Nella formazione della poetica arcadica, su cui rimangono
fondamentali le osservazioni del Croce e del Fubini con la
loro interpretazione storica del fenomeno arcadico liberato
dalle diagnosi polemiche preromantiche e romantiche e valutato
nel suo essenziale significato di una ricostituzione della
tradizione letteraria, di una nuova attenzione alla dignità e
organicità dell'espressione, sollecitata dagli stimoli della
nuova cultura razionalistica, mi sembra che debba essere
convenientemente calcolata l'importanza particolare della
letteratura e della cultura fiorentina di fine Seicento. Certo
le caratteristiche del rinnovamento del «buon gusto» e la
maggiore ricchezza e organicità di una poetica che si articola
entro una complessa problematica di cultura e di pragmatiche
proposte teoriche, con le diverse interpretazioni della
tradizione italiana, con i diversi esempi di modelli, con il
generale richiamo al culto dei classici in contrasto con la
poetica barocca, con la distinzione manfrediana del linguaggio
poetico da quello prosastico, con le importanti discussioni
sui rapporti fantasia-ragione, che implicano possibilità
feconde di nuovi pensieri estetici attivi ed efficaci, in
Italia e fuori, nello svolgimento della letteratura
settecentesca, meglio si possono cogliere in anni più tardi,
quando i diversi elementi locali di cultura antibarocca si
unificano nella repubblica letteraria di Arcadia e una più
precisa coscienza del rinnovamento arcadico corrisponde a più
precise e feconde formulazioni teoriche, a cui i letterati
toscani di fine Seicento non portano veri contributi rimanendo
su di un terreno più empirico ben lontano dalla complessità e
profondità di interessi estetici e filosofici di un Gravina o
di un Muratori.
E tuttavia avendo ben chiaro tale limite, penso che nel
distacco dal gusto barocco e nella fase di formazione della
poetica arcadica, proprio nella direzione di un nuovo contatto
con la tradizione italiana e classica e soprattutto nelle
condizioni di una reazione concreta anche se poco conclamata e
poco approfondita esteticamente, nell'incontro fra un senso
non barocco della cultura e della vita, fra esigenze di
aderenza alla realtà e di razionale chiarezza, di fedeltà alla
verità scientifica in un assiduo impegno sperimentale ed
esigenze letterarie e linguistiche di correttezza,
comprensibilità, di ragionevole e socievole comunicabilità, di
organico accordo fra cose e parole, di continuità e
compiutezza dell'espressione letteraria (tutte qualità che
saranno caratteristiche nello sviluppo della poetica
arcadica), l'attività dei letterati toscani di fine Seicento
debba considerarsi di grande importanza calcolando sia lo
scambio attivo fra quel centro culturale e altri centri
antibarocchi come Milano, nelle relazioni Redi-Maggi, sia
l'attiva presenza, diretta e indiretta del Menzini del
Filicaia nella Accademia reale di Maria Cristina e poi nella
vera Arcadia e nel calcolo diplomatico e pragmatico del
Crescimbeni, nel quadro eclettico ed accogliente della sua
riforma: anche se in quella prevarrà, accanto alle esigenze
più alte e neoclassiche del Gravina (operanti più in profondo
e solo parzialmente assimilate da Metastasio e Rolli), la
linea del petrarchismo riformato con il rilievo brillante del
Di Costanzo e il gusto melodrammatico-miniaturistico, a cui
pure non furono estranei proprio i sonetti anacreontici,
mitologici e pastorali del Redi e del Menzini.
