CRITICA: ROMANTICISMO

 CONCRETEZZA E FANTASIA DEL BELLI

 AUTORE: Giorgio Vigolo    TRATTO DA: G. G. Belli: I sonetti

 

Uno dei problemi formali maggiori, cui il Belli si è trovato di fronte, come ogni artista che abbia accettato la disciplina della forma chiusa, prestabilita, è stato il misterioso adeguamento della sua materia al rigore del Sonetto. Il Belli era uomo che, reagendo su un esuberante temperamento istintivo, amava darsi delle regole assolute. E due senza dubbio egli ne o servò nel suo poema con fedeltà mai tradita: quella alla schietta parlata degli infimi, e quella alla forma tradizionale del Sonetto. Due regole in un certo senso contraddittorie e che bastavano esse sole a creare una dialettica, nella quale si esprimeva un più profondo conflitto della sua persona, forse, fra la sessualità e il sentimento del sacro che intimissimamente si conciliavano sul contrasto, ma in un piano, che peraltro, sfuggiva del tutto alla coscienza razionale, sociale e religiosa del poeta.
Per quanto riguarda questa lotta della parlata plebea con la forma illustre, con l'autorità del Sonetto, noi diremo che le vittorie del Belli sono tanto più decisive quanto più lo schieramento degli opposti elementi è integrale. Allora le due forze si fondono: e il romanesco investendo l'antica e un poco morta struttura del sonetto, la pervade e riedifica dal didentro, la riplasma dall'interno in una struttura sintattica originale.
Ciò accade, per così dire, quando l'opposizione è assoluta, quando da un lato il romanesco e dall'altro la «forma-sonetto» fanno valere con pari esigenza le loro ragioni. Allora si ha il vero «Sonetto romanesco» : la sintassi fantastica, affettiva, gestita, plasma il giro della voce, si identifica con esso. Allora si ha anche identità di «durata» e cioè la necessità dei quattordici versi, delle rime, dei due archivolti delle quartine e delle terzine, la giustezza del respiro, il desiderato giungere delle cadenze. E sono appunto quei Sonetti nei quali la fantasia ha fatto un solo getto con il ritmo d'un'azione, gestita, figurata, «tutta cose» (anche se azione gnomica di personaggi che sono categorie come il re, il boia e il popolo nel Sonetto già ricordato).
Il Belli tende sempre a far diventare tutto azione e gesto, mossa di mimo: e questa azione te la fa vedere con quei tratti rapidi, con quegli scorci che lasciano tutto il resto nell'ombra per concentrare «la illuminazione» su un particolare, su una rima. In una scena di sequestro nella scuderia di un nobile, questi fa opposizione giudiziaria: ecco arriva il cursore che «svitanno er zu' bbravo calamaro - J'incartó una protesta calla calla». Tutto il valore e il significato della rappresentazione è centrato in quel gesto del calamaio svitato, che ti s'imprime nella memoria. Così in un congresso di ministri esteri e di porporati (Er congresso tosto, 2 ott. '35). mentre arrivano i diplomatici in Vaticano, «er Cardinale preparò un quinterno - De carta bbianca, e ppoi jje diede udienza...». Di tutti i grossi problemi politici trattati, ciò che interessa al poeta, ciò che vive nella sua fantasia, come in quella fanciullesca del popolano è il particolare nettissimo, del «quinterno de carta» e, si noti, «de carta bbianca», su cui piove tutta la luce della scena. Si pensa a quello che osserva il De Sanctis a proposito delle terzine di Dante sul pellegrino «che forse di Croazia Viene a veder la Veronica nostra». «Dante ha veduto del fatto un solo momento, ma, l'essenziale... È un sol tratto sintetico che ti getta verso il maraviglioso» (Saggio sul Petrarca pag. 131). Di simili tratti sintetici, di simili «momenti» colti nell'essenziale di un fatto, la poesia del Belli è un continuo esempio. Vuol dire che una apparizione miracolosa folgora a Papa Silverio nel sogno e gli ordina di fabbricare la basilica liberiana? Stringerà il fatto in questa frase:


E intanto un Papa s'inzoggnò un sprennore
E: Vva' s'intese a ddi, ddov'ha fioccato
Fa' ffrabbica' Ssanta Maria Maggiore



Ecco appunto il sol tratto sintetico che ti getta verso il meraviglioso: quel torrente di luce che rompe nel sogno del Papa è visione stupenda, liricissima anche nel suono, con quegli attriti di consonanti, di sibilanti e di fricative, che sembrano rendere lo sprazzo dei raggi nel buio.
Nel sonetto La scala de li strozzi, un tratto della stessa forza fantastica ha raffigurato la tortuosa trafila che si deve seguire per fare giungere attraverso varie mani a un grosso personaggio il prezzo di concussione; il Belli l'ha paragonata alle scale infinite di un grande palazzo romano. «Cqua pe sti ggiri sce sò le su'scale - Come da le siffitte a li portoni».
Visioni, dunque, che diventano oggetti; oggetti che diventano parole salienti, frasi estremamente emergenti nel ritmo e nei valori fonici. Nel sonetto La stragge de li noscenti (12 gennaio 1832) i soldati di Erode menano colpi sui bambini in fasce; e ad ogni colpo: «... Vola 'na tacchiarella in Paradiso».

Questa «cosalità» o «effettualità» è uno dei caratteri principali del Belli: questo suo potere di ricondurre le immagini e perfino le idee a un grado di corporeità talmente fisica che l'animo resta come combattuto fra lo stupore e la risata. La sua forza comica si potrebbe ben definire una forma di sublime capovolto. «D'où vient le comique? De là que notre attention est brusquement ramenée de l'àme au corps» . Sono parole di Bergson nel suo saggio Le rire; e bisogna dire che pochì le dimostrano vere come il Belli, la cui enorme comicità deriva dal fatto che nessuno, pure mettendoti sotto gli occhi dei corpi, e quali corpi, in ogni genere di accezione, nessuno ha mai contemporaneamente tanto tenuto d'occhio l'anima, l'oltremondo, i miracoli, i sacramenti. La fantasia del Belli è così potente e grandiosa che bisogna forse pensare a Rabelais e a Dante nel Canto dei diavoli per trovare nell'arte qualcuno che abbia mantenuto ferma contemporaneamente una pari tensione fra l'aldilà e l'aldiquà fra un inondo sacrale, chiesastico, teologico e uno pesantemente carnale: o, talora, fra l'universalità solenne di eventi pubblici, memorabili e la vita tutta ravvolta nel nicchio delle esistenze particolari. Astrazione e concretezza, senso della storia e dell'intimo. L'homo privato; gl'interni delle case: la vita dei grandi e dei miseri, come si sta svolgendo contemporaneamente nelle piazze e nelle camere. Questo senso degli interni non è che l'analogo del «particolare minimo» ma concretissimo (il quinterno, il calamaro) nella rappresentazione di episodi. L'avvenimento storico ufficiale diventa umano e vissuto in quanto si scopre un suo filo con l'esistenza quotidiana. Ma è proprio stabilendosi il contatto fra quella esterna generalità (del fatto che vale per tutti) e la sua ripercussione nel pieno, nel denso, nel capillare del «particolare vissuto» che l'avvenimento acquista una vita lirica che non aveva.
Lo stesso rapporto di esterno e d'interno si osservi nel sonetto La lezzione di Papa Grigorio: la proclamazione di un pontefice vi arriva improvvisa, cala dall'alto in un interno quasi fiammingo, una cucina di povera gente, di quelli di cui il Belli è insuperabile pittore. Una donna allatta, l'uomo fuma la pipa e un soldato si lucida la tracolla per la festa dell'indomani: ed ecco si sente la cannonata che annunzia l'elezione del nuovo Papa. Rapporto o meglio urto di motivi radicalmente eterogenei, che scontrandosi nella fantasia la illuminano con la loro scintilla geniale. Ritroveremo questo rapporto in un urto ancora più brusco nel sonetto Gíuveddì Ssanto, dove la «cannonata-benedizione» da Castel S. Angelo, come l'antico tuono di Geova, cala anche lì dall'esterno, dal cielo aperto, spiegato, della mattina nell'interno di una camera, di un letto, dove un uomo e una donna stanno abbracciati: e li scioglie, li fa inginocchiare. Situazione in cui c'è, in nuce, tutto il Belli.

La caratteristica di sonetti come questi è la pienezza fantastica, in cui il mosto, il fermento della vita urge sui margini della forma-sonetto e ne ravviva i limiti, rimbalzandovi contro. Azione e metro, rappresentazione e misura strofica si adeguano perfettamente nella durata del Sonetto; o, semmai, dalla concisione, dalla necessità di essa forma acquistano una forza gliptica e quasi un quintessenziato rilievo di medaglia.

Ma altre volte il Belli. è come Marziale: e la concisione di cui è maestro lo porterebbe all'epigramma tagliente, secco, di due o tre versi. Si vedano quei suoi brevi appunti lasciati in alcune schede, che non fanno desiderare di più. «Quelli li nun zò ommini : so ppreti»; o il famoso: «A Ppapa Grigorio je volevo bbene, perché mme dava er gusto de potenne di mmale»; o l'altra: «Li vecchi? Na sbiossarella e ggiú, ssotto la pietra».
Possono perciò darsi dei casi in cui l'adeguazione tra lo spunto epigrammatico e l'azione parlata, o la cosa osservata, fra l'episodio insomma e la durata del Sonetto sia minore. In questi casi entra in gioco un altro elemento: il gusto delle parole, il dono del vocabolo multiplo, il godimento di una vera e propria iridescenza del sinonimo. Senza questo puro piacere del discorso, della sua musica, che spesso è un canto come le arie e i rondò del melodramma, un gorgheggio della voce meridionale spiegata nelle vocali e variamente modulata dagli acuti alle cadenze; senza lo sfoggio di una vera e propria «parlata d'arte», che ha tutto un suo senso della proprietà dei vocabili e si compiace di se stessa in una inesauribile invenzione, in un barocco di iperboli, di peggiorativi e di accrescitivi, di geminazioni e di arrotamenti che sono come orchestrali sonorizzazioni della pronuncia, tutta una grandissima parte della poesia del Belli non si intenderebbe: ed è forse questa la parte più legata a una attività estetica come tale, in cui il parlatore popolare (e il poeta che in lui si traspone) fa, nel più naturale dei modi, dell'«arte per l'arte».

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis