«Siam servi si, ma servi ognor frementi» . Questo verso
alfieriano col quale si chiudono le Promenades, e che Stendhal
racconta essere stato scritto per tragica pasquinata sulla
porta della residenza papale a Montecavallo, era il linguaggio
astratto dei «paini» cioè degli intellettuali giacobini. Ma
dov'era il popolo? dove era la sua voce diretta? dov'era
un'opera che rappresentasse in concreto la sua servitù, senza
genericità declamatorie, e il suo fremito in atto, con
personaggi e situazioni determinate?
Quello che Stendhal aveva detto dei romani in Rome, Naples et
Florence, e che avrebbe ancora sviluppato in tante pagine
delle Promenades, rimaneva ancora allo stato di saggio, di
brillantissima critica del costume, benché nulla fosse stato
mai scritto di più geniale, dopo Goethe, e con tanta profonda
simpatia:
Le Romain ne déguise par aucun compliment l'àpreté du réel de
la vie. La société dans laquelle il vit est semée de trop de
dangers mortels pour qu'il s'expose au risque de faire des
fautes de raisonnement, ou à celui de donner de faux avis. Son
imagination devient folle à chaque découverte d'un malheur
inconnu. Elle veut tout voir d'un premier coup d'oeil, et
ensuite tàcher de s 'y accoutumer.
Anche altrove è lo stesso Stendhal che sottolinea le respect
pour la vérité a la permanence des désirs come caratteristiche
della società romana: quella sincerità che le dava «un premier
aspect de méchanceté» e che pure era la «source de la
bonomie». L'impulso non soffocato alla felicità «en
satisfaisant ses passions» gli sembrava particolarmente
colorito «par son énergie» da «cette classe ouvrière qui,
gràce à sa pauvreté, n'a pas le temps de songer à 1'opinion du
voisin et aux convenances».
Lasciando al populismo di Stendhal l'esaltazione dei diritti
passionali, lasciando al suo ottimismo la fiducia
nell'avvenire di questo popolo, il fatto che anche una plebe
così guasta dal malgoverno e così feroce, perché «faconnée par
les moines mendiants» fosse esteticamente interessante, sarà
fondamentale per il Belli quando ci rappresenterà il volto di
questa «canaille romaine, à la fois hideuse et admirable par
l'énergie».
Ma che questo popolo sia «moins éloigné que nous des grandes
actions» era fuori discussione anche per Belli, che lo
rappresentò in tutta la sua scatenata energia, sia nella
ferocia reazionaria che nelle aspirazioni di rivolta
vendicatrice, nelle taglienti ingiurie e nei sanguinosi
sarcasmi. Stendhal e Belli, a differenza dei falsi
progressisti, sapevano infatti vedere il popolo con simpatia
ma senza dissimularsi i suoi vari aspetti. Sicché potevano
vedere la contraddizione fondamentale di questa plebe
asservita, che riesce ad avere «une liberté étonnante» nei
confronti «des hommes du pouvoir», a cominciare dal Papa. E
questa libertà andava sino alla totale mancanza di conformismo
non solo in materia politica, ma anche in materia religiosa:
Le peuple de Rome, témoin de tous les ridicules des cardinaux
et autres grands seigeurs de la cour du pape, a une piété
beaucoup plus éclairée; tout espèce d'affectation est bien
vite affublée d'un sonnet satirique.
Il corsivo éclairée è mio. Desidero sottolineare ancora un
punto decisivo nelle concordanze che ho trovato tra il
populismo di Belli e quello di Stendhal. Leggendo
l'Introduzione ai sonetti mi ha infatti colpito un aggettivo
che non si trova nella prima bozza di questa prosa (la nota
lettera a Francesco Spada). Proprio sul bel principio dove si
descrivono i caratteri originari della plebe di Roma, il Belli
parla dei «lumi» di questa plebe, che prendono posto fra le
sue «pratiche» e le sue «credenze», quasi ad inserire alcuni
elementi di razionale consapevolezza moderna in mezzo alla
eredità passiva dei vecchi costumi e della vecchia fede.