La posizione del gruppo fiorentino è soprattutto notevole per
la sua compattezza e, nei suoi limiti più angusti di empirismo
e di pratica letteraria non appoggiata a salde premesse
estetiche, per la sua schietta, naturale contrapposizione al
barocco (meno volontaria e meno ardita, ma anche in pratica
meno confusa e oscillante fra ripresa di motivi tardo barocchi
e precisi fermenti nuovi, di quanto avvenga nell'Italia
settentrionale, e certo più positiva di quanto sia la semplice
reazione di sdegno e satira del Rosa) derivante da una più
generale condizione di cultura, fra la tradizione galileiana
rinvigorita dalle nuove influenze del pensiero sperimentale
europeo (l'Accademia del Cimento fondata nel 1657), la
continuità delle esigenze linguistiche della Crusca,
rinnovata, pur nel suo scarso vigore teorico, dalla maggiore
coscienza ed orgoglio della propria tradizione, e lo studio
dei classici che nella Università di Pisa aveva mantenuto,
nella generale decadenza umanistica del Seicento, una certa se
pur piuttosto passiva, continuità.
Lo spirito attento e critico, umanamente vivace e
spregiudicato degli scienziati-letterati fiorentini (se pur
chiuso da certi limiti accademici e da un conformismo
ufficiale che inibisce loro un più ardito passaggio alla
critica dei massimi problemi e che si fa più sentire
nell'ultimo Seicento, ma in contatto con quel bisogno di
serietà morale, spirituale, religiosa che era pure un motivo
della reazione all'epoca barocca, alla sua a lascivia », alla
sua «ipocrisia»). rianimò le vecchie accademie fiorentine,
stimolò nelle loro discussioni e riunioni un più acuto piacere
di socievolezza, una più forte ripresa di quella tradizione
burlesca fiorentina e toscana che era pure una istintiva
reazione alla serietà più compassata e tetra di certo costume
barocco e che si accordava con più forte interesse
linguistico, con una duplice attenzione al parlato popolare
magari nel piacevole letterario della parodia rusticale (le
commedie rusticali del Fagiuoli o il Lamento di Cecco da
Varlungo del Baldovini, con tutti i loro limiti accademici e
stenterelleschi) e alla tradizione illustre rinsanguata dallo
studio più attivo dei classici latini e greci. E che insieme
portava nella letteratura una maggiore attenzione alla realtà
minuta e concreta, sperimentata e tradotta nella loro prosa
scientifica dalla quale passavano nello stesso linguaggio
poetico, specie nelle sue forme scherzose e piacevoli più
disposte ad accoglierle, quelle qualità di chiarezza, di
ordine, di particolareggiata evidenza, di nitido rilievo, di
incontro di cose e di parole, di organicità naturale e
razionale, che si distinguevano dall'enfasi e dal concettismo,
dal lusso verbale, dalla sottigliezza di un linguaggio
adeguato ad un costume mentale sofistico fra erudizione
pedantesca e bizzarra ed evasione nella ricerca dell'effetto e
della meraviglia. La cultura sperimentale fecondava, in uno
stretto contatto fra scienziati, letterati e linguisti, spesso
coesistenti nelle stesse persone, la ripresa letteraria della
tradizione, l'amore per una lingua viva e tradizionale (è
l'epoca della nuova edizione del Vocabolario della Crusca), il
nuovo studio dei classici applicato in quelle traduzioni di
fine Seicento che proprio nell'ambiente fiorentino
costituiscono uno degli elementi essenziali del distacco dalla
letteratura barocca e la prima base di quel classicismo che è
coefficiente caratteristico della poetica arcadica, anche se
la sua efficacia maggiore si svilupperà nel pieno Settecento
rispondendo alle nuove esigenze del didascalismo e
dell'edonistico figurativismo sensistico-illuministico. Sono
di quest'epoca la traduzione lucreziana del Marchetti, Salvini,
Regnier Desmarais (un francese toscanizzato), che, a parte l'indicatività
dei testi tradotti (la scelta di Anacreonte è ben elemento di
legame fra il sonettismo del Redi e del Menzini e l'Arcadia
vera e propria, ed esprime, fra galanteria ed eleganza, la
tendenza istintiva di una società volta ad una animazione
vitale e ad un rilievo di aspetti piacevoli della realtà
umana); interessano in generale per il valore di appoggio
concreto - non solo lettura, ma traduzione - alla ricerca di
tiri linguaggio moderno e classico, per la volontà di fedeltà
al testo, così diversa dal travestimento e dal
«perfezionamento» moderno barocco (si pensi al Pindaro dell'Adimari
che è pure una delle rare traduzioni, e non imitazioni,
secentesche di classici, anch'essa di ambiente toscano) per la
precisa testimonianza di un culto attivo dei classici che si
congiunge - sia pure con un interesse prevalentemente
linguistico, che è poi l'interesse che più accomuna i
letterati fiorentini a scapito di interessi
filosofico-estetici veri e propri - a quello della tradizione
italiana di cui l'epoca barocca aveva sostanzialmente
trascurato o deformato la lezione e la continuità...
