CRITICA: ROMANTICISMO

 CONCRETEZZA E FANTASIA DEL BELLI

 AUTORE: Carlo Muscetta    TRATTO DA: Cultura e poesia di G. G. Belli

 

«Siam servi si, ma servi ognor frementi» . Questo verso alfieriano col quale si chiudono le Promenades, e che Stendhal racconta essere stato scritto per tragica pasquinata sulla porta della residenza papale a Montecavallo, era il linguaggio astratto dei «paini» cioè degli intellettuali giacobini. Ma dov'era il popolo? dove era la sua voce diretta? dov'era un'opera che rappresentasse in concreto la sua servitù, senza genericità declamatorie, e il suo fremito in atto, con personaggi e situazioni determinate?
Quello che Stendhal aveva detto dei romani in Rome, Naples et Florence, e che avrebbe ancora sviluppato in tante pagine delle Promenades, rimaneva ancora allo stato di saggio, di brillantissima critica del costume, benché nulla fosse stato mai scritto di più geniale, dopo Goethe, e con tanta profonda simpatia:

Le Romain ne déguise par aucun compliment l'àpreté du réel de la vie. La société dans laquelle il vit est semée de trop de dangers mortels pour qu'il s'expose au risque de faire des fautes de raisonnement, ou à celui de donner de faux avis. Son imagination devient folle à chaque découverte d'un malheur inconnu. Elle veut tout voir d'un premier coup d'oeil, et ensuite tàcher de s 'y accoutumer.

Anche altrove è lo stesso Stendhal che sottolinea le respect pour la vérité a la permanence des désirs come caratteristiche della società romana: quella sincerità che le dava «un premier aspect de méchanceté» e che pure era la «source de la bonomie». L'impulso non soffocato alla felicità «en satisfaisant ses passions» gli sembrava particolarmente colorito «par son énergie» da «cette classe ouvrière qui, gràce à sa pauvreté, n'a pas le temps de songer à 1'opinion du voisin et aux convenances».
Lasciando al populismo di Stendhal l'esaltazione dei diritti passionali, lasciando al suo ottimismo la fiducia nell'avvenire di questo popolo, il fatto che anche una plebe così guasta dal malgoverno e così feroce, perché «faconnée par les moines mendiants» fosse esteticamente interessante, sarà fondamentale per il Belli quando ci rappresenterà il volto di questa «canaille romaine, à la fois hideuse et admirable par l'énergie».
Ma che questo popolo sia «moins éloigné que nous des grandes actions» era fuori discussione anche per Belli, che lo rappresentò in tutta la sua scatenata energia, sia nella ferocia reazionaria che nelle aspirazioni di rivolta vendicatrice, nelle taglienti ingiurie e nei sanguinosi sarcasmi. Stendhal e Belli, a differenza dei falsi progressisti, sapevano infatti vedere il popolo con simpatia ma senza dissimularsi i suoi vari aspetti. Sicché potevano vedere la contraddizione fondamentale di questa plebe asservita, che riesce ad avere «une liberté étonnante» nei confronti «des hommes du pouvoir», a cominciare dal Papa. E questa libertà andava sino alla totale mancanza di conformismo non solo in materia politica, ma anche in materia religiosa:

Le peuple de Rome, témoin de tous les ridicules des cardinaux et autres grands seigeurs de la cour du pape, a une piété beaucoup plus éclairée; tout espèce d'affectation est bien vite affublée d'un sonnet satirique.

Il corsivo éclairée è mio. Desidero sottolineare ancora un punto decisivo nelle concordanze che ho trovato tra il populismo di Belli e quello di Stendhal. Leggendo l'Introduzione ai sonetti mi ha infatti colpito un aggettivo che non si trova nella prima bozza di questa prosa (la nota lettera a Francesco Spada). Proprio sul bel principio dove si descrivono i caratteri originari della plebe di Roma, il Belli parla dei «lumi» di questa plebe, che prendono posto fra le sue «pratiche» e le sue «credenze», quasi ad inserire alcuni elementi di razionale consapevolezza moderna in mezzo alla eredità passiva dei vecchi costumi e della vecchia fede.
A differenza degli intellettuali pseudo-progressivi, pieni di spocchia filistea, Stendhal e Belli non vedono la plebe chiusa irrimediabilmente nel cerchio dei suoi limiti, accecata dallo stomaco vuoto, incapace di superare i suoi stessi limiti di linguaggio. Ci voleva niente meno che un Adorno per immaginare astrattamente, al di fuori di ogni dialettica storica, una lingua degli oppressi che resterebbe (secondo lui) solo «l'espressione del dominio, che l'ha privata anche della giustizia che la parola autonoma non deformata promette a tutti coloro che sono abbastanza liberi per pronunciarla senza rancore». Sì, non c'è dubbio, che «la lingua proletaria è dettata dalla fame», e che il povero «biascica le parole per saziarsi di esse» e che egli «attende dal loro spirito oggettivo il valido nutrimento» rifiutatogli dalla società. E se Adorno avesse letto Belli, crederebbe anzi di aver ragione a ritenere che il povero, facendo la voce grossa, arrotondando «la bocca che non ha nulla da mordere», faccia le sue vendette sulla lingua «strappando il suo corpo che non gli è concesso di amare, e ripetendo con impotente violenza l'offesa che gli è stata inflitta». Ma il popolo è un po' meno incanato, un po' meno impotente e un pò meno ottenebrato di certi intellettuali che vorrebbero riscattarlo dalla sua inferiorità elargendogli il loro linguaggio scritto, liberatore del discorso umano.

Questa concezione antistorica e tutt'altro che avanzata del popolo non l'aveva nemmeno un uomo come Antonio Rosmini. Infatti in una sua lettera da Roma del' 11 marzo 1829 (opportunamente riportata da uno dei più acuti critici del Belli, Silvio D'Amico), così scriveva:

Pel morale è una città indefinibile: ci sono tutti gli elementi mescolati insieme: si trova tutto, e non si fa caso di niente; nel popolo c'è un'apatia profonda, almeno in apparenza; è come stupito da tante cose che gli passano o che ha costantemente sotto gli occhi; c'è un'ignoranza e un buon senso mirabile; si sentono delle opinioni superstiziose e c'è insieme il più fine discernimento in materie religiose; c'è un lassismo e un rigorismo popolare: si pronunziano dal popolo dei giudizi profondi su tutte le cose, e si celia e si piacevoleggia pure sopra ogni cosa; ci sono dei Catoni nel mezzo dei trasteverini . . .

Qui la religione mostra tutta la sua maestà, la sua potenza, la sua sapienza; ella vi sta come regina della terra, come trionfatrice e dominatrice di quanto ha ed ebbe di fronte e di non illusorio il mondo.
Stendhal vedeva in questo popolo un potenziale di libertà future. Rosmini un vestigio del provvidenziale passato e segni incoraggianti della maestà e sapienza e potenza della religione. Belli una realtà più viva e più complessa, dove «spiccano le più strane contraddizioni». nelle quali bisognava immergersi: «ma il popolo è questo (diceva nella Introduzione); e questo io ricopio non per produrre un modello, ma sì per dare un'immagine fedele di cosa già esistente, e, più, abbandonata senza miglioramento».

La consapevolezza che proprio questo popolo, nonostante tutto, era detentore di una parte di «lumi», non solo fa del Belli un uomo ideologicamente moderno e avanzato, ma un poeta convinto della necessità di cacciarsi dentro a un «idiotismo continuo» (come egli diceva nella Introduzione) per sollecitare fin nel dialetto le potenziali forze di espressione liberatrice e far conflagrare queste contraddizioni, pur limitandosi a far «dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera», e lasciando ai margini, ad eccezionali sonetti, qualche fievole speranza di cose venture, difficilmente fondabile in un così buio presente.
Adorno ha ragione, in linea di massima, quando afferma «nulla di più reazionario che contrapporre i dialetti popolari alla lingua scritta». Ma nulla di più reazionario v'è che contrapporre questa a quelli, senza vedere l'osmosi reale che nutre continuamente il «basso» e «l'alto» di una cultura, per lento e ritardato che possa esserne il processo. Ci piaccia o no il Belli era persuaso che questa affamata e miserabile plebe romana poteva vantare un privilegio che le dava la sua stessa condizione sociale rispetto alle stesse classi:


fra noantri soli
se pò ttrovà la verità sfacciata.



Le convenzioni sociali hanno imposto ai volti della gente «aricamata» una faccia che è come una maschera d'ipocrisia, onde i muscoli si contraggono e si frenano dissimulando, e si uniformano nella «immobilità comandata dalla civile educazione». La classe «allevata» è come paralizzata dall'impossibilità di esprimere il vero. Perciò «pijja sempre li sceci pe ffacioli». Perciò è ridotta al buffo destino immobile dei burattini.
Belli era idealmente convinto col suo Bourguignon d'Herbigny che ormai le ultime classi della società capissero l'essenza di tutto ciò che le opprimeva ed esistevano opinioni che erano «il prodotto dei lumi, dei sentimenti, del genio, e della ragione dei popoli». Grazie a questa consapevolezza la plebe può arrivare alla verità attraverso le vie meno consuete, e pronunciare la sua protesta e il suo giudizio. Per questo Belli l'aveva portata in massa sulla scena dei suoi Sonetti. A chi mi chiedesse (rispondeva al principe Gabrielli) perché abbia io dunque in altri tempi impiegata la mia penna in simiglianti lavori, risponderei mio intento noti essere già quello di fissare in carta una lingua a cui meritatamente manca in Italia un posto, ma sí unicamente d'introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo cosí egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo.
Questa plebe che occupa il fondo della piramide e da lì giudica chi sta in alto e le sta sopra, è un'idea centrale della concezione da cui è partito Belli. E non meraviglia che c'insista anche trenta anni dopo la sua Introduzione.

Da questo grandioso complesso di superiorità, un complesso non individuale ma collettivo, non psicologico ma di classe, deriva per Belli una concezione del comico che è potentemente rivendicatrice di naturali diritti soppressi, di una umana dignità conculcata, di una ragione ottenebrata dalla mitologia cristiana. Perciò i potenti sono sconsacrati ed umiliati, ricacciati in una sfera negativa:


Per èsse bbuffo abbasta esse signore.


E se sono riammessi a partecipare all'unità inscindibile del genere umano, vi partecipano solo in quanto personaggi comici, dove l'uguaglianza è ristabilita al livello più basso di chi parla e giudica e «comprende» in sé qualche cosa che tradizionalmente era alto e che finalmente è ora umiliato in una perenne quotidiana universale commedia la cui scena è tutta una città, dove ognuno sarà attore e sosterrà la sua parte, da Dio al diavolo, dal poeta al Papa, dal becchino al nobile.
No, non c'è nei sonetti un poeta che si accosta «al piccolo mondo degli infimi con la sua grande sensibilità dolente e ricettiva» (come si è lasciato dire il Vigolo in un momento poco felice).
Pur prevedendo una vita destinata a «scorrere e terminare ignuda di gloria» (come scriveva nella famosa lettera alla Roberti), pur con dannato alla umiliazione quotidiana della clandestinità, conscio di dover essere solo «er sor chi s'annisconne perché piove» (son. 587) Belli porta al massimo di libertà e di consapevolezza le qualità che egli crede di avere comuni con il suo popolo, su di un piano di assoluta eguaglianza realizzato almeno nella poesia: «Noantri».
Anche lui (come diceva dei primi cristiani) fa «a nisconnarello pe la fede» (la fede nel vero), accettando la sua difficile condizione di testimone, prima che di poeta.

Era un mondo tenebroso e al declino, che in privato sprofondava «ner pozzo de li morti», altrettanto onorati e innalzati, quanto i vivi erano umiliati ed offesi:


A sto paese tutti li penzieri,
Tutte le lòro carità ccristiane
Sò ppe li morti; e appena more un cane
Je se smoveno tutti li bbraghieri.
E ccataletti, e mmoccoli, e incenzieri,
E asperge, e uffizi, e mmusiche, e ccampane,
E mmesse, e ccatafarchi, e bbonemane,
E indurgenze, e ppitaffi, e ccimiteri! . . .
E intanto pe li vivi, poveretti!,
Gabbelle, ghijjottine, passaporti,
Mano-reggie, galerre e ccavalletti.
E li vivi poi-poi, bboni o ccattivi,
Sò cquarche ccosa mejjo de li morti:
Nun fuss'antro pe cquesto che ssò vvivi.



Contro la mortificazione regnante, con un incorrutibile anelito sconquistare ogni giorno più luce al suo sguardo, qui Belli volle erigere il suo monumento alla vita:


Vojjo un lume de pp iù ffin che sto ar monno,
e una torcia de meno ar cataletto.



Qui, dove:


li preti cor loro incenziere
un coll'antro s'accecheno de fume,



dove si continuava lo spaccio scettico delle più assurde reliquie, egli che aveva ancor fede nella luce deistica d'una religione naturale e immortale, contrapponeva (mi si permetta di adoperare emblematicamente anche altri suoi versi:


er moccolo che aveva a la lenterna
Dio quanno accese er zole, e ppoi je disse:
«Va, illumina chi sserve e chi ggoverna»
.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis