QUATTROCENTO

  • POPOLARITA' E LETTERATURA NEL POLIZIANO
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    Autore: Giosué Carducci Tratto da: Angelo Poliziano, le Stanze, l'Orfeo, le Rome

     
         

    Che le Stanze venissero così presto interrotte, io non saprei poi farne tante querimonie. Se il poeta negli altri libri si fosse lasciato andare, come portavalo la natura sua, a quelle lungaggini che nella materia dilettevolissima del primo si comportano volentieri non so che sarebbe avvenuto della sua fama: un giuoco d'armi del resto descritto dal classico messer Angelo, posto pure che ei non discendesse mai alle volgari enumerazioni di Luca Pulci, si può tener quasi per certo che non avrebbe retto al confronto dei combattimenti dell'Ariosto e del Tasso, ben altri maestri di arme e con altri eroi tradizionali alla mano. Un panegirico in più canti sarìa stato un noioso poema di più, letto soltanto dagli eruditi; e già nel secondo libro la poesia scade in paragone del primo. Mentre, così com'è, quel frammento è di fama quasi popolare, e in opera di stile sta veramente fra le rarissime preziosità delle lettere nostre. Non ha l'altissima perfezione delle Georgiche e né men quella dell'Aminta; poemi ambedue che segnano il colmo del buon gusto nelle due età più polite della doppia letteratura d'Italia. Oltre le più rilevanti sconvenienze nell'imitazion generale e nell'orditura del poema che dal fin qui discorso dovrebbono risultare a bastanza, qualche piccolo difetto di versificazione e di stile è pur notato nelle Stanze. Altri vi riprende il frequente uso degli sdruccioli, basso snono in grave argomento: ma a cui ne' suoni cerca anzi tutto la varietà, a cui le rime sdrucciole piacciono a' lor luoghi in Dante e nell'Ariosto, piaceranno anche nel Poliziano. Altri torce il naso a certe desinenze in orono delle terze persone plurali dei perfetti, e appunta messer Angelo che egli imitasse gli antichi più che ad elegante poeta si convenisse: dovea piuttosto accusarlo che egli scrivesse la lingua parlata al tempo suo, perché allora non era ancor l'Italia, grazie a Dio, caduta sì basso, che ci fosse questa maledizione del dovere imitare anche la lingua. Con più ragione è ripreso di parecchi latinismi; ma né pure ai migliori è concesso scuotere in tutto il giogo del proprio secolo; e di qualche ridondanza a danno dell'efficacia e della proprietà; e di pochi sgradevoli accoppiamenti di suoni; e della sconvenienza di certe imagini, coane là dove assomigliò i pargoletti Amori ad altrettanti galeotti (II, 2,). Ma il carattere speciale dello stil della Giostra è in questo, che posto l'autore tra il finire di una età letteraria primitiva e originale così nell'inventare come nello esprimere e 'l cominciare d'una età d'imitazione e di convenienza tiene del rozzo e del vigoroso dalla prima come dell'aggraziato e del morbido dalla seconda. Gli ultimi vestigi della prima età scompariranno mano a mano più sempre nelle Api del Rucellai, nel Tirsi del Castiglione, nella Coltivazione dell'Alamanni: la seconda poi risplenderà tutta pura nella Ninfa tiberina del Molza, e nello stupendissimo Aminta: la Giostra apre la serie. Del resto quel misto di grazia e di forza, di finezza e d'ingenuità, conferisce non poco alla originalità nell'imitazione che niuno può disdire al Poliziano. La quale io credo che sia anche aiutata dal metro che il poeta si elesse. Portar tanta ricchezza di rimembranze e d'imitazioni nell'ottava, non veramente fino allora nobilitata, era un dissimularla: più, coi varai ondeggiamenti e movimenti d'armonia che primo il Poliziano fece prendere a quel metro, giunse a ricoprire i suoni diversi dell'esametro antico e della terzina e della canzone che pure dalle molteplici imitazioni dovevano emergere. E questo del perfezionamento dell'ottava è vanto singolarissimo del Poliziano. Prender l'ottava, diffusa e sciolta quale lasciolla il Boccaccio, che nato gran prosatore e specialmente narratore la segnò troppo della sua impronta; stemperata, quale dal Pucci in poi l'avean ridotta i poeti popolari; rotta, quale dal dialogo delle rappresentanze era dovuta uscire; aspra in fine e ineguale, quale sotto il rude piglio del Medici, tiranno anche delle rime, avea dovuto farsi per divenir lirica; prenderla, dico, in simili condizioni, e con l'unità d'armonia darle il carattere metrico suo proprio che ha poi sempre conservato, mettervi dentro tanta varietà concorde, vibrarla, allargarla, arrotondarla, distenderla, imporle il raccoglimento del terzetto e l'ondeggiamento della stanza, la risolutezza del metro finito e la fluidità del perenne, farla eco a tutti i suoni della natura e della fantasia, dal sussurrare delle piante, dal gemere dell'aure, dal canto dell'usignolo, fino al tripudio bacchico, alla foga della galea, alla tromba di Megera; e ciò un giovine, e da sé solo senza predecessori; mentre a condurre la canzone e il sonetto alla sua perfezione dai tentativi di Federigo II e Pier delle Vigne occorse un secolo e due scuole diverse, di Guittone e del Guinicelli, e in fine due uomini come l'Alighieri e il Petrarca: ciò per me è un miracolo più grande che non sarebbe l'avere il Poliziano scritto le stanze a quattordici anni, e tale che, ove ogni altro argomento mancasse, attesterebbe la gran facoltà poetica, almeno esterna, del mio autore. Al Giordani il verso del Poliziano qualche volta pareva duro; né io il negherò, recandone pure al secolo la cagione: ma certo non è mai dura l'ottava, la quale pare a me che raccolga le due doti diverse di quella dell'Ariosto e dell'altra del Tasso: grave e sonora, ma non tornita e rimbombante come la seconda; libera e varia, ma non soverchio disciolta come la prima; l'ottava del Poliziano, dov'è proprio bella, supera a parer mio, quelle de' due grandi epici; è l'archetipo dell'ottava italiana.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis