Il De Sanctis ha detto delle situazioni del Berchet: «Si
annunziano drammatiche, e si trasformano in liriche»; e ha
colto uno degli atteggiamenti caratteristici delle Romanze e
delle Fantasie. Poi, ha ritratto il temperamento malinconico e
chiuso del Berchet, con quella commozione rapida e suggestiva
che trascina sempre i suoi lettori.
Ma alle sue pagine manca qualche cosa: egli non accenna alla
forza epica del Berchet e lascia un po' nella penombra il suo
odio impetuoso. Certo il fondo di quella lirica è una
tristezza concentrata: ma il tedio doloroso non la esaurisce e
non la spiega tutta.
Il Croce ha confermato il giudizio contrastato del De Sanctis
e ha aggiunto qualche fine accenno di analisi.
Ma io trovo in tutti una lacuna. Nel Berchet c'era in germe un
poeta epico potente...
Tutti hanno sentito che il Berchet era un poeta guerriero:
bisogna aggiungere che egli di guerriero non ha soltanto
l'odio sterminatore, ma anche la fantasia rapida, nuda,
quadrata. I dodecasillabi ai quali alludo, non sono che una
reliquia solenne: pure non sfigurano accanto alle più belle
strofe della Canzone di Legnano, e nemmeno accanto al coro
Dagli atrii muscosi.
Ma del guerriero il Berchet ha anche l'animo virile,
confidente, dignitoso: e allora la sua figura sembra quella di
un eroe coperto di ferro. Allora la nebbia che avvolge l'esule
solitario, si squarcia; quella noia greve, nostalgica,
accorata, quel grigio da mare del Nord, si dileguano d'un
tratto: e al ramingo malinconico succede il soldato.
Nella poesia del Berchet, sotto le ceneri dell'esilio covano
sempre le fiamme della battaglia. Questa mi pare la fisionomia
della sua lirica. Non dobbiamo dimenticare che egli appartenne
ad una generazione insieme romantica e guerriera. La sua è
proprio la poesia dei giovani che alternano con i gridi di
guerra le loro tristi fantasticherie.
Le poesie del Berchet hanno una sostanza etica virile che
conserva la sua forza pure tra la melodia melanconica
formatasi nel cuore del poeta lungo i giorni lenti
dell'esilio. Anzi, quella testa che d'un tratto si rileva
fiera dall'abbandono doloroso, quella parola che erompe aspra
e solenne fuori della dolce e mesta musica romantica, proprio
per questo fanno un'impressione più forte. La maledizione a
Carlo Alberto ha un così vivo rilievo, proprio perché è la
nota più alta di quel grido di dolore che risuona fra
l'arpeggio elegiaco di tutta la romanza. Se eccettuiamo il
Trovatore, tutte le altre liriche comprese nelle due raccolte
del Berchet hanno come caratteristica comune l'intreccio di
questi due motivi: la ribellione dello spirito onesto e fiero
contro l'umiliazione del presente, lo scatto tanto più
gagliardo in nome dei santi ideali della dignità umana e della
patria, quanto più opprimente è il torpore e il grigio della
vita consumata invano sotto un cielo straniero.
Quella del Berchet è la poesia d'un uomo ricco di affetti
domestici e civili soffocati dalla sventura di non avere una
patria. La sua lirica è poco profonda: ma i sentimenti vi
irrompono d'impeto, con la violenza e la tenerezza delle
passioni insoddisfatte. Il Berchet ha desiderato la casa e la
famiglia con la fantasticheria ardente dell'uomo solo e
lontano: solamente da un lungo rimpianto e da un'immagine mai
dimenticata possono sgorgare la rievocazione del Romito del
Cenisio
- Muti intorno degli alari
vedrai padri ai figli stringersi -,
il sorriso triste delle "finestrelle povere",
a cui ne' dì tepenti
la casalinga vergine
infiora il davanzal,
l'imprecazione che è insieme il palpito profondo d'una
tristezza ben nota
- Gusti anch'ei la sventura e sospiri
l'Allemanno i paterni suoi fochi -.
Parole fugaci che lasciano un'orma nell'anima del lettore, e
si collegano idealmente con l'altro breve passo delle
Fantasie, nel quale il Berchet descrive il confuso e
lacrimante rimembrare del patriota incamminato sulla via
dell'esilio.
Sono questi i momenti in cui la sua tristezza di esule vien
fuori con un impeto appassionato o con una potenza pittoresca.
Di solito, invece, essa forma intorno alle sue liriche come
un'atmosfera grigia che ritrae uno stato d'animo abituale e lo
fa sentire con un'impressione opprimente, pur senza che la
parola abbia qua o là accenti di una particolare potenza. «I
tetri abeti» e le nebbie del nord non forniscono soltanto una
chiusa suggestiva al Romito del Cenisio: dovevano essere
anche, negli anni dell'esilio, il paesaggio dell'anima
sconfortata del poeta. E forse le ore che cadono lente sulla
solitudine di Silvio Pellico, sono anche lo stillicidio
interminabile della vita del Berchet profugo dall'Italia. |