Per la sua posizione al centro di questo gruppo e per il suo
valore di precisa e media indicazione dei motivi prearcadici
che qui ci interessano, val meglio fermarsi sul Redi e
descrivere in lui il particolare esito del contatto fra
scienza e letteratura e la costituzione in lui di premesse
letterarie svolte dal Menzini e da questo più direttamente
offerte al circolo romano da cui sorse l'Arcadia.
Chiaro è anzitutto il suo valore di maestro e consigliere di
letterati più giovani; ed anzi tutto l'ambiente fiorentino e
toscano prearcadico e arcadico fra scienza e letteratura
(Magalotti, Bellini, Averani, Viviani, Nomi, Menzini, Filicaia,
Forzoni, i due Salvini, Marchetti ecc.) può essere studiato
attraverso le relazioni con il Redi nel suo ricco epistolario,
negli accenni del Ditirambo (e nelle annotazioni a quello
dello stesso Redi), nei riflessi delle sue poesie sugli altri
scrittori dell'epoca. Tutto il suo epistolario è pieno di
consigli, di elogi, di censure ad altri letterati, a cui
soprattutto il Redi raccomanda la «evidenza e la chiarezza»,
elogiandole ove le trova, sospirandole dove sono assenti e
indicandone la difficoltà e la rarità. Così in una lettera al
Maggi in lode del De Lemene ne esaltava la «purità» e la
«evidenza», e al Magalotti scrive: «Ma questa benedetta
facilità la dà ai poeti il fato imperocché il nostro sudore
molte volte non arriva ad ottenerla...»; mentre a M. Selvaggia
Borghini dà consigli minutissimi sul «concatenamento» dei
versi, sulla regolarità grammaticale frutto di lettura e di
uso, sul sonetto che deve essere «ben disteso» e aderente
«come un vestito senza crespe e grinze»; e al Nomi scrive
lunghe lettere sull'opportunità di singole parole sulla
preminenza di chiarezza ed evidenza anche nella stessa
«nobiltà», e sul bisogno di «chiarire o schiarire ogni doppio
senso e ambiguità».
Queste preoccupazioni letterarie, il cui valore consiste
proprio in una nuova attenzione allo strumento espressivo
linguistico e nell'importanza data a qualità che appaiono in
netta contrapposizione con la magnificenza ed astrattezza
barocca, sono nel Redi sostenute da una naturale tendenza del
suo animo e della sua nitida intelligenza, così civile e
socievole, ad un rilievo minuto e compiaciuto degli aspetti
sempre interessanti e piacevoli della realtà. E questa si
rivela spontanea e regolare, animata e creativa allo sguardo
acuto ed amoroso dello scienziato ed offre la sua ricchezza di
impressioni immediate, genuine e salde al letterato che le
traduce - non le tradisce - nel suo linguaggio aderente,
organico, chiaro, preciso ed agile. L'amore dell'evidenza
nell'esperienza, della realtà nel suo farsi perpetuo e nella
sua rivelazione all'intelligenza curiosa e attenta, anima la
prosa rediana, prima e più importante espressione del suo
animo, ma non separate da quelle minori esperienze poetiche
che portano nel linguaggio poetico le esigenze essenziali di
questo spirito non più barocco, chiaro e critico, brioso ed
attento.
Per la prosa si pensi soprattutto a quelle Esperienze intorno
n cose naturali in cui esperienza e ragione - che oppongono
sempre in queste lettere uomini «savi» a ciurmatori e maghi
-si alleano in un entusiasmo lucido e senza astio o boria che
si traduce in un ritmo limpido e brioso, aderente al processo
stesso dell'esperimentare e del conoscere la realtà. Nascono
così quelle avvincenti narrazioni di esperienze che adeguano
nel movimento della prosa un divenire di verità e realtà, così
interessante e letificante per lo scienziato e per il
letterato: come nell'esperienza delle pietre fatate e dei
galli avvelenati, nella storia del soldato fatato e del
maestro scornato, o nell'osservazione degli insetti che
nascono dalla putrefazione: «Addì 19 aprile nelle giunchiglie
odorate di Spagna in capo a due giorni io vidi minutissimi
vermi, che nel mese di maggio divennero piccolissimi e neri
moscerini con l'antenne corte in testa, e così veloci e così
lesti che pareano il moto perpetuo», in cui il ritmo rapido e
limpido e minuto rispecchia questo gusto dell'occhio e
dell'intelligenza che vede (e sollecita) animazione e vita
sprigionarsi dappertutto in proporzioni minuscole e precise e
se ne compiace non con la meraviglia della novità bizzarra
(che è spesso il gusto del Bartoli), ma anzi per la riprova
delle leggi «solite e consuete» della natura, della loro
spontaneità e razionalità. Come in una lettera al Lanzoni in
cui una ispirazione quanto mai ragionevole e sperimentata si
esprime in un animato quadretto miniaturistico che pare
anticipare nella prosa rediana il movimento minuto ed agile
della più tipica arte del primo settecento arcadico-rococò:
«Io poi confesso di essere del suo parere che sia falsissimo
che i camaleonti vivano d'aria, mentre le posso con la mia
solita ingenuità attestare, che tagliatene diversi alla
presenza d'amici, manifestamente ho scoperto i loro
ventricoletti pieni di animalucci ed erbette minutissime, i
quali con prestezza incredibile, come io penso, con una lor
lingua afferrano e inghiottiscono».
Questo senso di evidenza, di movimento e di brio si ritrova
anche nei sonetti (oltre che nel Ditirambo) che più
direttamente ci interessano per la storia dell'Arcadia con il
loro valore di schema valido per il Menzini e poi per lo Zappi
sulla via del sonetto anacreontico e con la loro esemplarità
di agile miniaturismo, di organicità evidente e chiara, ma non
insipida e smorta. Ché proprio su questo punto il Redi più
insiste nelle sue numerose autocritiche: chiarezza, misura,
ripudio di concettismo e di abuso di metafore, ma non
correttezza senz'anima; e nulla più odia il Redi di un sonetto
«melenso» o «lonzo», cioè stentato e floscio.
I migliori esempi della sua maniera sciolta e briosa sono
appunto nei sonetti anacreontici, non in quelli encomiastici o
platonizzanti più ricchi di residui barocchi anche se
smorzati, più lontani dal suo «naturale» come diceva il
Magalotti in una lettera all'amico del 25 febbraio I679, in
cui, dopo un elogio più convenzionale per una fredda, decorosa
poesia encomiastica, esce in lodi entusiastiche di fronte al
sonetto Già la civetta preparata e il fischio riconoscendovi
il poeta più genuino («Che proprietà di epiteti, che
naturalezza... tutto è pieno di proprietà e di costume
divinamente espresso») e sottolineando il pregio di «affetti
casti, castissimi» ma «finalmente amorosi» e cioè sensibili,
caldi, evidenti, non astratti e metafisici.
(Da La Rassegna della Letteratura Italiana). |