Quando morì, Carlo Porta era popolare in Lombardia, quasi
ignoto nel resto d'Italia. Nella sua stessa Milano non aveva
mai avuto un gran posto; e non aveva partecipato alla vita
letteraria del suo tempo, se non nel periodo delle polemiche
contro i classicisti, dei quali aveva fatto canzonature e
caricature indimenticabili. Del resto, aveva passato venti
anni negli uffici delle finanze e del debito pubblico,
sopportando quasi sempre tranquillamente il governo del suo
paese, osservando i preti che venivano al suo sportello, i
religiosi perseguitati dai decreti napoleonici, i nobili
sbaragliati dalla rivoluzione, e i poveri diavoli dei
bassifondi milanesi. A giudicarlo dalla sua cultura, dalle sue
abitudini, dagli argomenti della sua poesia, poteva sembrare
uno di quei poeti dialettali che furono poi tanto frequenti in
tutto il secolo: il descrittore di un angusto ambiente
cittadino, destinato a rimanere lo storico del costume di
qualche decennio di vita municipale.
Ma ora tutti riconoscono nelle sue poesie una mente quadrata,
un fondo umano, una fantasia solida e armoniosa che fanno di
lui un poeta rarissimo nella storia della musa dialettale,
lontano da quella poesia di genere, piacevole ma leggera, di
cui il Belli è stato maestro fecondo e vivace ad una schiera
innumerevole di poeti d'ogni parte d'Italia...
Leggendo le satire contro l'aristocrazia il clero e i
classicisti, sembra che si possa definire il Porta un
canzonatore di retrivi, di sopravvissuti meglio, il pittore di
una società irrancidita nella sua vita angusta e tradizionale.
Ma quando da queste caricature e da queste novelle si passa
alle storie di Giovannin, del Marchionn, di Ninetta, si sente
che fra queste scene d'infelicità e di miseria, talora più
pietose che comiche, e quei racconti di vita nobiliare e
clericale dalle apparenze allegre, c'è insieme una differenza
e un'intima affinità di sentimento e di arte; e si comincia a
capire la difficoltà di descrivere in poche parole la
fisionomia di un poeta così coerente e così ricco, che vede e
racconta i fatti più disparati col buon senso, il linguaggio
sonoro e il gesto largo d'un popolano milanese, ma cela sotto
quella rozzezza uno degli spiriti più equilibrati una delle
più solide tempre d'uomo che abbia avuto l'Italia.
Il Porta è stato, tutt'insieme, un ritrattista, un descrittore
d'ambienti, un novellatore. Giovannin Bongee racconta le sue
disgrazie coniugali, e, vivace come un sempliciotto,
bonaccione come un povero diavolo, dipinge, insieme con le sue
peripezie, la sua indole, i luoghi e le persone che frequenta,
l'ambiguo candore della moglie e le sue rotondità oltraggiate.
Il suo è uno Sfogo contro «quij prepotentoni de Frances», ma
architettato e arricchito da una fantasia di prim'ordine. Via
via che il racconto si snoda, vedete, - insieme con quella
sembianza di prudenza, con quel coraggio vigliacco, con quel
moraleggiare da sciocco e da illuso, con quel patetico
appassionato e ridicolo del protagonista - la strada, la scala
buia dov'egli incontra il soldato baldanzoso e acceso poi il
pigia pigia del teatro, l'allegro baccano d'una bella serata,
il solenne spettacolo del ballo il «Prometeo» interrotto dallo
strido improvviso di Barborin, il corpo del delitto dipinto
come sopra una tela, 5 il lumaio rievocato nell'atto di far
l'indiano con gli occhi al soffitto, l'ambiente infido della
giustizia, la Barborin premurosa e misteriosa, che riesce, se
non a restituire l'onore al marito, a liberarlo dalla prigione
dove lo hanno cacciato perché ha inveito contro un regio
impiegato - il lumaio dalle mani intraprendenti e unte.
In questa storia tutto si riflette nello spirito di
quell'ingenuo rumoroso, tutto converge - senza una sosta,
senza un momento di stanchezza - verso la figura del
protagonista.
E così accade, con minor vigoria, nel «Lament del Marchionn di
gamb avert», novella di tono più lirico, più sentimentale,
odissea di un povero predestinato, che ha oramai un'amara e
cocente consapevolezza della propria imbecillità e della
propria sfortuna. Anche qui, via via che il protagonista
racconta e si sfoga, si illuminano sotto le sue parole il
misero tabarin nel quale egli trova la Tetton, questa scaltra
e procace Venere da taverna, l'intimità volgare della casa di
lei e di sua madre, l'andirivieni ignominioso sulle scale del
Marchionn.
