L'Arcadia è uno dei
templi sconsacrati della nostra poesia, e conserva oramai poche tracce di
quella che parve per tre secoli vera grandezza.
Nelle pagine di prosa c'è un'armonia di composizione da scrittore non
volgare: cosa che i nostri lontani antenati, più classici, più capaci di
cogliere queste larghe rispondenze, sentivano assai bene, e noi amanti
della linea incisiva e indifferenti all'euritmia - non sentiamo più.
L'Arcadia, dunque, è morta insieme con quel tipo di prosa che essa
rappresentava...
Questo libretto, dunque, ha un posto - non cospicuo - nella storia di una
lunga aspirazione di menti raffinate: il Tasso, lo Spenser, la pittura
ispirata da questo motivo hanno un ben altro valore. Ed ha un posto
modesto fra i volumi della nostra vera poesia.
Il Manzoni la disse una vuota sciocchezza. Dopo di lui alcuni critici,
sopra tutto meridionali, l'hanno difesa, dando la mano al Settembrini che,
commosso dinanzi alla nobiltà umana dell'autore, l'aveva giudicata piena
d'affetto: come fece poi il Carducci in un pastello da poeta.
E veramente nell'Arcadia c'è una sottile vena di sentimento, un'aura
d'elegia che qualche volta affascina ancora. Il tempo l'ha scolorita: ma
essa conserva, nelle sue pagine più sincere, una grazia molle, una
sfumatura di raccoglimento triste. Sopra il suo orizzonte troppo uguale
passa talora l'ombra lieve di una nube, nel suo disegno, svanito risalta
ancora qualche linea lieve. Citare, qui, è più difficile del solito:
perché quel velo di malinconia vi si dissolve fra mani, e quasi
dappertutto si vedono le tracce o i ricalchi di un modello. Ma certo i
motivi patetici di Virgilio risonavano come sospiri nell'anima del
Sannazaro, e la mestizia che spira sul libro come un fiato di nebbia è -
dovunque venga - un sentimento delicato e non mentito.
Si sente qua e là per il romanzo pastorale e amoroso la presenza di una
fantasia meditabonda che riempie dell'immagine amata ogni solitudine.
Un'eco della melodia di pianto che erra per le rime del Petrarca, risuona
ancora in questa prosa lenta e raccolta. E quella pacata malinconia
d'amore che noi abbiamo disimparato, ci attira come l'immagine di una vita
più composta e più intima.
Insieme con questo rimpianto della donna lontana mormora in queste pagine
la nostalgia della patria: e i due temi elegiaci confluiscono in una sola
musica triste.
Lo Scherillo ha chiamato il Sannazaro « un romantico del Rinascimento ».
Egli ama, infatti, i luoghi solinghi, le selve folte, la notte - quando il
viandante non ha altri compagni che l'errabonda luna e le stelle...
Ma era, insieme, un classico: due pagine della prosa ottava hanno, qua e
là, con l'impeto della passione, l'evidenza di contorni della poesia
antica. Carino racconta il suo disperato dolore, quando, abbandonato dalla
sua pastorella, esce di notte per boschi senza sentieri e per monti aspri,
e, postosi a sedere ai piedi di una quercia testimone della sua lontana
felicità, si lamenta della giovinetta crudele. Il soliloquio comincia
patetico, sparso dei ricordi affettuosi e semplici della vita comune in
mezzo alla campagna; poi si alza in un'invocazione lirica e dolente alle
divinità pietose dei miseri amanti: alle Napee che sfiorano con le bionde
teste le onde chiare, alle Oreadi che cacciano ignude per le alte ripe;
alle Driadi; poi si abbandona in un desiderio ardente di morte.
Garcilaso de la Vega ha, più che imitato, tradotto quasi per intero questa
prosa, che non è un capolavoro, non è senza stonature, ma commove ancora
per quel suo bisogno di solitudine e di pianto, e ferma ancora lo sguardo
per la luce di qualche suo profilo.
La tenue vena di tristezza e l'evidenza di alcune linee descrittive sono i
piccoli pregi superstiti di questo libro. La vita pastorale dell'Arcadia
non è tutta frusta come si dice. Nel paesaggio passa di quando in quando
una voce viva, un alito fresco: il mattino i greggi con le loro campane
risvegliano per le tacite selve gli uccelli addormentati; un ruscello si
move, appena, tra le piante, non turbato da rami o da fronde, fra rive non
tocche da piede di uomini o da animali; un gruppo di pastori riposa sui
lentischi: gli alberi sibilano sul loro capo, le onde mormorano veloci fra
l'erbe, cicale calandre tortore cantano e piangono intorno, « ogni cosa
redole de la fertile estate ». Questi tocchi brevi e rari dicono che il
poeta aveva il senso dell'idillio.
Il Sannazaro ha lavorato sopra molti modelli, ma anche sopra il ricordo di
cose sentite o almeno osservate. Non gli veniva certo dai modelli quel
senso degli interminati silenzi celesti che qualche rarissima volta
approfondisce gli spazi del libro: nell'ecloga terza, un pastore all'alba
prega il sole: « Apri l'uscio per tempo, Leggiadro almo Pastore, E fa
vermiglio il ciel col chiaro raggio:... Tien più alto il viaggio, Acciò
che tua sorella Più che l'usato dorma; E poi per la sua orma Se ne vegna
pian pian ciascuna stella ». Né gli veniva da quelli una virginea
delicatezza nell'accennare sentimenti e atteggiamenti di giovinette pure;
né gli veniva più da quelli che dal suo amore per l'arte la nitidezza dei
contorni cori cui egli disegnava ora sopra una porta una scena di satiri e
di ninfe, ora sopra un nappo una ninfa che - assalita da Priapo torce il
volto indietro e gli pela la folta barba mentre due fanciulli lo aiutano e
un terzo continua tranquillamente a lavorare intorno alla sua gabbia di
paglia e di giunchi.
Ma tutti quelli che ho indicato sono frammenti, talora brevissimi, da
antologia, o sfumature fugaci. Davanti a un libro come questo può fermarsi
un raccoglitore paziente di impressioni, non un critico, al quale importa
la continuità e l'unità dell'ispirazione. L'Arcadia, giudicata nel suo
complesso, è una delle opere italiane più convenzionali e peggio
costruite. È un gran repertorio di luoghi comuni, fuso in una prosa
uguale, compassata, senza l'inesauribile novità dell'arte. Ha qua e là una
certa grazia, una relativa sveltezza. Il De Sanctis che cercava « mondi
poetici », non vi trovò argomento per scriverne più di quattro righe,
respinto dall'artificio che soffoca la malinconia affettuosa.
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