Una acuta coscienza di sé è indubbiamente la nota predominante
di quella vita. Fu ben notato che, anche nella ultima lettera
al Costantini, più che l'umiltà del cristiano vicino a morire,
parla ancora - e ben forte - l'orgoglio dello scrittore,
amareggiato che il mondo non lo abbia riconosciuto ed
esaltato. È quella coscienza di sé, che fa che il poeta non si
creda mai apprezzato degnamente in nessuna delle tante Corti,
e lo incita ai perpetui mutamenti. E quella coscienza che lo
rende assetato di gloria: e di una gloria piena, pronta,
indiscussa. Perché della gloria il Tasso non ha un concetto
dei più aristocratici: essa vuol essere l'applauso senza
eccezione, il successo senza contrasto...
La stessa acuta coscienza che Torquato ebbe di sé, è coscienza
di poeta consapevole del suo ufficio, della sua missione,
della sua grandezza. Egli si avvilirà in cento modi; ma
rispetterà sempre in sé la dignità di poeta. Egli si sente,
ingenuamente, il depositario e il dispensatore della fama e
della gloria. Sa di dover molto ai prìncipi, ma che i prìncipi
anche più devono a lui. E quando le Corti lo maltrattano, e
gli viene meno anche il presidio, a cui egli sentì sempre di
aver come un diritto, degli amici, allora, come un illustre
cittadino di qualche antica repubblica greca, si crede
autorizzato ad essere mantenuto a spese della città.
Circostanze speciali svilupparono nel Tasso quella
soverchiante coscienza poetica. Nell'esempio del padre,
cortigiano e poeta, la poesia si dovette presentare al
fanciullo Torquato come qualche cosa di singolarmente
significativo. Come il padre, vide in essa l'unico mezzo
perché un gentiluomo povero potesse imporsi nelle Corti.
La poesia diventa per lui cosa seria, non solo per la vita
dello spirito suo, ma per la vita sua pratica. E ciò che
dispiacerà nella poesia del Tasso sarà, troppe volte, specie
nelle poesie minori, la concomitanza della esigenza estetica e
della pratica: lo spirito adulatorio: la frase d'effetto
l'atteggiamento da oratore, la concettosità: l'intenzione
manifesta di piacere agli altri, più che di compiacere a se
stesso...
La sensibilità del Tasso è quella di chi è uso a stare in
continua osservazione e auscultazione di tutti i moti e i
palpiti e i respiri del proprio io. Di qui, nel poeta, una
tristezza fondamentale e costante. La sua vita interiore non
si rinnova; ma ristagna, e si corrompe ed avvelena. Ci deve
essere del vero in quello che afferma il Manso: che il Tasso
raramente fu veduto ridere. Il riso è liberazione: e il Tasso
è ad ogni istante preoccupato, oppresso dal pensiero e dal
peso del suo io. Ride, in qualche rara pagina, nell'Aminta; ma
non sorride. Anche le gioie del senso egli le ritrae più
torbide che acute. Terminò per diventare un ebbro della
sofferenza. Come tanti poeti dell'età romantica, egli volle
piangere. Il lacrimoso fu elemento sostanziale della sua vita,
come della sua arte. Egli si sentiva solo in momenti di
commozione eccezionale: nell'orgoglio delle altezze, come
nella desolazione dell'abbandono. A destarsi dalla sua
fondamentale apatia, aveva bisogno di scosse e flagellazioni.
Questo edonista, che amava i « vini raspanti », che si adirava
coi medici severi, che non sopportava per la sua cura che
sciroppi dolci, che si disperava di passare nell'ospedale i
lieti giorni carnevaleschi, che non voleva contristarsi con la
lettura di racconti lugubri, affrontava poi viaggi e disagi da
sbigottire ogni uomo più rotto alle privazioni. Senza danari,
malvestito, febbricitante, senza guida, fuori dalle vie
maestre, egli corse per quasi tutta l'Italia. Qualche volta
pensò di lasciarsi morire di fame. Gli erano egualmente
necessari e i molti diletti, e le tragiche durezze...
Vero è che di quella vita, prodotto violento di un fervore
sentimentale e di una tensione fantastica, il poeta non poté
non sentire a quando a quando l'intima inanità e
inconsistenza. Allora
... ombra reale e salda
gli parve il Nulla .... |
e il cantore della grandezza e della magnificenza pronunziò
allora sulla vita parole disperatamente amare. Più spesso,
guardò come in una sintesi la storia dei suoi propri giorni.
Ebbe la lucida coscienza che la sua vita era un travaglio
superiore alle sue energie: una rete di obblighi, di impacci,
di fatiche, di disegni, che lo premeva e stringeva come una
camicia di forza. Allora, nella sua fantasia, celebrò la
liberazione. Contro la vita artificiosa e perversa delle Corti
vagheggiò quella spontanea e sana, che la letteratura
collocava nel mondo pastorale: contro i divieti dell'età
ipocrita, la libertà dell'età dell'oro, contro la perpetua
agitazione del senza casa dipinse la calma serena di
costumanze patriarcali: contro le fatiche dei giorni sentì il
riposo della Morte, o in un regno di beatitudine inerte, che
gli si disegnò come un regno dei Morti. Hai, in questi
abbandoni a sogni calmanti l'esasperazione della vita, le note
forse più suggestive della poesia del Tasso. E la coscienza
che la sua vita è un travaglio, spinge il poeta alla ricerca
perpetua di oasi di pace, verso miraggi di annichilamento. Non
è solamente l'ambizione insoddisfatta, che lo trae dall'una
all'altra Corte: ma forse più la sete di un riposo, che la
illusione fantastica gli rappresenta possibile negli ospizi
non ancora conosciuti. Ed è ancora quella coscienza, che gli
detta programmi di vita pratica, la cui attuazione gli avrebbe
consentito di poter finalmente vivere per sé e a sé, e godere
del suo ozio contemplativo. Allora pensò a pubblicare o
ripubblicare i suoi scritti recenti e antichi; per averne
lucro anche più che gloria. Allora pensò a qualche tranquilla
carica ecclesiastica: e anche alla possibilità di prender
moglie. Sentì forse allora che né Corti, né amici gli
avrebbero mai fatto beneficii, che non lo umiliassero e non lo
legassero. Sentì che chi non ha non è. E si tribolò in una
lite che durò anni ed anni, per ricuperare la dote materna.
Erano assalti del senso del reale: che miravano a sgominare le
superstiti fantasie...
E il poeta spiega nel Tasso l'uomo: dico il piccolo uomo
comune, composto di debolezze, di vizii, di vanità, che si può
dedurre dall'epistolario, e da molte rime, e dai documenti, e
contro il quale si può istruire, in nome della moralità e
dignità, il processo, che biografi e critici hanno istruito
contro troppi altri poeti. Le amoralità del Tasso, la sua sete
di godimento, il suo egoismo sono il poeta in azione che vuol
vivere, piena e libera, l'impressione, l'immagine, il
sentimento e il senso. È il poeta in azione quella mancanza di
praticità, di tatto, di misura, che è tutt'uno con la mancanza
di moralità: moralità è attitudine a trattare con gli uomini.
Ma si badi anche, che nel Tasso il poeta dà un tono superiore
ai difetti dell'uomo. Il Tasso è lascivo, non mai osceno; è
corteggiatore, assai più che adulatore; irascibile, non
vendicativo. La sua povertà non è mai cinica, ma nobilitata da
un non mai estinto desiderio di cose belle e di ambienti
signorili. A Socrate si atteggiò nei tardi anni; ma non volle
mai essere Diogene. L'invidia diventa in lui emulazione. Il
suo orgoglio è sete di gloria. La gloria, questa forma più
intensa ma più alta dell'egotismo, fu la brama di tutta la sua
vita. Il Montégu, nota come c'è qualche cosa di fanciullesco,
sempre, nelle poesie del Tasso. Un eterno fanciullo, un
ingenuo egli resta anche nella vita. Non bisogna dimenticare
che il Tasso, con un poco di prudenza, avrebbe potuto vivere
nell'agiatezza e negli splendori: e che morì in un letto di
convento, mendico. Egli si muove in un mondo superiore di
bellezza e di magnanimità. Il cantore della Liberata sente la
grandezza e la poesia di tutti i valori umani. Il Tasso rimane
lo scrittore più nobile che poteva produrre l'età sua. La
maestà del suo linguaggio è l'altezza e serietà del suo mondo
ideale. |