QUATTROCENTO

  • LEONARDO SCRITTORE
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    Autore: Natalino Sapegno Tratto da: Pagine di storia letteraria

     
         

    Tutti coloro che si sono volti a considerare l'affascinante problema della scrittura di Leonardo - di un non mediocre artista della parola, cioè, il quale pure, si direbbe, non si propose mai con esatta consapevolezza il concetto del proprio stile e certo avrebbe sdegnosamente rifiutato ogni qualifica di letterato - hanno ricordato alcune sue battute polemiche di non ambiguo significato contro i pedanti sempre pronti a vantare l'ampiezza e il peso della loro dottrina, contro i « recitatori e trombetti delle altrui opere », i quali se ne « vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati,, non delle loro, ma delle altrui fatiche ». Di fronte a costoro, egli portava con fierezza il suo esempio di « uomo sanza lettere», che non sa e non vuole «allegare gli autori», e preferisce in ogni caso appellarsi all'esperienza, « la quale fu maestra di chi bene scrisse », « maestra ai maestri » di cui questi dotti si proclamano discepoli e ripetitori. « Orno sanza lettere », appunto, ma anche « inventore », « scopritore », che si pone a tu per tu con la natura e ne accoglie in forma diretta, senza fastidiosi diaframmi, l'insegnamento fondamentale. Non letterato; ma indagatore del mondo fisico nelle sue più diverse manifestazioni, inteso pertanto a riprodurre nella forma più lucida ed esatta la verità dei fenomeni che osserva; ingegnere e tecnico di tutte le arti, che la parola mette al servizio di un'operazione pratica, che non consente evasioni e soste fantastiche; pittore, infine, che nel suo dipingere e disegnare fa prima di tutto uno strumento di conoscenza intera e sensibile dell'oggetto da rappresentare, e un mezzo tecnico, un'esperienza di perfetto artigianato.
    Non c'è dubbio che una tale polemica colpisce prima di tutto i residui di una mentalità scolastica, medievale; e s'inserisce pertanto nel quadro di quella più vasta battaglia che Leonardo combatté, in quanto precursore e iniziatore di una più moderna metodologia scientifica e filosofica, che all'immagine del filosofo immobile collocato al centro dell'universo e intento a ricostruirne l'ordine e le apparenze secondo un processo meramente speculativo contrappone quella dello scienziato che si piega ad osservare e sperimentare e tenta con mille prove la deduzione empirica delle leggi; che deride la « bugiarda e confusa scienzia » di coloro (siano essi maghi o alchimisti, astrologi o anche teologi) i quali si applicano a una sorta di studio che « principia e finisce nella niente », ovvero futilmente discorrono delle « cose ribelli ai sensi » (essenza di Dio, immortalità dell'anima), e sulle vane scienze mentali afferma con nettezza la superiorità di quelle « meccaniche », e anche di queste postula sempre come scopo supremo la funzionalità, il legame con il mondo reale e con le esigenze della pratica (« ricordati di mettere sotto a ciascuna proposizione li sua giovamenti; acciò che tale scienzia non sia inutile »).

    Ma è altrettanto certo che un tale atteggiamento polemico investe anche, per molti riguardi, la mentalità umanistica, e la preminenza che nell'umanesimo italiano tendevano a prendere in alcuni ambienti il culto della forma in se stessa, dell'imitazione letteraria, dell'erudizione linguistica e filologica. E tocca anche, diremmo, la letteratura per sé stessa, e la poesia. Può darsi che a determinare una tale considerazione sprezzante dei puri letterati avesse il suo peso l'esperienza fatta da Leonardo dei mediocrissimi retori coi quali ebbe ad incontrarsi nelle corti da lui frequentate; mi sembra tuttavia che essa vada al di là di queste circostanze occasionali. Si pensi al gusto con cui egli si compiaceva di derivare pretesti alle sue favole dall'Acerba di Cecco d'Ascoli: non è improbabile che Leonardo facesse sua, almeno in parte, l'aspra polemica del maestro marchigiano contro le favole dei poeti. Ed è certo che trascriveva, non a caso, nel primo foglio del codice Trivulziano, una terzina sarcastica, rivolta a colpire le vanità delle finzioni d'amore di cui si dilettavano i petrarchisti contemporanei (né dal sarcasmo rimane esente lo stesso Petrarca): « Se 'l Petrarca amò sì forte 'l lauro, Gli è perché è bon tra la salsiccia e 'l tordo: Non posso di lor ciance far tesauro » ; dove la grossolanità del motto, che sta qui ad esprimere non certo un'insensibilità volgare, sì piuttosto il fastidio di una mente vigorosa, apre la via alla netta affermazione della superiorità di chi indaga il vero sull'esteta chiacchierone; e « ciance » sono, da un certo punto di vista e in certi momenti, anche le invenzioni dei poeti e il loro indefesso travaglio di perfezione stilistica e di intensità verbale.
    Non s'intende, con ciò, descrivere un Leonardo del tutto immaginario, che parte paradossalmente in guerra contro tutta la cultura del suo tempo; sì soltanto dare il giusto rilievo a talune posizioni polemiche, che oggi si vogliono da qualche critico collocare piuttosto in ombra e che restano invece essenziali per un'esatta valutazione del suo genio. Chi l'ha rappresentato come un autodidatta, diceva senza dubbio alcunché di inesatto; sottolineava quel che di prodigioso appare nella varietà e nella complessità dei suoi interessi scientifici e tecnici ed artistici, dimenticando gli innumerevoli precedenti che confluiscono nelle sue indagini e ne illustrano la genesi e ne definiscono in termini più precisi la grande e pur limitata novità, e i suoi contatti giovanili con i neoplatonici fiorentini, e le letture più numerose e varie che non si creda. Resta vero che, se dobbiamo indicare i suoi maestri più genuini, dovremo pur sempre fermarci da una parte alla scuola manuale e artigiana del Verrocchio, dall'altra alle istituzioni matematiche di Luca Pacioli. E se, restando nell'ambito della nostra più stretta ricerca, vorremo identificare le fonti della sua cultura letteraria, non dovremo dimenticare che essa è fatta in gran parte di testi volgari e di volgarizzamenti trecenteschi e del primo Quattrocento, e da essa deriva la particolare tonalità del suo linguaggio e del suo stile, con quella sintassi franta e popolaresca, mossa e inventiva, con quel lessico misto di dialettismi. e di latinismi, dove la voce dialettale illumina la cordiale immediatezza della annotazione e persino il vocabolo o il giro di frase ricalcati sul modello latino acquistano nel contesto non so che affettuoso sapore idiomatico...
    Oggi troppo spesso si vuole circoscrivere la bellezza dei suoi scritti nei limiti del frammento, o addirittura della frase singola o della parola. Ma il cosiddetto frammentismo di Leonardo è soltanto un'illusione determinata dalle condizioni esterne in cui ci sono pervenuti i suoi testi. Vero è che assai spesso rimane in questi uno squilibrio fra la tensione espressiva e l'effettivo risultato raggiunto; donde anche il frequente ritornare su un singolo concetto od immagine in una lunga serie di tentativi per aggredire da mille parti e impossessarsi della formula piena e pregnante. Ma è altrettanto certo che questa tensione dello stile anche nelle sue frequenti cadute e nella faticosa insoddisfazione, è sempre rivolta alla mira di una rappresentazione piena e netta, concreta e definita nell'amorosa indagine dei particolari, rigorosa e perentoria nella sintesi che riconduce ogni particolare alla norma di un severo criterio scientifico.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis