CRITICA: IL SEICENTO

 L'ARISTODEMO DEL DOTTORI

 AUTORE: Franco Croce    TRATTO DA: Carlo de' Dottori

 

Il Dottori è giunto a una maturità letteraria e morale dal di dentro dei miti della sua età, dal di dentro del gusto secentesco. Le sue passioni, che erano quelle puntigliose e superbe di un rissoso gentiluomo, si sono venute affinando attraverso la retorica. È stato il vagheggiamento letterario di vari squisiti sentimenti che ha irrobustito in lui la forza del cuore, ha nutrito le sue passioni in una evoluzione che da un incontro ancor acerbo tra slanci biografici e facili schemi idealistico-eroici, quale quello dell'Alfenore, è giunta alla commozione più limpida e sincera dell'episodio di Desmanina. Anche l'esperienza di vita reale più educatrice della sua moralità, la ribellione contro la violenza dei bravi, ha avuto bisogno per esprimersi dell'appoggio di miti letterari, l'antica gloria padovana da un lato (il giudice Peto Trasea), la virtù dei padroni dall'altro. L'umanità del Dottori è stata conquistata insomma nella letteratura e con questo carattere passa nell'Aristodemo. Non è possibile perciò gustare quella poesia se non accettando l'impalcatura oratoria su cui essa si regge.
È stato questo il più grosso limite alla fortuna critica dell'Aristodemo: dalle proteste del Martello per la voluta concettosa dei dialoghi sino all'incomprensione del Bertana che s'infastidiva degli alti discorsi di Merope, è stata l'avversione pratica, di gusto, dei vari critici per il mondo stilistico e sentimentale attraverso cui si manifesta la poesia della tragedia, a impedire un pieno riconoscimento dei valori estetici da essa raggiunti.
Guai infatti a voler ridurre a una elementare vita affettiva i personaggi dell'Aristodemo senza tener conto del patrimonio oratorio di cui - ci piaccia o no - questa vita affettiva si alimenta; guai a pretendere per esempio (come faceva il Bertana) di riconoscere in Merope « una semplice fanciulla innamorata ». Merope non è né può essere una « semplice fanciulla ». È una complessa figura morale che raggiunge nei momenti suoi più intensi accenti di semplicità a conclusione di una lunga dialettica tutta intessuta di raffinati miti sentimentali e non per un immediato slancio passionale, alla stessa maniera che il suo creatore ha raggiunto la pienezza affettiva dell'Aristodemo non in una solitaria esplosione lirica, ma a conclusione di una lunga educazione letteraria.

E per comprendere a pieno quella conquistata semplicità bisogna ripercorrere il processo che in essa si conclude e che le crea intorno come un armonico spazio vibrante. Proprio le parole di Policare (« e fin tanto ch'io sono uomo e non ombra - piango le cose umanamente amate »), che più d'ogni altra nell'Aristodemo piacevano al Bertana, non sono pienamente gustabili nella loro accorata intensità (che li fa qualche cosa di ben più vivo che un'isolata nobile massima) se non riportate nel dialogo nutrito di ingegnosa e commossa casistica d'amore (e a suo modo, come rimproverava il Bertana, di « filosofia stoica », di « raffinata retorica », di « patetica letteratura tragica»), da cui nascono, di cui sono il culmine e della cui troppo sottile elevatezza rappresentano insieme - con la loro difesa dell'umanità - una correzione, quasi a simbolo della più generale capacità correttiva della poesia nei riguardi dell'oratoria da cui sorge.
L'Aristodemo, per la sua origine, per la sua indelebile impronta seicentesca, richiede insomma al lettore non un gretto interesse per una immediata concretezza psicologica, ma un'esaltazione per un mondo di eletti ideali (contro i quali più che contro le immediate passioni urta la violenza della catastrofe).
Se si vuole infatti cogliere veramente il ritmo fondamentale della mossa struttura della tragedia, non basta sottolineare (ondeggiare della « malsicura speme » nella lunga lotta con la morte che guida le azioni e le parole dei personaggi. Se così fosse, a rigor di termini il linguaggio risentito della tragedia sarebbe come un'aggiunta a un contenuto (l'ansia di fronte alla morte) abbastanza lineare e quindi in qualche modo sarebbero validi i rimproveri dei vecchi critici alle forme « troppo liriche », non linearmente drammatiche, del Dottori. Ma così in realtà non è.

In realtà invece i personaggi della tragedia, animati da vari desideri, lottano sì (« con malsicura speme », come ha visto il Lo Priore) contro le oscure forze minacciose che ai loro desideri si oppongono, ma in questa tensione non si esaurisce il loro dramma. Di là dai loro desideri, di là dall'amore di Policare, dalla volontà di sacrificio di Merope, di potere di Aristodemo, è nelle figure della tragedia una comune aspirazione a muoversi su un piano eletto ed eroico, a rapprendere i loro slanci affettuosi in gesti ideali; di là da un dramma genericamente umano, che nella particolare poesia del Dottori, sarebbe incapace di esprimersi, è un dramma tipicamente seicentesco, il dramma dell'alterezza, dell'aspirazione all'eroismo, che è il solo a muover profondamente la moralità dello scrittore, nutrita di retorica seicentesca.

Policare soffre, più che per il suo desiderio deluso, per il suo sforzo frustrato di esser degno di Merope, di riscattare l'umanità più normale del suo sentire nell'eroico rifiuto della rassegnazione; e Merope vuole sacrificarsi ma vuole nel sacrificio esser pari all'alta immagine che ha di sé, degna della sacralità che la morte le ha circonfuso intorno; e Aristodemo stesso può in qualche modo non sentirsi del tutto sconfitto quando la meta della sua passione sembra sfuggirgli purché egli resti in una sfera di eroico sentire («Di chi sarò, non sarò vile. È degno - di tanta gara Aristodemo o giusto - o scelerato purché invitto e grande»). Il vagheggiamento oratorio di magnanimi sentimenti è quindi l'anima dei personaggi, non una loro marginale qualità e di esso le forme risentite sono la naturale risultante stilistica.
Proprio per questo Merope è la più alta delle invenzioni del Dottori; perché il desiderio che la fa vibrare (la volontà di sacrificio) è, anche nel suo iniziale contenuto psicologico, un sentimento già tutto eroico e a suo modo oratorio, è già tutto atteggiato all'esaltazione concettosa in cui si svolgerà nella concreta pagina del Dottori. Proprio per questo la figura più incerta è Aristodemo che ha delle componenti psicologiche (il calcolo politico accanto alla sete di gloria) non riassorbibili nella raffinata elevatezza in cui soltanto il Dottori si muove sicuro e in cui é anche il principale limite della sua voce di poeta.
Sarebbe un limite, oltre che di capacità d'invenzione fantastica, anche di umanità, se di quest'esaltazione eroica il Dottori rappresentasse solo gli slanci (fosse cioè fermo nella morte vittoriosa di Desmanina) e non l'amara sconfitta, nella quale le ragioni di una più media umanità dolorante hanno il sopravvento alla conclusione di un'inarcatura di eroismo barocca che è però essenziale alla loro vera resa poetica. In questo senso, l'Aristodemo, come è la celebrazione dell'amore barocco per il gran gesto (e ne ha il colorito linguaggio), così è anche il suo superamento (e non può dirsi perciò interamente un'opera secentistica); è la poesia dell'alterezza fondamentale dell'animo risentito dello scrittore e insieme la poesia della crisi di quell'alterezza.

Il Dottori è per questa sua complessità non tanto vicino alla monocorde letteratura barocca, alla monocorde voluttà e arguzia dei marinisti, o magari alla monocorde austerità dell'ultimo Tasso e del Della Valle, quanto proprio alla poesia del Tasso maggiore, in cui si indicavano nuovi slanci sentimentali e in cui insieme se ne consumava la patetica sconfitta. C'è però di mezzo l'esperienza esteriorizzatrice delle tensioni tutte svolte del Seicento; i due poli non sono più come nel Tasso fortemente vicini (il sogno che sorge, il sogno che sfuma) e capaci d'animare se non l'intero poema almeno nuclei poetici molto limpidi e compatti; nel percorso più ampio e men raccolto e sfumato, più dispersivo, cui si salda la poesia del Dottori, s'accumula perciò una serie ben più ingombrante di scorie oratorie, che non impediscono il raggiungimento di pieni risultati (sicché aveva ragione il Croce a protestare contro una inutile e ingenerosa attenzione ai « difetti » dell'Aristodemo), anzi spesso creano - come già accadeva nelle parti solo letterarie della Gerusalemme - lo spazio in cui le pagine più alte della tragedia acquistano la loro luce migliore. Le scorie oratorie tuttavia sono pur sempre il segno, rispetto al Tasso d'una minore ricchezza culturale e anche d'una minore forza fantastica ed offrono perciò la chiave per la giustificazione storica della difficile fortuna di questa bellezza così faticosamente conquistata dentro alle ricerche, altrove così sterili, della letteratura barocca.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis