Molti anni or sono, quando uscì nella collana degli «Scrittori
d'Italia» il primo volume delle opere del Berchet, si accese
una discussione assai vivace su quella poesia, a cui
parteciparono il Prezzolini, il Rabizzani, il Cecchi, il De
Lollis e, vigorosamente rivendicandone il valore, Benedetto
Croce: non mi consta che oggi, ricordo il centenario della
morte del poeta, taluno abbia ripreso quelle vecchie
discussioni per saggiare ancora una volta la consistenza
poetica dei Profughi di Parga, delle Romanze, delle Fantasie.
Forse perché ben altre preoccupazioni sono le nostre e, pur
rimanendo nel campo dell'arte, altri, e più urgenti, i motivi
di discussione, - allora tra il modernismo dei vociani e il
filologismo del De Lollis quella polemica ebbe un significato,
episodio nella storia del gusto del primo Novecento, un gusto
incerto dinanzi a più di un'opera del passato e mal disposto
ad accoglierne i giudizi tradizionali; - ma anche forse
perché, come in quel tempo non era, l'opinione comune sul
Berchet poeta è, se non mi inganno, oramai ferma e nessuno si
sentirebbe di negare quell'autentica voce di poesia che un
linguaggio per qualche parte approssimativo non riesce a
soffocare. O dovremo dire che i più, non dei lettori soltanto
ma dei critici, a quella poesia sono indifferenti e
l'abbandonano al giudizio degli autori di manuali di storia
letteraria?
A torto, io penso, se così è. Ché un minore è certo il nostro
poeta, minore per la cerchia non ampia dell'ispirazione e per
quel che di imperfetto la sua parola trascina ancora con sé:
eppure, diversamente da altri minori (e questo basterebbe già
di per sé ad attrarre la nostra attenzione) egli dimostra una
coerenza non comune in tutta l'opera sua per la fedeltà ad
alcuni princìpi, interessi, motivi, a una vocazione civile e
poetica, sì che ogni suo accento più o meno felice appare in
qualche modo necessario e necessaria la linea di svolgimento
della sua carriera dalle prime prove alla polemica romantica e
al decennio poetico e dalla breve stagione della poesia
originale all'approfondimento degli studi della prediletta
poesia popolare e alla traduzione delle romanze spagnole e
infine al silenzio degli ultimi anni. Sentiamo nei versi come
nelle prose del polemista e del critico che dalla sua poesia
non si possono disgiungere, intimamente legati come sono gli
uni agli altri tutti i suoi scritti, che nella poesia e nella
critica egli ha detto tutto e soltanto quel che gli importava
di dire, non molto invero, ma appunto per questo improntando
ogni pagina della sua non complessa ma schietta e intera
personalità. Perciò sia nella poesia che nella critica egli ci
si presenta con una sua ben delineata fisionomia: senza
ambizione o affettazione di originalità, egli che tanto deve
più che ad ogni altro al Foscolo e al Manzoni, non è
propriamente né un foscoliano né un manzoniano, e tra i
compagni romantici anche se ripete i comuni motivi, dà loro un
accento ben suo, come di cosa personalmente vissuta, e ancora,
quando fattosi umile scolaro dei maestri tedeschi, si darà a
studiare le voci dei popoli nei canti, non si lascerà
trascinare, come ha osservato un cultore di questi studi,
Vittorio Santoli, «dalla mistica idea dell'origine collettiva
della poesia popolare, che dominava indisturbata», ma
affermerà «con preciso intuito che all'origine di ogni canzone
sta un individuo, che la popolarità di essa consiste non nella
sua origine, ma nella sua tradizione». Segno anche questo
della sua indipendenza da dogmi e da opinioni stabilite e dal
saldo possesso di alcuni princìpi a lungo meditati e ben
chiari e precisi nella sua mente, norma costante e sicura
della sua opera e del suo giudizio.
Domina fra quei principi quello della necessità e
dell'universalità della poesia, della sua «inerenza», per
usare le sue parole, «alla vita umana»: era maturato in lui
con l'insegnamento del Foscolo e con quello, a cui il Foscolo
lo aveva avviato, del Vico, ed egli lo aveva trovato
riconfermato dalla parola dei romantici. E questo fu il
romanticismo per lui, un più deciso riconoscimento della
presenza della poesia in tutta la vita umana, in tutti i
popoli e sotto forme diverse da quelle a cui i lettori
italiani erano avvezzi; la coscienza che essa non è «diletto
momentaneo di pochi oziosi» e nemmeno «diritto esclusivo di
alcune poche famiglie di uomini», bensì «un vero bisogno
morale di tutti i popoli della terra»; il compiacimento di
ritrovare quella voce comune, segno della comune umanità,
riprova di quella che con parola vichiana egli chiamava
«l'uniformità delle menti umane nella varietà stessa degli
accidenti intellettuali». Il romanticismo, ben si può dire, lo
rivelò a se stesso, mostrandogli la possibilità di ampliare
l'orizzonte della cultura e di rinnovare il tono della poesia:
lo indirizzò verso letterature più della nostra propense al
tono popolare come la tedesca e la spagnola; inducendolo pure
a fare una punta sino all'India lontana, dove credette di
ravvisare nella Sakuntala un'opera per semplicità d'intreccio,
di caratteri, di affetti, assai simile alla poesia da lui
vagheggiata, e gli suggerì snodi e forme di un discorso più
semplice, più attuale, più familiare, da rivolgere a una
cerchia più ampia di lettori.
Nascevano ad un tempo la sua critica e la sua poesia: l'una e
l'altra non varia né estesa né, se si vuole, profonda, come di
chi soltanto poche idee e pochi motivi abbia a cuore e quelli
soli senta il bisogno e il dovere di esprimere e far presenti
altrui. Così la sua critica, che pur non può essere
considerata grettamente moralistica essendo sempre consapevole
del valore peculiare della poesia, si risolve in un richiamo
costante ad alcuni principi, al valore umano della poesia, a
quella intrinseca moralità che è come in ogni opera dell'uomo
nell'opera poetica e letteraria: non pretende il Berchet di
sviluppare in teorie estetiche o in interpretazioni critiche
la coscienza che egli ha della natura dell'arte, della sua
universalità e necessità, perché una cosa sola gli importa,
ricavare da quella coscienza a sufficienza chiara degli
imperativi per sé e per i lettori, degli ammonimenti o delle
rampogne per quanti sono dalla pigrizia, da una vana boria, da
fiacchezza spirituale impediti di intendere l'autentica, seria
ed umana poesia. Si direbbe che un problema letterario
soltanto possa interessarlo quando ne sia investita, per così
dire, la sua coscienza morale, suscitando il suo sdegno, la
sua rampogna o la sua calda approvazione. |