A differenza degli intellettuali pseudo-progressivi, pieni di
spocchia filistea, Stendhal e Belli non vedono la plebe chiusa
irrimediabilmente nel cerchio dei suoi limiti, accecata dallo
stomaco vuoto, incapace di superare i suoi stessi limiti di
linguaggio. Ci voleva niente meno che un Adorno per immaginare
astrattamente, al di fuori di ogni dialettica storica, una
lingua degli oppressi che resterebbe (secondo lui) solo
«l'espressione del dominio, che l'ha privata anche della
giustizia che la parola autonoma non deformata promette a
tutti coloro che sono abbastanza liberi per pronunciarla senza
rancore». Sì, non c'è dubbio, che «la lingua proletaria è
dettata dalla fame», e che il povero «biascica le parole per
saziarsi di esse» e che egli «attende dal loro spirito
oggettivo il valido nutrimento» rifiutatogli dalla società. E
se Adorno avesse letto Belli, crederebbe anzi di aver ragione
a ritenere che il povero, facendo la voce grossa, arrotondando
«la bocca che non ha nulla da mordere», faccia le sue vendette
sulla lingua «strappando il suo corpo che non gli è concesso
di amare, e ripetendo con impotente violenza l'offesa che gli
è stata inflitta». Ma il popolo è un po' meno incanato, un po'
meno impotente e un pò meno ottenebrato di certi intellettuali
che vorrebbero riscattarlo dalla sua inferiorità elargendogli
il loro linguaggio scritto, liberatore del discorso umano.
Questa concezione antistorica e tutt'altro che avanzata del
popolo non l'aveva nemmeno un uomo come Antonio Rosmini.
Infatti in una sua lettera da Roma del' 11 marzo 1829
(opportunamente riportata da uno dei più acuti critici del
Belli, Silvio D'Amico), così scriveva:
Pel morale è una città indefinibile: ci sono tutti gli
elementi mescolati insieme: si trova tutto, e non si fa caso
di niente; nel popolo c'è un'apatia profonda, almeno in
apparenza; è come stupito da tante cose che gli passano o che
ha costantemente sotto gli occhi; c'è un'ignoranza e un buon
senso mirabile; si sentono delle opinioni superstiziose e c'è
insieme il più fine discernimento in materie religiose; c'è un
lassismo e un rigorismo popolare: si pronunziano dal popolo
dei giudizi profondi su tutte le cose, e si celia e si
piacevoleggia pure sopra ogni cosa; ci sono dei Catoni nel
mezzo dei trasteverini . . .
Qui la religione mostra tutta la sua maestà, la sua potenza,
la sua sapienza; ella vi sta come regina della terra, come
trionfatrice e dominatrice di quanto ha ed ebbe di fronte e di
non illusorio il mondo.
Stendhal vedeva in questo popolo un potenziale di libertà
future. Rosmini un vestigio del provvidenziale passato e segni
incoraggianti della maestà e sapienza e potenza della
religione. Belli una realtà più viva e più complessa, dove
«spiccano le più strane contraddizioni». nelle quali bisognava
immergersi: «ma il popolo è questo (diceva nella
Introduzione); e questo io ricopio non per produrre un
modello, ma sì per dare un'immagine fedele di cosa già
esistente, e, più, abbandonata senza miglioramento».
La consapevolezza che proprio questo popolo, nonostante tutto,
era detentore di una parte di «lumi», non solo fa del Belli un
uomo ideologicamente moderno e avanzato, ma un poeta convinto
della necessità di cacciarsi dentro a un «idiotismo continuo»
(come egli diceva nella Introduzione) per sollecitare fin nel
dialetto le potenziali forze di espressione liberatrice e far
conflagrare queste contraddizioni, pur limitandosi a far «dire
a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera», e
lasciando ai margini, ad eccezionali sonetti, qualche fievole
speranza di cose venture, difficilmente fondabile in un così
buio presente.
Adorno ha ragione, in linea di massima, quando afferma «nulla
di più reazionario che contrapporre i dialetti popolari alla
lingua scritta». Ma nulla di più reazionario v'è che
contrapporre questa a quelli, senza vedere l'osmosi reale che
nutre continuamente il «basso» e «l'alto» di una cultura, per
lento e ritardato che possa esserne il processo. Ci piaccia o
no il Belli era persuaso che questa affamata e miserabile
plebe romana poteva vantare un privilegio che le dava la sua
stessa condizione sociale rispetto alle stesse classi:
fra noantri soli
se pò ttrovà la verità sfacciata.
Le convenzioni sociali hanno imposto ai volti della gente «aricamata»
una faccia che è come una maschera d'ipocrisia, onde i muscoli
si contraggono e si frenano dissimulando, e si uniformano
nella «immobilità comandata dalla civile educazione». La
classe «allevata» è come paralizzata dall'impossibilità di
esprimere il vero. Perciò «pijja sempre li sceci pe ffacioli».
Perciò è ridotta al buffo destino immobile dei burattini.
Belli era idealmente convinto col suo Bourguignon d'Herbigny
che ormai le ultime classi della società capissero l'essenza
di tutto ciò che le opprimeva ed esistevano opinioni che erano
«il prodotto dei lumi, dei sentimenti, del genio, e della
ragione dei popoli». Grazie a questa consapevolezza la plebe
può arrivare alla verità attraverso le vie meno consuete, e
pronunciare la sua protesta e il suo giudizio. Per questo
Belli l'aveva portata in massa sulla scena dei suoi Sonetti. A
chi mi chiedesse (rispondeva al principe Gabrielli) perché
abbia io dunque in altri tempi impiegata la mia penna in
simiglianti lavori, risponderei mio intento noti essere già
quello di fissare in carta una lingua a cui meritatamente
manca in Italia un posto, ma sí unicamente d'introdurre il
nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche
sconcia favella, dipingendo cosí egli stesso i suoi proprii
usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con
tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati
ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo.
Questa plebe che occupa il fondo della piramide e da lì
giudica chi sta in alto e le sta sopra, è un'idea centrale
della concezione da cui è partito Belli. E non meraviglia che
c'insista anche trenta anni dopo la sua Introduzione.
Da questo grandioso complesso di superiorità, un complesso non
individuale ma collettivo, non psicologico ma di classe,
deriva per Belli una concezione del comico che è potentemente
rivendicatrice di naturali diritti soppressi, di una umana
dignità conculcata, di una ragione ottenebrata dalla mitologia
cristiana. Perciò i potenti sono sconsacrati ed umiliati,
ricacciati in una sfera negativa:
Per èsse bbuffo abbasta esse signore.
E se sono riammessi a partecipare all'unità inscindibile del
genere umano, vi partecipano solo in quanto personaggi comici,
dove l'uguaglianza è ristabilita al livello più basso di chi
parla e giudica e «comprende» in sé qualche cosa che
tradizionalmente era alto e che finalmente è ora umiliato in
una perenne quotidiana universale commedia la cui scena è
tutta una città, dove ognuno sarà attore e sosterrà la sua
parte, da Dio al diavolo, dal poeta al Papa, dal becchino al
nobile.
No, non c'è nei sonetti un poeta che si accosta «al piccolo
mondo degli infimi con la sua grande sensibilità dolente e
ricettiva» (come si è lasciato dire il Vigolo in un momento
poco felice).
Pur prevedendo una vita destinata a «scorrere e terminare
ignuda di gloria» (come scriveva nella famosa lettera alla
Roberti), pur con dannato alla umiliazione quotidiana della
clandestinità, conscio di dover essere solo «er sor chi s'annisconne
perché piove» (son. 587) Belli porta al massimo di libertà e
di consapevolezza le qualità che egli crede di avere comuni
con il suo popolo, su di un piano di assoluta eguaglianza
realizzato almeno nella poesia: «Noantri».
Anche lui (come diceva dei primi cristiani) fa «a
nisconnarello pe la fede» (la fede nel vero), accettando la
sua difficile condizione di testimone, prima che di poeta.
Era un mondo tenebroso e al declino, che in privato
sprofondava «ner pozzo de li morti», altrettanto onorati e
innalzati, quanto i vivi erano umiliati ed offesi:
A sto paese tutti li penzieri,
Tutte le lòro carità ccristiane
Sò ppe li morti; e appena more un cane
Je se smoveno tutti li bbraghieri.
E ccataletti, e mmoccoli, e incenzieri,
E asperge, e uffizi, e mmusiche, e ccampane,
E mmesse, e ccatafarchi, e bbonemane,
E indurgenze, e ppitaffi, e ccimiteri! . . .
E intanto pe li vivi, poveretti!,
Gabbelle, ghijjottine, passaporti,
Mano-reggie, galerre e ccavalletti.
E li vivi poi-poi, bboni o ccattivi,
Sò cquarche ccosa mejjo de li morti:
Nun fuss'antro pe cquesto che ssò vvivi.
Contro la mortificazione regnante, con un incorrutibile
anelito sconquistare ogni giorno più luce al suo sguardo, qui
Belli volle erigere il suo monumento alla vita:
Vojjo un lume de pp iù ffin che sto
ar monno,
e una torcia de meno ar cataletto.
Qui, dove:
li preti cor loro incenziere
un coll'antro s'accecheno de fume,
dove si continuava lo spaccio scettico delle più assurde
reliquie, egli che aveva ancor fede nella luce deistica d'una
religione naturale e immortale, contrapponeva (mi si permetta
di adoperare emblematicamente anche altri suoi versi:
er moccolo che aveva a la lenterna
Dio quanno accese er zole, e ppoi je disse:
«Va, illumina chi sserve e chi ggoverna». |