QUATTROCENTO

  • POLIZIANO TRA ORFEO E STANZE
  •  
    Autore: Natalino Sapegno Tratto da: Sentimento umanistico e la poesia del Poliziano

     
         

    La presenza di un'arte raffinatissima, sorretta da una cultura squisita e un po' preziosa, spiega quel che di decorativo e di esteriormente leggiadro permane anche nelle parti più belle delle opere volgari: essa costituisce il limite della poesia di Poliziano, ma anche il punto di partenza essenziale e necessario... Quello che il Poliziano rappresenta è il mondo del mito, che lo studio dei poeti classici ha fatto risorgere, che si ravviva nel fuoco di una fantasia commossa: mondo ormai definito e immutabile, che le nostre piccole passioni non valgono a turbare (anzi neppure a incrinarne il levigato splendore), mondo senza possibilità di modificazioni e di svolgimenti, senza storia e senza dramma.
    Il poeta non narra, ma contempla, e in quell'estasi di contemplazione trova la sua pace. Uscendo fuori dalle pagine dei vecchi codici le creature dei miti riprendono lineamenti e colori e tornano ad intessere le traine delle loro ben note vicende: le avvolge un'atmosfera di divina e lontanissima perfezione; e i loro gesti e le loro parole si svolgono secondo norme prestabilite e fuori del tempo, liberate da ogni senso di passione, tradotte in puri ritmi di eterna bellezza. Venere risorge dalle acque del mare tutta soffusa di una voluttà senza tormento, ricinta di un alone di letizia che da lei propaga a tutte le cose circostanti, accogliendole in una luce immota e come sospesa in un attimo di grazia, statua essa stessa assai più che donna, e pur statua vibrante di rattenuto calore. La gentile paura di Europa, il trepido lamento di Arianna, le chiome sciolte e le dolenti grida di Proserpina rapita, l'indolente sorriso di Galatea rivivono in atteggiamenti di immutabile grazia, dai quali esula ogni contenuto materiale di sofferenza e di inquietudine: immagini d'incanto che il poeta contempla rapito. Così il mondo dei miti ritorna nelle ottave del Poliziano, non rifatto a nuovo da uno scrittore che ne rielabori secondo la sua indole la materia sentimentale, ma neppure riecheggiato con gusto erudito e puramente archeologico da un dotto curioso e un po' arido, sì rievocato dalla nostalgia di un poeta che in esso riconosce l'espressione eterna del suo ideale di bellezza, lo splendido rifugio della sua fantasia, lontano dagli ardori e dai turbamenti terrestri.

    Con lo stesso sapore di favola remota e in sé perfetta, se pur con minore impegno e minore potenza di poesia, il Poliziano riprende uno dei miti più densi di passione tragica e di significati intellettuali, nell'Orfeo: rinunziando cioè a questa complessità di spunti e a quella tragedia e attribuendo alla trama la levità di un fregio decorativo. Anche qui infatti il tono della rappresentazione esclude ogni urto e conflitto di sentimenti, né tiene alcun conto della coerenza e del progredire delle situazioni psicologiche. Il processo dell'azione non conosce altra regola all'infuori del ritmo in cui si succedono le singole figurazioni nello sguardo estatico del poeta. Euridice rinnova, nell'aspetto nelle parole nel gesto, la trasognata grazia di Simonetta. L'ansia amorosa d'Aristeo si attenua nelle musicali cadenze di un'elegia. Il supplizio di Orfeo si placa nella turbinosa, ma pur ritmica e frenata, ebbrezza delle baccanti. Così il dramma si risolve senza residui in un idillio, appena sottolineato da un senso di vaga e quasi inconsapevole mestizia: il senso della « bellezza snella » che fugge rapida, dell'« età persa » che non si rinnova mai più.

    Ma, a paragone delle pagine ora esaminate, l'episodio di Simonetta raggiunge un tono di poesia più alto e appare veramente come il capolavoro del Poliziano: non tanto per l'apparente novità della materia, qui non più attinta direttamente al contenuto della cultura e della letteratura, quanto piuttosto per l'atteggiamento del poeta, che è diverso e più intimamente commosso. Perché se, nel regno di Venere e nell'Orfeo, il Poliziano fa rivivere, ricontemplandolo con immediata simpatia, il mondo divino dei miti; Simonetta è quel mondo stesso che discende per breve ora dal suo Olimpo, e s'accosta alla nostra pochezza e alla nostra tristizia, e illumina per un istante del suo splendore, trasfigurandole, le povere e squallide cose di quaggiù, ma per un istante solo, ché subito scompare, rendendoci più acuta e insopportabile la coscienza della nostra miseria. Veramente quando Simonetta si mostra, tutta la foresta le ride intorno, l'aere si fa ameno, una nuova dolcezza scende dai begli occhi e dal viso nel cuore di chi la contempla. È come se Venere stessa ritornasse a percorrere le vie dei mortali, riempiendo gli animi di stupore e d'incanto: perché nell'aspetto regale, e come assorto in un suo segreto sogno, della bella ninfa è il senso di una divinità in sé soddisfatta e felice, cui non appesantiscono neppure i riferimenti a una realtà biografica, del resto così vaga e lontana. Nulla di umano sembra possa giungere fino a lei e turbare la sua stupenda serenità; eppur basta la sua presenza solo a irradiare di una nuova luce serena uomini e cose. Ma quando Simonetta s'allontana, « con atto di amorosa grazia adorno », allora si lamentano i boschi e piangono gli augelli e fin l'erba verde « sotto i dolci passi » viene via via assumendo colori più cupi e tristi. Nell'animo di Julio rimasto solo sorge, su dal fondo stesso di quell'estasi non mai provata, un ignoto dolore: « e par che 'l cor del petto se gli schianti, E che del corpo l'alma via si fugga... ». La perfetta immagine di bellezza, che si era mostrata per un momento ai nostri occhi, è dileguata, e con essa quella gioia, quella luce, che avevamo sperato di possedere per sempre. Sul mondo già silenzioso può ora ridiscendere la notte, mentre dalla valle cimmeria escono le torme dei negri sogni.
    Così nell'episodio di Simonetta il Poliziano dà l'espressione più alta e definitiva al sentimento diffuso della sua età; perché insieme con l'anelito, che è alla radice di tutta la cultura umanistica, verso un mondo ideale di bellezza classica, canta anche quel che di raggiungibile è in questo ideale, e di estremamente fragile e fallace, donde la malinconia che accompagna in ogni tempo quell'anelito e gli conferisce una commozione più intensa. Il motivo della bellezza che fugge, così caro a tutti i poeti del Quattrocento, dal Pontano al Sannazzaro, dal Magnifico al Boiardo, ritorna qui, come già nella ballata delle rose, con voce più calda e dolente, più acutamente nostalgica. E, in quanto incarna questo motivo, Simonetta attinge, unica forse tra le creature del Poliziano, a quel valore di simbolo, in virtù del quale soltanto le figure suscitate dalla fantasia dei poeti acquistano un significato più alto e una vita perenne.
     

     
         
    HOME PAGE
         
    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis