CRITICA: IL SEICENTO

 LE TRAGEDIE DI FEDERICO DELLA VALLE

 AUTORE: Benedetto Croce    TRATTO DA: Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento

 

Di scrittori assai meno pregevoli di Federigo della Valle si possono leggere notizie biografiche e bibliografiche circostanziate; ma egli è appena mentovato nelle opere dei nostri eruditi, e anzi (oltre del Quadrio che reca il nudo titolo di alcune sue opere) dal solo Crescimbeni, che lo dice « romano », e con questa falsa indicazione mi ha fatto perder tempo a ricercare il nome di lui nel Mandosio, nell'Allacci e in altri catalogatori degli scrittori romani del seicento...

Non era romano ma piemontese, e propriamente astigiano, come è qualificato nel frontespizio di una sua opera postuma, ignota al Quadrio, l'Adelonda di Frigia, pubblicata dal nipote Federico Parona. E poiché di questa tragedia è detto che, « rappresentata agli occhi della Serenissima Infanta (che sia in Cielo!) ebbe la fortuna di piacere », cioè alla presenza di Caterina d'Austria, moglie di Carlo Emanuele I, la quale morì nel 1597; e poiché del 1589 era un Ragionamento in cui il Della Valle metteva innanzi l'idea che, ucciso Enrico III di Valois, al trono di Francia dovesse esser chiamato appunto il duca di Savoia; e poiché egli già aveva composto per le nozze ducali (I585) alcune ottave «nella venuta di Spagna della Serenissima Infante Duchessa di Savoia », ossia poiché alcuni anni prima del 1590 lo si vede in piena attività di poeta e di scrittore alla corte dei Savoia, la sua nascita si deve porre congetturalmente intorno al 1565, e forse un po' prima. Anche alla corte dei Savoia richiama una sua cantata per una festa data da Carlo Emanuele I, col titolo Ordine della mascherata Belli Quattro elementi, che si serbava manoscritta; e, d'altronde, il nipote, nella dedica a quel principe nell'opera postuma, insiste che il Della Valle fu «suo suddito» e sugli « obblighi infiniti » che esso e lo zio avevano « alla real grandezza » di lui. Senonché negli ultimi suoi anni il Della Valle doveva occupare qualche ufficio in Milano, dove lo vediamo nei solenni funerali per Filippo III di Spagna recitare l'orazione, e un'altra simile orazione tenere nelle esequie della duchessa di Feria, donna Francesca di Cordova Cardona. A Milano mise in stampa, in decorose edizioni, le sue opere principali, cioè le sue tragedie: nel 1627, la Judith e l'Esther, dedicate all'«Altissima Reina de' Cieli », con una lettera firmata « fattura del tuo gran Figlio, Federigo »; nel 1628, la Reina di Scotia, dedicata a papa Urbano VIII, con una lettera in cui ricorda l'epigramma che questi, giovanissimo aveva dettato per quella regina e che fu preposto alla vita di lei, scritta dal Coneo. Dové morire poco dopo aver licenziato per la stampa quest'ultima tragedia (donde forse la nessuna divulgazione dell'opera e l'estrema rarità); giacché il nipote lo dà come già morto nella dedica dell'Adelonda, datata da Torino, 13 gennaio 1629, nella quale si dice anche che non altro di lui era restato nell'eredità al nipote che «questo poema».
Sul quale poema o « tragicomedia », che è cosa giovanile, sebbene non priva di garbo, e che, riecheggiando l'Ifigenia in Tauride, drammatizza l'affannosa e lieta vicenda di Adelonda, - rapita allo sposo e fatta sacerdotessa di sacrifici umani nel regno delle Amazzoni, alla quale è recato preso, perché lo sacrifichi, il re suo sposo, e i due riescono a fuggire insieme, onde poi il Dio impone alle Amazzoni la fine dei riti crudeli, - non mi fermerò, come farò invece sulle tre tragedie, che mi paiono tra le più serie e commosse di quel secolo...

Sono esse, tutte e tre, di sacro argomento, ché tale può considerarsi anche quella sulla Stuarda, campione e martire della fede cattolica nella grande lotta allora impegnata tra cattolicesimo ed eresia, e della quale allora si drammatizzavano non la bellezza e gli amori, ma la pietà e la fortezza: simili perciò a sacre rappresentazioni. E nondimeno, se questa ideologia religiosa ne forma lo sfondo, vi sono uniti e fusi altri elementi. Come in quasi tutte le tragedie del seicento, non piccola parte vi hanno le figurazioni e le considerazioni politiche: ché ortodossia e politica erano i costanti oggetti dei pensieri di quel tempo. Nella Judith è studiata accuratamente la figura di Vagao, il cortigiano di Oloferne che si presta a fargli da mezzano in avventure erotiche, e, nel prendere di tali incarichi, dice di sé stesso:

 

Vagao felice, quattro volte e sei
Vagao felice, or chi a me s'agguaglia?
Io son lo sputo e 'I cuore,
son l'alma, anzi dirò, sono il signore
del mio proprio signore.
Ebbero i pié catena
di servo; or ha la testa aurea corona
di signoril impero.
Regna, commanda, volve
a suo voler ministri, onori et oro,
tutto ottien, tutto dona
servo che ad esser giunge messaggiero,
ad esser consigliero,
nei gusti e negli amori
dei principi signori.


Al che assente il coro:

 

S'è pur vero
quel ch'udii dir sovente
a sagge lingue accorte:
« Secretario d'amor, re de la corte! ».


Anche vi si vede il contrasto tra siffatta genia di cortigiani, e gli uomini leali, i guerrieri, come Arimaspe, che invano cerca di persuadere Oloferne, ebbro di godimenti, a dar pronto assalto alla vacillante Betulla. Gli si oppone Vagao, e quegli esclama:

 

Vegghia, affatica, suda,
avvéntati fedele, anzi voglioso,
ai sassi, ai dardi, ai fochi,
a disfidare, ad assaltar la morte.
Chi darten dee mercede
farà al fin che ti chiuda
servo inutile indegno
sovra gli occhi le porte.
Oh sciagure dei regni!
Commanda, impera e temeraria volve
nobili, illustri, forti, saggi, eccelsi
testa che s'accompagna, anzi pur serve
a servo vil, ch'anco vilmente serve.
Oh corone gemmate!
chi vi trovò, volse coprir difetto
di teste, da fortuna coronate,
ma dal sen di natura a servir nate!


Nell'Esther, dà occasione a simile studio la figura del potentissimo ministro Amari, reso insolente dalla fortuna, più insolente dai consigli della moglie, invano ammonito dal savio e onesto amico Dagar, che scorge il pericolo dell'alto grado a cui quegli è salito, e prevede la catastrofe e la rovina, non secondando la sua fiduciosa baldanza nell'amore che il re ripone in lui c nella compartecipazione che gli fa di ogni secreto:

 

. . . . . . . . . . dei Re il volere,
come vuol che 'I servir mai non si chiami
volontario, donato,
ma devuto, obligato, tal quel ch'essi
danno di grazia e premi
voglion si stimi solo
frutto di propria voglia o di boutade,
non d'obbligo giamai e men d'amore:
forse perché l'amar par c'abbia insegna
d'ubidire e servir, contrari entrambi
et avversi a l'impero;
così il nome d'amor dal regio core
par che s'aborra e sdegni; indi odio acquista
servo ch'a dir s'avanza: I' sono amato,
son caro al re, son grato...


E alla moglie di Amali, che non crede vera questa teoria, egli risponde assimigliando i re per l'appunto alle donne:

 

La medesima voglia,
Zares, pregiata donna, in te medesma
forse ritroverai;
o almen non negherai, che 'n altre molte
non si trovi sovente.
Amar volete e dar segno d'amore;
pur v'é noia e spiacer ch'altri poi dica:
- M'ama colei o brama
di far i piacer miei...


Nella Reina di Scotia è rappresentata la politica senza scrupoli di Elisabetta e dei suoi consiglieri, che calpestano ogni diritto e ogni giustizia per conseguire il fine dell'ambizione e dell'utile loro, e che tentano d'indurre ingannevolmente Maria Stuarda, già da essi destinata a morte, a rinunciare al regno e ad accettare le novità religiose in Iscozia, per disonorarla prima di ucciderla.

Ma neppure questa ideologia della ragion di stato e di corte è dominante nelle tre tragedie, le quali perciò non si configurano in tragedie politiche, né in opere di didascalica politica. Il Della Valle sente il dramma umano, con strazio, con pietà, con gentilezza, con ammirazione per le prove della virtù in tutte le sue forme. Nel primo piano, sono la nobiltà e il coraggio di Judith, la bontà e la dolcezza di Esther, la tristezza; la nostalgia, lo sconforto, la rassegnazione di Maria Stuarda: tre figure femminili amorosamente disegnate; e intorno a loro l'affanno delle anime fedeli e, di contro, la superbia e la rozzezza degli uomini orgogliosi e violenti. C'è, in queste tragedie, un che di schietto, che viene dalla mente e dal cuore del loro autore, e spesso la parola prende accento lirico e poetico. L'azione si svolge senza episodi e altre cose superflue, nutrita di sé medesima.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis