Uno dei problemi formali maggiori, cui il Belli si è trovato
di fronte, come ogni artista che abbia accettato la disciplina
della forma chiusa, prestabilita, è stato il misterioso
adeguamento della sua materia al rigore del Sonetto. Il Belli
era uomo che, reagendo su un esuberante temperamento
istintivo, amava darsi delle regole assolute. E due senza
dubbio egli ne o servò nel suo poema con fedeltà mai tradita:
quella alla schietta parlata degli infimi, e quella alla forma
tradizionale del Sonetto. Due regole in un certo senso
contraddittorie e che bastavano esse sole a creare una
dialettica, nella quale si esprimeva un più profondo conflitto
della sua persona, forse, fra la sessualità e il sentimento
del sacro che intimissimamente si conciliavano sul contrasto,
ma in un piano, che peraltro, sfuggiva del tutto alla
coscienza razionale, sociale e religiosa del poeta.
Per quanto riguarda questa lotta della parlata plebea con la
forma illustre, con l'autorità del Sonetto, noi diremo che le
vittorie del Belli sono tanto più decisive quanto più lo
schieramento degli opposti elementi è integrale. Allora le due
forze si fondono: e il romanesco investendo l'antica e un poco
morta struttura del sonetto, la pervade e riedifica dal
didentro, la riplasma dall'interno in una struttura sintattica
originale.
Ciò accade, per così dire, quando l'opposizione è assoluta,
quando da un lato il romanesco e dall'altro la «forma-sonetto»
fanno valere con pari esigenza le loro ragioni. Allora si ha
il vero «Sonetto romanesco» : la sintassi fantastica,
affettiva, gestita, plasma il giro della voce, si identifica
con esso. Allora si ha anche identità di «durata» e cioè la
necessità dei quattordici versi, delle rime, dei due
archivolti delle quartine e delle terzine, la giustezza del
respiro, il desiderato giungere delle cadenze. E sono appunto
quei Sonetti nei quali la fantasia ha fatto un solo getto con
il ritmo d'un'azione, gestita, figurata, «tutta cose» (anche
se azione gnomica di personaggi che sono categorie come il re,
il boia e il popolo nel Sonetto già ricordato).
Il Belli tende sempre a far diventare tutto azione e gesto,
mossa di mimo: e questa azione te la fa vedere con quei tratti
rapidi, con quegli scorci che lasciano tutto il resto
nell'ombra per concentrare «la illuminazione» su un
particolare, su una rima. In una scena di sequestro nella
scuderia di un nobile, questi fa opposizione giudiziaria: ecco
arriva il cursore che «svitanno er zu' bbravo calamaro - J'incartó
una protesta calla calla». Tutto il valore e il significato
della rappresentazione è centrato in quel gesto del calamaio
svitato, che ti s'imprime nella memoria. Così in un congresso
di ministri esteri e di porporati (Er congresso tosto, 2 ott.
'35). mentre arrivano i diplomatici in Vaticano, «er Cardinale
preparò un quinterno - De carta bbianca, e ppoi jje diede
udienza...». Di tutti i grossi problemi politici trattati, ciò
che interessa al poeta, ciò che vive nella sua fantasia, come
in quella fanciullesca del popolano è il particolare
nettissimo, del «quinterno de carta» e, si noti, «de carta
bbianca», su cui piove tutta la luce della scena. Si pensa a
quello che osserva il De Sanctis a proposito delle terzine di
Dante sul pellegrino «che forse di Croazia Viene a veder la
Veronica nostra». «Dante ha veduto del fatto un solo momento,
ma, l'essenziale... È un sol tratto sintetico che ti getta
verso il maraviglioso» (Saggio sul Petrarca pag. 131). Di
simili tratti sintetici, di simili «momenti» colti
nell'essenziale di un fatto, la poesia del Belli è un continuo
esempio. Vuol dire che una apparizione miracolosa folgora a
Papa Silverio nel sogno e gli ordina di fabbricare la basilica
liberiana? Stringerà il fatto in questa frase:
E intanto un Papa s'inzoggnò un
sprennore
E: Vva' s'intese a ddi, ddov'ha fioccato
Fa' ffrabbica' Ssanta Maria Maggiore
Ecco appunto il sol tratto sintetico che ti getta verso il
meraviglioso: quel torrente di luce che rompe nel sogno del
Papa è visione stupenda, liricissima anche nel suono, con
quegli attriti di consonanti, di sibilanti e di fricative, che
sembrano rendere lo sprazzo dei raggi nel buio.
Nel sonetto La scala de li strozzi, un tratto della stessa
forza fantastica ha raffigurato la tortuosa trafila che si
deve seguire per fare giungere attraverso varie mani a un
grosso personaggio il prezzo di concussione; il Belli l'ha
paragonata alle scale infinite di un grande palazzo romano. «Cqua
pe sti ggiri sce sò le su'scale - Come da le siffitte a li
portoni».
Visioni, dunque, che diventano oggetti; oggetti che diventano
parole salienti, frasi estremamente emergenti nel ritmo e nei
valori fonici. Nel sonetto La stragge de li noscenti (12
gennaio 1832) i soldati di Erode menano colpi sui bambini in
fasce; e ad ogni colpo: «... Vola 'na tacchiarella in
Paradiso».
Questa «cosalità» o «effettualità» è uno dei caratteri
principali del Belli: questo suo potere di ricondurre le
immagini e perfino le idee a un grado di corporeità talmente
fisica che l'animo resta come combattuto fra lo stupore e la
risata. La sua forza comica si potrebbe ben definire una forma
di sublime capovolto. «D'où vient le comique? De là que notre
attention est brusquement ramenée de l'àme au corps» . Sono
parole di Bergson nel suo saggio Le rire; e bisogna dire che
pochì le dimostrano vere come il Belli, la cui enorme comicità
deriva dal fatto che nessuno, pure mettendoti sotto gli occhi
dei corpi, e quali corpi, in ogni genere di accezione, nessuno
ha mai contemporaneamente tanto tenuto d'occhio l'anima, l'oltremondo,
i miracoli, i sacramenti. La fantasia del Belli è così potente
e grandiosa che bisogna forse pensare a Rabelais e a Dante nel
Canto dei diavoli per trovare nell'arte qualcuno che abbia
mantenuto ferma contemporaneamente una pari tensione fra
l'aldilà e l'aldiquà fra un inondo sacrale, chiesastico,
teologico e uno pesantemente carnale: o, talora, fra
l'universalità solenne di eventi pubblici, memorabili e la
vita tutta ravvolta nel nicchio delle esistenze particolari.
Astrazione e concretezza, senso della storia e dell'intimo.
L'homo privato; gl'interni delle case: la vita dei grandi e
dei miseri, come si sta svolgendo contemporaneamente nelle
piazze e nelle camere. Questo senso degli interni non è che
l'analogo del «particolare minimo» ma concretissimo (il
quinterno, il calamaro) nella rappresentazione di episodi.
L'avvenimento storico ufficiale diventa umano e vissuto in
quanto si scopre un suo filo con l'esistenza quotidiana. Ma è
proprio stabilendosi il contatto fra quella esterna generalità
(del fatto che vale per tutti) e la sua ripercussione nel
pieno, nel denso, nel capillare del «particolare vissuto» che
l'avvenimento acquista una vita lirica che non aveva.
Lo stesso rapporto di esterno e d'interno si osservi nel
sonetto La lezzione di Papa Grigorio: la proclamazione di un
pontefice vi arriva improvvisa, cala dall'alto in un interno
quasi fiammingo, una cucina di povera gente, di quelli di cui
il Belli è insuperabile pittore. Una donna allatta, l'uomo
fuma la pipa e un soldato si lucida la tracolla per la festa
dell'indomani: ed ecco si sente la cannonata che annunzia
l'elezione del nuovo Papa. Rapporto o meglio urto di motivi
radicalmente eterogenei, che scontrandosi nella fantasia la
illuminano con la loro scintilla geniale. Ritroveremo questo
rapporto in un urto ancora più brusco nel sonetto Gíuveddì
Ssanto, dove la «cannonata-benedizione» da Castel S. Angelo,
come l'antico tuono di Geova, cala anche lì dall'esterno, dal
cielo aperto, spiegato, della mattina nell'interno di una
camera, di un letto, dove un uomo e una donna stanno
abbracciati: e li scioglie, li fa inginocchiare. Situazione in
cui c'è, in nuce, tutto il Belli.
La caratteristica di sonetti come questi è la pienezza
fantastica, in cui il mosto, il fermento della vita urge sui
margini della forma-sonetto e ne ravviva i limiti,
rimbalzandovi contro. Azione e metro, rappresentazione e
misura strofica si adeguano perfettamente nella durata del
Sonetto; o, semmai, dalla concisione, dalla necessità di essa
forma acquistano una forza gliptica e quasi un quintessenziato
rilievo di medaglia.
Ma altre volte il Belli. è come Marziale: e la concisione di
cui è maestro lo porterebbe all'epigramma tagliente, secco, di
due o tre versi. Si vedano quei suoi brevi appunti lasciati in
alcune schede, che non fanno desiderare di più. «Quelli li nun
zò ommini : so ppreti»; o il famoso: «A Ppapa Grigorio je
volevo bbene, perché mme dava er gusto de potenne di mmale»; o
l'altra: «Li vecchi? Na sbiossarella e ggiú, ssotto la
pietra».
Possono perciò darsi dei casi in cui l'adeguazione tra lo
spunto epigrammatico e l'azione parlata, o la cosa osservata,
fra l'episodio insomma e la durata del Sonetto sia minore. In
questi casi entra in gioco un altro elemento: il gusto delle
parole, il dono del vocabolo multiplo, il godimento di una
vera e propria iridescenza del sinonimo. Senza questo puro
piacere del discorso, della sua musica, che spesso è un canto
come le arie e i rondò del melodramma, un gorgheggio della
voce meridionale spiegata nelle vocali e variamente modulata
dagli acuti alle cadenze; senza lo sfoggio di una vera e
propria «parlata d'arte», che ha tutto un suo senso della
proprietà dei vocabili e si compiace di se stessa in una
inesauribile invenzione, in un barocco di iperboli, di
peggiorativi e di accrescitivi, di geminazioni e di
arrotamenti che sono come orchestrali sonorizzazioni della
pronuncia, tutta una grandissima parte della poesia del Belli
non si intenderebbe: ed è forse questa la parte più legata a
una attività estetica come tale, in cui il parlatore popolare
(e il poeta che in lui si traspone) fa, nel più naturale dei
modi, dell'«arte per l'arte». |