CRITICA: IL SEICENTO

 LA PREARCADIA FIORENTINA E IL REDI

 AUTORE: Walter Binni    TRATTO DA: La rassegna della letteratura italiana

 

Nella formazione della poetica arcadica, su cui rimangono fondamentali le osservazioni del Croce e del Fubini con la loro interpretazione storica del fenomeno arcadico liberato dalle diagnosi polemiche preromantiche e romantiche e valutato nel suo essenziale significato di una ricostituzione della tradizione letteraria, di una nuova attenzione alla dignità e organicità dell'espressione, sollecitata dagli stimoli della nuova cultura razionalistica, mi sembra che debba essere convenientemente calcolata l'importanza particolare della letteratura e della cultura fiorentina di fine Seicento. Certo le caratteristiche del rinnovamento del «buon gusto» e la maggiore ricchezza e organicità di una poetica che si articola entro una complessa problematica di cultura e di pragmatiche proposte teoriche, con le diverse interpretazioni della tradizione italiana, con i diversi esempi di modelli, con il generale richiamo al culto dei classici in contrasto con la poetica barocca, con la distinzione manfrediana del linguaggio poetico da quello prosastico, con le importanti discussioni sui rapporti fantasia-ragione, che implicano possibilità feconde di nuovi pensieri estetici attivi ed efficaci, in Italia e fuori, nello svolgimento della letteratura settecentesca, meglio si possono cogliere in anni più tardi, quando i diversi elementi locali di cultura antibarocca si unificano nella repubblica letteraria di Arcadia e una più precisa coscienza del rinnovamento arcadico corrisponde a più precise e feconde formulazioni teoriche, a cui i letterati toscani di fine Seicento non portano veri contributi rimanendo su di un terreno più empirico ben lontano dalla complessità e profondità di interessi estetici e filosofici di un Gravina o di un Muratori.

E tuttavia avendo ben chiaro tale limite, penso che nel distacco dal gusto barocco e nella fase di formazione della poetica arcadica, proprio nella direzione di un nuovo contatto con la tradizione italiana e classica e soprattutto nelle condizioni di una reazione concreta anche se poco conclamata e poco approfondita esteticamente, nell'incontro fra un senso non barocco della cultura e della vita, fra esigenze di aderenza alla realtà e di razionale chiarezza, di fedeltà alla verità scientifica in un assiduo impegno sperimentale ed esigenze letterarie e linguistiche di correttezza, comprensibilità, di ragionevole e socievole comunicabilità, di organico accordo fra cose e parole, di continuità e compiutezza dell'espressione letteraria (tutte qualità che saranno caratteristiche nello sviluppo della poetica arcadica), l'attività dei letterati toscani di fine Seicento debba considerarsi di grande importanza calcolando sia lo scambio attivo fra quel centro culturale e altri centri antibarocchi come Milano, nelle relazioni Redi-Maggi, sia l'attiva presenza, diretta e indiretta del Menzini del Filicaia nella Accademia reale di Maria Cristina e poi nella vera Arcadia e nel calcolo diplomatico e pragmatico del Crescimbeni, nel quadro eclettico ed accogliente della sua riforma: anche se in quella prevarrà, accanto alle esigenze più alte e neoclassiche del Gravina (operanti più in profondo e solo parzialmente assimilate da Metastasio e Rolli), la linea del petrarchismo riformato con il rilievo brillante del Di Costanzo e il gusto melodrammatico-miniaturistico, a cui pure non furono estranei proprio i sonetti anacreontici, mitologici e pastorali del Redi e del Menzini.

La posizione del gruppo fiorentino è soprattutto notevole per la sua compattezza e, nei suoi limiti più angusti di empirismo e di pratica letteraria non appoggiata a salde premesse estetiche, per la sua schietta, naturale contrapposizione al barocco (meno volontaria e meno ardita, ma anche in pratica meno confusa e oscillante fra ripresa di motivi tardo barocchi e precisi fermenti nuovi, di quanto avvenga nell'Italia settentrionale, e certo più positiva di quanto sia la semplice reazione di sdegno e satira del Rosa) derivante da una più generale condizione di cultura, fra la tradizione galileiana rinvigorita dalle nuove influenze del pensiero sperimentale europeo (l'Accademia del Cimento fondata nel 1657), la continuità delle esigenze linguistiche della Crusca, rinnovata, pur nel suo scarso vigore teorico, dalla maggiore coscienza ed orgoglio della propria tradizione, e lo studio dei classici che nella Università di Pisa aveva mantenuto, nella generale decadenza umanistica del Seicento, una certa se pur piuttosto passiva, continuità.

