CRITICA: IL SEICENTO

 GABRIELLO CHIABRERA

 AUTORE: Domenico Petrini    TRATTO DA: Dal Barocco al Decadentismo

 

Tutta questa produzione lirica, uscita dal ritorno umanistico ai classici e dal rinsaldamento della personalità del Rinascimento, andrà guardata non con a fronte l'ideale d'una poesia in cui un sentimento si crei intorno la commossa e pur conclusa risonanza della parola che si fa canto ma come un'espressione a volta a volta agitata ed eloquente di un'umanità che esprime per essa il suo ideale di vita: come oratoria e non come poesia. Un'oratoria il cui continuo pericolo, ma anche spesso evitato, è di finire letteratura: ma che talora, spesso, ha una voce sua.

Guardiamo Chiabrera: in lui tutto il gusto dell'età sua: nelle canzoni, mitologia avant toute chose: ma anche Bibbia, come voleva Tasso e come aveva fatto Herrera per Lepanto e come farà Filicaia per Vienna; la vita contemporanea, levata al livello dell'antico ha un'esaltazione eroica in cui l'umano perde ogni original forma di vita e si disfa nel mito.
Spigoliamo:

 

Viva perla dei fiumi,
Dora, che righi umìl la nobil reggia,
ove eterna fiammeggia
bella virtù de' più splendidi lumi,
ed ove ai cari suoi
addita il sol degl'immortali eroi.


È la poesia che canta l'eroe: tutto ciò che di contingente possa esserci è nel titolo a Emanuele Filiberto: ma qui nella canzone non c'è e non può esserci che la « virtù » che mostra ai suoi cari il « sole » degli eroi. Il poeta finora è lontano: è un elogio anonimo, è la voce della gente, della nazione, che par quasi accennarsi nel ricordo della Dora.
E veramente l'ingresso del poeta è trionfale:

 

come saetta al segno
al dolce suon de' tuoi cristalli io volo:
né taciturno il volo
porto dentro i confin del tuo gran regno;
ma scelsi aurea corona
inimica di morte in Elicona.


È il poeta che sa che il canto fa immortali

 

... il bel fior della gloria,
domatrice del tempo e degli affanni,
sfavilla in quelle cime,
ove poca orma piè mortale imprime.


Poesia che si allontana orgogliosamente dal volgo e si ritira in un cielo più veramente suo.
E spontanea, naturale ricorre alla memoria la lontana impresa mitologica:

 

Ma pur viltà non prese
il cavalier che di Medea fu sposo;
ei di rapir bramoso
del sacro Frisso il peregrino arnese,
sparse le vele ardite
per gl'inospiti campi d'Anfitrite.


Non è il passato che risorge nostalgico dai secoli più lontani o dalla fantasia dell'uomo al desiderio del poeta: è il passato in cui il presente si riconosce più vivamente sé stesso, perché più grande. Guardate: i colori dell'impresa di Giasone non sono quelli della poesia che risogna (audacia dei lontani mari: sono quelli della grandezza stessa dell'eroe d'oggi: «bramoso», «le vele ardite», «gli inospiti campi».
Nonostante tutti i precetti pindarici confessati, volutamente e ingenuamente confessati nell'Autobiografia e nel Vecchietti, nel Geri, nell'Orzalesi, nel Bamberini, i suoi dialoghi dell'arte poetica, in Chiabrera il richiamo del mito è sempre momento dell'elogio: un trapasso di motivi per cui si esaltano, dicendole di eroi lontani, le virtù dell'eroe d'oggi.
Un critico che di Chiabrera s'è occupato a lungo, Mannucci, ha creduto di poter trovare confessata la fondamentale falsità di questa lirica in talune parole dell'Autobiografia: « Di Pindaro si meravigliò, e prese ardimento di comporre alcune cose a sua somiglianza ».

Ma è che qui siamo proprio al centro di una poetica umanistica, per cui l'arte è soprattutto fatta di studio e di volontà: non sarebbe difficile riconoscere lo stesso spirito nella Deffence et illustration de la langue francoise di Du Bellay: e facile addirittura richiamare Dante con la sua distinzione, cui teneva ad oltranza, di coloro che verseggiano «caso » e coloro che scrivono «arte».
E la confessione non può significare quel che vuole Mannucci, per la poesia: è l'orgoglio più bello del poeta questo di aver voluto e di aver saputo quel che la sua poesia attuava.
Intorno a nobili eroi e a grandi gesta la canzone eroica di Chiabrera è sempre elogio:

 

Nobile pianta altera
svelta da' nembi, e doma
sul fior di primavera;
forte sostegno e rocca alta di Roma,
folgoreggiata a terra
con lagrimevol guerra.


È Fabrizio Colonna morto navigando in Ispagna per la guerra del Portogallo: non manca qualche commozione nel trapasso tra la gloria passata e la misera fine: con un che di epicamente sonante anche in questa non grande morte: c folgoreggiata », come i Titani nell'assalto al cielo. E talora esaltazione piena, sonante:

 

Chi dunque meta, o Livian, prescrive
nel ciel di Marte al tuo gran nome alato,
se tu raccogli altero
dalle sventure i vanti,
né più che al verno antica rupe alpina,
a sorte avversa il tuo valor consente?
Te dentro il sangue, te nell'armi ardente,
quasi orribile tuon, fama descrive;
te l'alta Senna inchina,
te il Parto faretrato,
te dell'Istro nevoso ancor tremanti
i gorghi, e i gorghi del superbo Ibero.


Ecco la terra e il mare che s'inchinano dinanzi all'eroe che passa: l'insistenza dei richiami ai più lontani paesi, e Francia e Oriente e Ungheria e Spagna, si associa e si fonde con quello di Bartolomeo Alviano, il generale veneziano di Agnadello e Marignano: «Te,... te,... te ».
Con che io non voglio oppormi né a Carducci né a De Sanctis, che si incontrarono a riconoscere in Chiabrera un letterato dalle velleità pindariche in un'età che di pindarico nulla ebbe, né a Croce che ha trovata arida e stentata la sua « maggiore » poesia: ma vorrei solo che ci si potesse in qualche modo render ragione del come Leopardi riuscisse
a sentire così il Chiabrera : « Fu ardito caldo veemente urtantesi nelle dose, ardito nelle voci nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme così de' sentimenti... come delle parole ».

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis