CRITICA: ROMANTICISMO

 CRITICA E POESIA DEL BERCHET

 AUTORE: Mario Fubini    TRATTO DA: Saggi di storia, della critica e della letteratura

 

Molti anni or sono, quando uscì nella collana degli «Scrittori d'Italia» il primo volume delle opere del Berchet, si accese una discussione assai vivace su quella poesia, a cui parteciparono il Prezzolini, il Rabizzani, il Cecchi, il De Lollis e, vigorosamente rivendicandone il valore, Benedetto Croce: non mi consta che oggi, ricordo il centenario della morte del poeta, taluno abbia ripreso quelle vecchie discussioni per saggiare ancora una volta la consistenza poetica dei Profughi di Parga, delle Romanze, delle Fantasie. Forse perché ben altre preoccupazioni sono le nostre e, pur rimanendo nel campo dell'arte, altri, e più urgenti, i motivi di discussione, - allora tra il modernismo dei vociani e il filologismo del De Lollis quella polemica ebbe un significato, episodio nella storia del gusto del primo Novecento, un gusto incerto dinanzi a più di un'opera del passato e mal disposto ad accoglierne i giudizi tradizionali; - ma anche forse perché, come in quel tempo non era, l'opinione comune sul Berchet poeta è, se non mi inganno, oramai ferma e nessuno si sentirebbe di negare quell'autentica voce di poesia che un linguaggio per qualche parte approssimativo non riesce a soffocare. O dovremo dire che i più, non dei lettori soltanto ma dei critici, a quella poesia sono indifferenti e l'abbandonano al giudizio degli autori di manuali di storia letteraria?

A torto, io penso, se così è. Ché un minore è certo il nostro poeta, minore per la cerchia non ampia dell'ispirazione e per quel che di imperfetto la sua parola trascina ancora con sé: eppure, diversamente da altri minori (e questo basterebbe già di per sé ad attrarre la nostra attenzione) egli dimostra una coerenza non comune in tutta l'opera sua per la fedeltà ad alcuni princìpi, interessi, motivi, a una vocazione civile e poetica, sì che ogni suo accento più o meno felice appare in qualche modo necessario e necessaria la linea di svolgimento della sua carriera dalle prime prove alla polemica romantica e al decennio poetico e dalla breve stagione della poesia originale all'approfondimento degli studi della prediletta poesia popolare e alla traduzione delle romanze spagnole e infine al silenzio degli ultimi anni. Sentiamo nei versi come nelle prose del polemista e del critico che dalla sua poesia non si possono disgiungere, intimamente legati come sono gli uni agli altri tutti i suoi scritti, che nella poesia e nella critica egli ha detto tutto e soltanto quel che gli importava di dire, non molto invero, ma appunto per questo improntando ogni pagina della sua non complessa ma schietta e intera personalità. Perciò sia nella poesia che nella critica egli ci si presenta con una sua ben delineata fisionomia: senza ambizione o affettazione di originalità, egli che tanto deve più che ad ogni altro al Foscolo e al Manzoni, non è propriamente né un foscoliano né un manzoniano, e tra i compagni romantici anche se ripete i comuni motivi, dà loro un accento ben suo, come di cosa personalmente vissuta, e ancora, quando fattosi umile scolaro dei maestri tedeschi, si darà a studiare le voci dei popoli nei canti, non si lascerà trascinare, come ha osservato un cultore di questi studi, Vittorio Santoli, «dalla mistica idea dell'origine collettiva della poesia popolare, che dominava indisturbata», ma affermerà «con preciso intuito che all'origine di ogni canzone sta un individuo, che la popolarità di essa consiste non nella sua origine, ma nella sua tradizione». Segno anche questo della sua indipendenza da dogmi e da opinioni stabilite e dal saldo possesso di alcuni princìpi a lungo meditati e ben chiari e precisi nella sua mente, norma costante e sicura della sua opera e del suo giudizio.
Domina fra quei principi quello della necessità e dell'universalità della poesia, della sua «inerenza», per usare le sue parole, «alla vita umana»: era maturato in lui con l'insegnamento del Foscolo e con quello, a cui il Foscolo lo aveva avviato, del Vico, ed egli lo aveva trovato riconfermato dalla parola dei romantici. E questo fu il romanticismo per lui, un più deciso riconoscimento della presenza della poesia in tutta la vita umana, in tutti i popoli e sotto forme diverse da quelle a cui i lettori italiani erano avvezzi; la coscienza che essa non è «diletto momentaneo di pochi oziosi» e nemmeno «diritto esclusivo di alcune poche famiglie di uomini», bensì «un vero bisogno morale di tutti i popoli della terra»; il compiacimento di ritrovare quella voce comune, segno della comune umanità, riprova di quella che con parola vichiana egli chiamava «l'uniformità delle menti umane nella varietà stessa degli accidenti intellettuali». Il romanticismo, ben si può dire, lo rivelò a se stesso, mostrandogli la possibilità di ampliare l'orizzonte della cultura e di rinnovare il tono della poesia: lo indirizzò verso letterature più della nostra propense al tono popolare come la tedesca e la spagnola; inducendolo pure a fare una punta sino all'India lontana, dove credette di ravvisare nella Sakuntala un'opera per semplicità d'intreccio, di caratteri, di affetti, assai simile alla poesia da lui vagheggiata, e gli suggerì snodi e forme di un discorso più semplice, più attuale, più familiare, da rivolgere a una cerchia più ampia di lettori.

Nascevano ad un tempo la sua critica e la sua poesia: l'una e l'altra non varia né estesa né, se si vuole, profonda, come di chi soltanto poche idee e pochi motivi abbia a cuore e quelli soli senta il bisogno e il dovere di esprimere e far presenti altrui. Così la sua critica, che pur non può essere considerata grettamente moralistica essendo sempre consapevole del valore peculiare della poesia, si risolve in un richiamo costante ad alcuni principi, al valore umano della poesia, a quella intrinseca moralità che è come in ogni opera dell'uomo nell'opera poetica e letteraria: non pretende il Berchet di sviluppare in teorie estetiche o in interpretazioni critiche la coscienza che egli ha della natura dell'arte, della sua universalità e necessità, perché una cosa sola gli importa, ricavare da quella coscienza a sufficienza chiara degli imperativi per sé e per i lettori, degli ammonimenti o delle rampogne per quanti sono dalla pigrizia, da una vana boria, da fiacchezza spirituale impediti di intendere l'autentica, seria ed umana poesia. Si direbbe che un problema letterario soltanto possa interessarlo quando ne sia investita, per così dire, la sua coscienza morale, suscitando il suo sdegno, la sua rampogna o la sua calda approvazione.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis