Tutta questa produzione lirica, uscita dal ritorno umanistico
ai classici e dal rinsaldamento della personalità del
Rinascimento, andrà guardata non con a fronte l'ideale d'una
poesia in cui un sentimento si crei intorno la commossa e pur
conclusa risonanza della parola che si fa canto ma come
un'espressione a volta a volta agitata ed eloquente di
un'umanità che esprime per essa il suo ideale di vita: come
oratoria e non come poesia. Un'oratoria il cui continuo
pericolo, ma anche spesso evitato, è di finire letteratura: ma
che talora, spesso, ha una voce sua.
Guardiamo Chiabrera: in lui tutto il gusto dell'età sua: nelle
canzoni, mitologia avant toute chose: ma anche Bibbia, come
voleva Tasso e come aveva fatto Herrera per Lepanto e come
farà Filicaia per Vienna; la vita contemporanea, levata al
livello dell'antico ha un'esaltazione eroica in cui l'umano
perde ogni original forma di vita e si disfa nel mito.
Spigoliamo:
Viva perla dei fiumi,
Dora, che righi umìl la nobil reggia,
ove eterna fiammeggia
bella virtù de' più splendidi lumi,
ed ove ai cari suoi
addita il sol degl'immortali eroi. |
È la poesia che canta l'eroe: tutto ciò che di contingente
possa esserci è nel titolo a Emanuele Filiberto: ma qui nella
canzone non c'è e non può esserci che la « virtù » che mostra
ai suoi cari il « sole » degli eroi. Il poeta finora è
lontano: è un elogio anonimo, è la voce della gente, della
nazione, che par quasi accennarsi nel ricordo della Dora.
E veramente l'ingresso del poeta è trionfale:
come saetta al segno
al dolce suon de' tuoi cristalli io volo:
né taciturno il volo
porto dentro i confin del tuo gran regno;
ma scelsi aurea corona
inimica di morte in Elicona. |
È il poeta che sa che il canto fa immortali
... il bel fior della gloria,
domatrice del tempo e degli affanni,
sfavilla in quelle cime,
ove poca orma piè mortale imprime. |
Poesia che si allontana orgogliosamente dal volgo e si ritira
in un cielo più veramente suo.
E spontanea, naturale ricorre alla memoria la lontana impresa
mitologica:
Ma pur viltà non prese
il cavalier che di Medea fu sposo;
ei di rapir bramoso
del sacro Frisso il peregrino arnese,
sparse le vele ardite
per gl'inospiti campi d'Anfitrite. |
Non è il passato che risorge nostalgico dai secoli più lontani
o dalla fantasia dell'uomo al desiderio del poeta: è il
passato in cui il presente si riconosce più vivamente sé
stesso, perché più grande. Guardate: i colori dell'impresa di
Giasone non sono quelli della poesia che risogna (audacia dei
lontani mari: sono quelli della grandezza stessa dell'eroe
d'oggi: «bramoso», «le vele ardite», «gli inospiti campi».
Nonostante tutti i precetti pindarici confessati, volutamente
e ingenuamente confessati nell'Autobiografia e nel Vecchietti,
nel Geri, nell'Orzalesi, nel Bamberini, i suoi dialoghi
dell'arte poetica, in Chiabrera il richiamo del mito è sempre
momento dell'elogio: un trapasso di motivi per cui si
esaltano, dicendole di eroi lontani, le virtù dell'eroe
d'oggi.
Un critico che di Chiabrera s'è occupato a lungo, Mannucci, ha
creduto di poter trovare confessata la fondamentale falsità di
questa lirica in talune parole dell'Autobiografia: « Di
Pindaro si meravigliò, e prese ardimento di comporre alcune
cose a sua somiglianza ».
Ma è che qui siamo proprio al centro di una poetica
umanistica, per cui l'arte è soprattutto fatta di studio e di
volontà: non sarebbe difficile riconoscere lo stesso spirito
nella Deffence et illustration de la langue francoise di Du
Bellay: e facile addirittura richiamare Dante con la sua
distinzione, cui teneva ad oltranza, di coloro che verseggiano
«caso » e coloro che scrivono «arte».
E la confessione non può significare quel che vuole Mannucci,
per la poesia: è l'orgoglio più bello del poeta questo di aver
voluto e di aver saputo quel che la sua poesia attuava.
Intorno a nobili eroi e a grandi gesta la canzone eroica di
Chiabrera è sempre elogio:
Nobile pianta altera
svelta da' nembi, e doma
sul fior di primavera;
forte sostegno e rocca alta di Roma,
folgoreggiata a terra
con lagrimevol guerra. |
È Fabrizio Colonna morto navigando in Ispagna per la guerra
del Portogallo: non manca qualche commozione nel trapasso tra
la gloria passata e la misera fine: con un che di epicamente
sonante anche in questa non grande morte: c folgoreggiata »,
come i Titani nell'assalto al cielo. E talora esaltazione
piena, sonante:
Chi dunque meta, o Livian, prescrive
nel ciel di Marte al tuo gran nome alato,
se tu raccogli altero
dalle sventure i vanti,
né più che al verno antica rupe alpina,
a sorte avversa il tuo valor consente?
Te dentro il sangue, te nell'armi ardente,
quasi orribile tuon, fama descrive;
te l'alta Senna inchina,
te il Parto faretrato,
te dell'Istro nevoso ancor tremanti
i gorghi, e i gorghi del superbo Ibero. |
Ecco la terra e il mare che s'inchinano dinanzi all'eroe che
passa: l'insistenza dei richiami ai più lontani paesi, e
Francia e Oriente e Ungheria e Spagna, si associa e si fonde
con quello di Bartolomeo Alviano, il generale veneziano di
Agnadello e Marignano: «Te,... te,... te ».
Con che io non voglio oppormi né a Carducci né a De Sanctis,
che si incontrarono a riconoscere in Chiabrera un letterato
dalle velleità pindariche in un'età che di pindarico nulla
ebbe, né a Croce che ha trovata arida e stentata la sua «
maggiore » poesia: ma vorrei solo che ci si potesse in qualche
modo render ragione del come Leopardi riuscisse
a sentire così il Chiabrera : « Fu ardito caldo veemente
urtantesi nelle dose, ardito nelle voci nelle locuzioni nelle
costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme così de'
sentimenti... come delle parole ». |