Lo spirito attento e critico, umanamente vivace e spregiudicato degli scienziati-letterati fiorentini (se pur chiuso da certi limiti accademici e da un conformismo ufficiale che inibisce loro un più ardito passaggio alla critica dei massimi problemi e che si fa più sentire nell'ultimo Seicento, ma in contatto con quel bisogno di serietà morale, spirituale, religiosa che era pure un motivo della reazione all'epoca barocca, alla sua a lascivia », alla sua «ipocrisia»). rianimò le vecchie accademie fiorentine, stimolò nelle loro discussioni e riunioni un più acuto piacere di socievolezza, una più forte ripresa di quella tradizione burlesca fiorentina e toscana che era pure una istintiva reazione alla serietà più compassata e tetra di certo costume barocco e che si accordava con più forte interesse linguistico, con una duplice attenzione al parlato popolare magari nel piacevole letterario della parodia rusticale (le commedie rusticali del Fagiuoli o il Lamento di Cecco da Varlungo del Baldovini, con tutti i loro limiti accademici e stenterelleschi) e alla tradizione illustre rinsanguata dallo studio più attivo dei classici latini e greci. E che insieme portava nella letteratura una maggiore attenzione alla realtà minuta e concreta, sperimentata e tradotta nella loro prosa scientifica dalla quale passavano nello stesso linguaggio poetico, specie nelle sue forme scherzose e piacevoli più disposte ad accoglierle, quelle qualità di chiarezza, di ordine, di particolareggiata evidenza, di nitido rilievo, di incontro di cose e di parole, di organicità naturale e razionale, che si distinguevano dall'enfasi e dal concettismo, dal lusso verbale, dalla sottigliezza di un linguaggio adeguato ad un costume mentale sofistico fra erudizione pedantesca e bizzarra ed evasione nella ricerca dell'effetto e della meraviglia. La cultura sperimentale fecondava, in uno stretto contatto fra scienziati, letterati e linguisti, spesso coesistenti nelle stesse persone, la ripresa letteraria della tradizione, l'amore per una lingua viva e tradizionale (è l'epoca della nuova edizione del Vocabolario della Crusca), il nuovo studio dei classici applicato in quelle traduzioni di fine Seicento che proprio nell'ambiente fiorentino costituiscono uno degli elementi essenziali del distacco dalla letteratura barocca e la prima base di quel classicismo che è coefficiente caratteristico della poetica arcadica, anche se la sua efficacia maggiore si svilupperà nel pieno Settecento rispondendo alle nuove esigenze del didascalismo e dell'edonistico figurativismo sensistico-illuministico. Sono di quest'epoca la traduzione lucreziana del Marchetti, Salvini, Regnier Desmarais (un francese toscanizzato), che, a parte l'indicatività dei testi tradotti (la scelta di Anacreonte è ben elemento di legame fra il sonettismo del Redi e del Menzini e l'Arcadia vera e propria, ed esprime, fra galanteria ed eleganza, la tendenza istintiva di una società volta ad una animazione vitale e ad un rilievo di aspetti piacevoli della realtà umana); interessano in generale per il valore di appoggio concreto - non solo lettura, ma traduzione - alla ricerca di tiri linguaggio moderno e classico, per la volontà di fedeltà al testo, così diversa dal travestimento e dal «perfezionamento» moderno barocco (si pensi al Pindaro dell'Adimari che è pure una delle rare traduzioni, e non imitazioni, secentesche di classici, anch'essa di ambiente toscano) per la precisa testimonianza di un culto attivo dei classici che si congiunge - sia pure con un interesse prevalentemente linguistico, che è poi l'interesse che più accomuna i letterati fiorentini a scapito di interessi filosofico-estetici veri e propri - a quello della tradizione italiana di cui l'epoca barocca aveva sostanzialmente trascurato o deformato la lezione e la continuità...

Per la sua posizione al centro di questo gruppo e per il suo valore di precisa e media indicazione dei motivi prearcadici che qui ci interessano, val meglio fermarsi sul Redi e descrivere in lui il particolare esito del contatto fra scienza e letteratura e la costituzione in lui di premesse letterarie svolte dal Menzini e da questo più direttamente offerte al circolo romano da cui sorse l'Arcadia.

Chiaro è anzitutto il suo valore di maestro e consigliere di letterati più giovani; ed anzi tutto l'ambiente fiorentino e toscano prearcadico e arcadico fra scienza e letteratura (Magalotti, Bellini, Averani, Viviani, Nomi, Menzini, Filicaia, Forzoni, i due Salvini, Marchetti ecc.) può essere studiato attraverso le relazioni con il Redi nel suo ricco epistolario, negli accenni del Ditirambo (e nelle annotazioni a quello dello stesso Redi), nei riflessi delle sue poesie sugli altri scrittori dell'epoca. Tutto il suo epistolario è pieno di consigli, di elogi, di censure ad altri letterati, a cui soprattutto il Redi raccomanda la «evidenza e la chiarezza», elogiandole ove le trova, sospirandole dove sono assenti e indicandone la difficoltà e la rarità. Così in una lettera al Maggi in lode del De Lemene ne esaltava la «purità» e la «evidenza», e al Magalotti scrive: «Ma questa benedetta facilità la dà ai poeti il fato imperocché il nostro sudore molte volte non arriva ad ottenerla...»; mentre a M. Selvaggia Borghini dà consigli minutissimi sul «concatenamento» dei versi, sulla regolarità grammaticale frutto di lettura e di uso, sul sonetto che deve essere «ben disteso» e aderente «come un vestito senza crespe e grinze»; e al Nomi scrive lunghe lettere sull'opportunità di singole parole sulla preminenza di chiarezza ed evidenza anche nella stessa «nobiltà», e sul bisogno di «chiarire o schiarire ogni doppio senso e ambiguità».

Queste preoccupazioni letterarie, il cui valore consiste proprio in una nuova attenzione allo strumento espressivo linguistico e nell'importanza data a qualità che appaiono in netta contrapposizione con la magnificenza ed astrattezza barocca, sono nel Redi sostenute da una naturale tendenza del suo animo e della sua nitida intelligenza, così civile e socievole, ad un rilievo minuto e compiaciuto degli aspetti sempre interessanti e piacevoli della realtà. E questa si rivela spontanea e regolare, animata e creativa allo sguardo acuto ed amoroso dello scienziato ed offre la sua ricchezza di impressioni immediate, genuine e salde al letterato che le traduce - non le tradisce - nel suo linguaggio aderente, organico, chiaro, preciso ed agile. L'amore dell'evidenza nell'esperienza, della realtà nel suo farsi perpetuo e nella sua rivelazione all'intelligenza curiosa e attenta, anima la prosa rediana, prima e più importante espressione del suo animo, ma non separate da quelle minori esperienze poetiche che portano nel linguaggio poetico le esigenze essenziali di questo spirito non più barocco, chiaro e critico, brioso ed attento.

Per la prosa si pensi soprattutto a quelle Esperienze intorno n cose naturali in cui esperienza e ragione - che oppongono sempre in queste lettere uomini «savi» a ciurmatori e maghi -si alleano in un entusiasmo lucido e senza astio o boria che si traduce in un ritmo limpido e brioso, aderente al processo stesso dell'esperimentare e del conoscere la realtà. Nascono così quelle avvincenti narrazioni di esperienze che adeguano nel movimento della prosa un divenire di verità e realtà, così interessante e letificante per lo scienziato e per il letterato: come nell'esperienza delle pietre fatate e dei galli avvelenati, nella storia del soldato fatato e del maestro scornato, o nell'osservazione degli insetti che nascono dalla putrefazione: «Addì 19 aprile nelle giunchiglie odorate di Spagna in capo a due giorni io vidi minutissimi vermi, che nel mese di maggio divennero piccolissimi e neri moscerini con l'antenne corte in testa, e così veloci e così lesti che pareano il moto perpetuo», in cui il ritmo rapido e limpido e minuto rispecchia questo gusto dell'occhio e dell'intelligenza che vede (e sollecita) animazione e vita sprigionarsi dappertutto in proporzioni minuscole e precise e se ne compiace non con la meraviglia della novità bizzarra (che è spesso il gusto del Bartoli), ma anzi per la riprova delle leggi «solite e consuete» della natura, della loro spontaneità e razionalità. Come in una lettera al Lanzoni in cui una ispirazione quanto mai ragionevole e sperimentata si esprime in un animato quadretto miniaturistico che pare anticipare nella prosa rediana il movimento minuto ed agile della più tipica arte del primo settecento arcadico-rococò: «Io poi confesso di essere del suo parere che sia falsissimo che i camaleonti vivano d'aria, mentre le posso con la mia solita ingenuità attestare, che tagliatene diversi alla presenza d'amici, manifestamente ho scoperto i loro ventricoletti pieni di animalucci ed erbette minutissime, i quali con prestezza incredibile, come io penso, con una lor lingua afferrano e inghiottiscono».

Questo senso di evidenza, di movimento e di brio si ritrova anche nei sonetti (oltre che nel Ditirambo) che più direttamente ci interessano per la storia dell'Arcadia con il loro valore di schema valido per il Menzini e poi per lo Zappi sulla via del sonetto anacreontico e con la loro esemplarità di agile miniaturismo, di organicità evidente e chiara, ma non insipida e smorta. Ché proprio su questo punto il Redi più insiste nelle sue numerose autocritiche: chiarezza, misura, ripudio di concettismo e di abuso di metafore, ma non correttezza senz'anima; e nulla più odia il Redi di un sonetto «melenso» o «lonzo», cioè stentato e floscio.

I migliori esempi della sua maniera sciolta e briosa sono appunto nei sonetti anacreontici, non in quelli encomiastici o platonizzanti più ricchi di residui barocchi anche se smorzati, più lontani dal suo «naturale» come diceva il Magalotti in una lettera all'amico del 25 febbraio I679, in cui, dopo un elogio più convenzionale per una fredda, decorosa poesia encomiastica, esce in lodi entusiastiche di fronte al sonetto Già la civetta preparata e il fischio riconoscendovi il poeta più genuino («Che proprietà di epiteti, che naturalezza... tutto è pieno di proprietà e di costume divinamente espresso») e sottolineando il pregio di «affetti casti, castissimi» ma «finalmente amorosi» e cioè sensibili, caldi, evidenti, non astratti e metafisici.
(Da La Rassegna della Letteratura Italiana).

 

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