Assai più di lode e di gloria torna al nostro paese e
agl'ingegni nostri, da un'ardita confessione dei nostri vizi,
se ne abbiamo, e dell'attuale nostra inopia letteraria, ove
mai vera essa fosse purtroppo, che non da tutte queste
ipocrite compiacenze dei meriti nostri. I nomi dei più acri e
veementi censori dei nostri studi domestici o dei costumi
nostri in ogni età, sono pure i nomi ad un tempo di
altrettante persone chiare per lo più dei nostri fasti
letterari o patriottici, e da essi trae qualche gloria
l'Italia, non dai risentiti loro persecutori; ché anzi la
memoria di questi adulatori dei paesani coetanei, i quali
avranno alzato un farisaico grido di scandalo contro i più
veridici e severi amanti della patria, è perduta.
Sarebbe pur tempo di cessare dal contrapporre ai presenti
rimproveri che riceviamo, i meravigliosi successi dei padri
nostri. Tempo sarebbe di entrare una volta nell'interna
ragione della disputa che vogliamo ad ogni costo sostenere, e
di ben afferrare l'essenza ed il sostanziale punto della
questione. Siamo accusati di non contribuire per nulla al
progresso attuale della filosofia razionale e morale, e alle
sue più sicure e luminose applicazioni; accusati siamo di non
anelare a tutta quella meta di perfezionamento (che vuol dire
di semplificazione) delle teoriche nostre, cui toccano già da
vicino alcune genti... e noi invece rispondiamo che Galileo,
che Machiavelli, e forse, che il Castelvetro, di queste cose
ne seppero più di tutti dei tempi loro.
Siamo pregati di restringere in numero le nostre cantilene, e
di estendere invece la poetica nostra, di ringiovanire un po'
l'estro italiano, di essere noi gli Aristotele dei tempi
nostri, e d'imitare, piuttosto che scimmiottare, la spontanea
concitazione degli antichi; e noi rispondiamo che oltre il
Dante, il Tasso e l'Ariosto, l'Italia può far pompa di ben una
trentina di poemi epici; che abbiamo un Arcadia madre, mille
seicento colonie pastorali, la poetica del Menzini e del
Minturno e una sterminata biblioteca di rimari e rimerie. Ci
si rimprovera di non aver peraltro adottata la grammatica
intellettuale d'Europa, di cui gettò le fondamenta Bacone, e
che per opera di Locke, Condillac, Du Marsais, Bonnet, Smith,
Dugald-Stewart, Degerando, Tracy, Prévost; non meno per quella
dei d'Irwing, Kant, Jacobi, Fichte, Ancillon, ecc. ecc., è
divenuta la miracolosa chiave d'ogni sapere; e noi, a questa
parola di grammatica, diamo tosto solennemente di piglio a
Salviati, a Buonmattei, a Cinonio, a Corticelli: invece di
nominare per tutti quel veggente e assennato padre Soave, che
trasse dalle fonti di diritto positivo, dirò, così, della
nostra lingua, e fu d'altronde infaticabile trapiantatore in
Italia di tutti i fondamentali moderni insegnamenti, e da cui
solo abbiamo fin qui una utile biblioteca pedagogica. Si
tratta insomma di adattare l'espediente meccanico della
favella, le articolazioni, e, se è fattibile, le fogge
italiane a quell'idioma universalissimo, carattere distintivo
del secol nostro, che lascia mille miglia indietro tutte le
geroglifiche intarsiature di parole, e i nostri buratti, e i
setacci; e noi invece siam fitti in questo bell'impegno di
voler che la favella materiale serva anzi d'invariabile misura
ai concetti, e che le parole divengano a vicenda, or laccio,
or aculeo, ed or pastoie delle idee...
Noi siamo gente tutta ingegno; abbiamo splendore e vastità
d'immaginazione, fermezza nei propositi, profondità nei
ragionamenti... oh! chi le nega codeste madornali verità? Non
è certo mestieri assottigliarsi molto in dimostrare
l'eccellenza della tempra italiana. Vien posta in questione
non già l'indole nostra, non è posto in dubbio se siamo
naturali a far molto e al far bene; bensì vi ha sospetto su
l'attuale nostra volontà, sull'energico uso di questi nostri
mirabili pregi; ci si chiede conto della direzione utile od
inutile o perniciosa che per noi si è data nelle diverse età
alla cultura e alla disciplina delle menti nostre. Inerti siam
noi, molli nel culto del vero e del sublime; svogliata è
attualmente l'anima italiana; il tormentoso amor proprio
soltanto è desto più che mai. Perciò invece di drizzare ad
alte mire le nostre intenzioni, più comodo ci sembra di
magnificare le frivolezze intorno a cui spendiamo la vita
nostra letteraria. Nessuna insistenza nella meditazione;
nessun sincero fervore del bello, dico del bello non
artificiale; nessuno studio profondo sulle idee e sull'uomo;
appena sono intesi da noi, e meno si pensa a tradurre gli
scritti di quegli uomini che senza dubbio precedono con la
fiaccola in mano, alla generazione tutta d'Europa sulle tracce
lievemente segnate da alcuni nostri maggiori, e più
profondamente ormeggiate poi dal Verulamio per una parte e da
Leibnizio per l'altra. I nostri studi sono di bibliografia, di
cartulari municipali, di parole e modi toscani, quali ne li
forniscono i secoli parolai; ché troppo mal si conosce ancora
l'idioma di Dante, di Petrarca, di Machiavelli. Insomma questi
ufficiosi campioni della maggioranza italiana escludono per lo
più dalla sfera delle nostre indagini tutto ciò che non sia
ben circoscritto già e determinato da qualche autorità,
segnato da formule, registrato nelle rubriche della
consuetudine. E poiché mi sono lasciato correre dalla penna
questa taccia d'indolenza e di pigrizia contro di noi
medesimi, voglio che l'imparziale mio lettore osservi siccome
io piuttosto la ripeto, anziché essere il primo a produrla. Di
essa trovasi mischiata in mezzo a quelle tante dolorose
verità, che l'intrepido Baretti, da quell'uomo probo ch'egli
era, non dubitò di far sentire all'Italia; fosse piaciuto al
destino protettore delle nostre lettere, che quell'inesorabile
nemico delle mediocrità e dell'impostura non avesse di
frequente scompagnata la forza dei suoi ragionamenti dalla
imparzialità e da una più mite critica!. |