Nella nostra letteratura non c'è uno scrittore che abbia fatto
sentire così bene come il Porta l'atmosfera dei bassifondi, se
non forse il Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia;
nessuno che abbia dato con così pochi tocchi, raccontando
senza descrivere, la sensazione di quella vita in cui miseria
vizio e sporcizia sono una cosa sola, che abbia fatto sentire
così bene il tanfo di quelle stanzacce scure, la lubricità di
quelle scale che si salgono quando la luce comincia a
diventare incerta. Realismo e naturalismo nei primi vent'anni
dell'Ottocento non si conoscevano ancora: ma un naturalista
della forza del Porta, il creatore di Giovannin Bongee, di
Marchionn e di Ninetta, non l'abbiamo più avuto. Il Verga ha
una fantasia più casta e più secca. Nel Porta c'è minor
ritegno di linguaggio, ma anche minor ritegno di sentimento: e
questo spiega come egli possa metter la scena in uno di quegli
ambienti che la letteratura moderna incominciò a conoscere in
Zola e Maupassant, rifiutare ogni eufemismo e tuttavia
conservar l'impronta dell'artista. Quella voce di Ninetta,
rauca di miseria, di vizio e di passione, non si dimentica
più.
Il fondo poetico di tutti gli altri capolavori è uguale a
quello delle tre novelle popolari. Uguale il tono, fra
pittoresco, pietoso e canzonatorio con cui il Porta ritrae la
plebe sudicia, povera, ignorante dei preti di campagna ridotti
a mendicar le messe e a guadagnarsi con una sopportazione da
facchini la cappellania in una casa nobiliare; uguale
l'abilità con cui egli ritrae le bicocche dell'aristocrazia e
del clero rovinate dalla rivoluzione e dai decreti
napoleonici. L'alta società del pieno Settecento è rimasta
negli endecasillabi sostenuti e fastosi del Parini; la nobiltà
tappata ne' suoi palazzi oramai solitari, ringhiosamente e
testardamente attaccata alle sue tradizioni di superbia, e il
clero immiserito, minacciato e sbaragliato dalla soppressione
delle congregazioni, sono rimasti nelle novelle del Porta,
mirabilmente equilibrate fra la satira e il quadro. Le poesie
di questo genere sono quasi tutte posteriori al ritorno degli
Austriaci, e sono il più grande documento letterario del
periodo che precedette la caduta di Napoleone e di quello che
lo seguì. La restaurazione austriaca del '99 era stata anche
reazione religiosa e bigotta. Tornato il Bonaparte, gli
ecclesiastici perseguitati dal decreto sulle congregazioni,
divennero anche più gretti: la caduta di Napoleone,
restituendo al clero e all'aristocrazia nera l'antica libertà,
favorì lo sfogo della mentalità angusta e rabbiosa che avevano
acquistato durante le traversie di quegli anni. La marchesa
Travasa e donna Fabia sono l'immagine di quello spirito; tra
quest'immagine e il tono del Portasi tradisce l'urto di due
secoli «l'un contro l'altro armato»: il vecchio che si stringe
nel pugno i suoi privilegi, e il nuovo che ne fa la
caricatura.
Come altrove si sente il tanfo della miseria e si vedono
quegli interni sporchi, così qui si vede il decoro e la muffa
di quelle sale e si sente la solitudine povera, arcigna e
inacidita dei rifugi dei religiosi cacciati dalle
corporazioni. Anche qui la parola del Porta novelliere ha la
virtù pittoresca dei grandi commediografi che suggeriscono
l'ambiente senza descriverlo. «La nomina del cappellan», «La
preghiera», «Ona vision», «Meneghin biroeu di ex-monegh» si
svolgono in un ambiente senz'aria e senza luce, che il lettore
cercherebbe invano di dipingere con frasi del Porta, ma che si
forma insensibilmente intorno a lui mentre egli legge il
racconto di quelle vite mulescamente impuntate sopra alcune
idee inerti e assorbite dal pettegolezzo delle giornate vuote.
Ho usato parole un po' taglienti, che non rispondono al tono
del Porta: il quale non è né un Giovenale né un Orazio, i due
modelli che hanno fatto le spese di tutti i giudizi sopra la
nostra poesia satirica. Il Porta è uno di quegli uomini
franchi che non offendono nemmeno quando spiattellano la
verità sul muso. I preti del suo tempo non gli furono nemici:
eppure, quanti secoli rideranno alle loro spalle in virtù di
quei versi larghi di battuta, sonori come una risata, vistosi
come una macchia di colore! E dalle penombre fredde e dai
cortinaggi pesanti che s'intravvedono attraverso quel
maccheronico scuro e pomposo che è il linguaggio delle sue
dame, non è mai partita verso il popolano dalla lingua sciolta
e dalla testa quadra una parola di orrore o di odio.
Perché il Porta non conosceva antipatie, era un temperamento
schietto e cordiale, ed osservava Giovannin, donna Fabia, fraa
Condutt con quella larga simpatia umana che supera gli
orizzonti angusti dell'esaltazione e della satira ed è la
qualità indefinibile e rivelatrice dei grandi creatori di
caratteri. |