo, una sintassi più incerta che in Dante! trovare indebolite e scosse le leggi italiane dell'uso dei tempi, per un tirannico riflesso di quelle latine, quando dalle origini a Dante era accaduto esattamente l'inverso! Eppure dover riconoscere che tutto ha la vitalità di una nuova esperienza, nulla indica il corrompersi di una vecchia forma, lo sfasciarsi di un antico assetto.
    Né diversamente accadde nei confronti del Boccaccio. Anche da lui l'Alberti imparò poco, quasi niente: non la mirabile modulazione della fonetica, non l'eleganza abilissima dei costrutti, non la straordinaria varietà e duttilità dello stile, icastico non meno quando è paludato che quando è nudo e plebeo. Ma costruì un edificio diverso, rispondente a una tutt'altra armonia, col prospetto a meriggio, e l'aria intorno d'un soffio ugualmente ventilato. Questa calma, questo uguale respiro, questa luce senza mutamenti è una legge intima della prosa dell'Alberti, è il segno della sua persona.
    La pacatezza non è una grande virtù, ma praticata con quella forza, con quella costanza, con quella inesausta disposizione d'animo con cui la pratica l'Alberti, diventa ammirevole, produce gli effetti delle grandi virtù: ti tiene elevato lo spirito, ti fa curioso della parte nobile di te, ti ritrae la vita sotto un aspetto unico. Quel terzo libro della Famiglia che, pur raffazzonato, corse le mani dei lettori come opera bella e in sé compiuta, e, staccatosi dal vero padrone, corse rischio di restare adespota - tanto era la sua uguaglianza intima - è la più bella immagine di questo fascino della calma, la misura più esatta dell'ideale di equilibrio che la informava. Una venustà quasi pura di inquinamenti, una gentilezza di linguaggio che ritrae a meraviglia quel ragionare riposato di cose e fra persone tranquille, senza più sforzi e guasti del periodo, additano il nuovo olimpo della prosa, quell'orizzonte quasi poetico a cui la saggezza e i ragionamenti della saggezza si possono innalzare. Quanto è più viva qui la proprietà e l'esattezza dei termini, quanto delicata l'assunzione del volgare e delle grazie del volgare che altrove non eran grazie! Né il latinismo ti offende più, né il dialetto rimane grezzo, ma un felice contemperamento di quanto l'uno ha di nobiltà con quanto l'altro reca in sé di vivo e proprio dà una nuova immagine al discorso, e indica il nuovo ideale della prosa futura, la sicurezza di un nuovo gusto.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis