CRITICA: TORQUATO TASSO

 TASSO UOMO E POETA

 AUTORE: Eugenio Donadoni    TRATTO DA: Torquato Tasso: Saggio critico

 

Una acuta coscienza di sé è indubbiamente la nota predominante di quella vita. Fu ben notato che, anche nella ultima lettera al Costantini, più che l'umiltà del cristiano vicino a morire, parla ancora - e ben forte - l'orgoglio dello scrittore, amareggiato che il mondo non lo abbia riconosciuto ed esaltato. È quella coscienza di sé, che fa che il poeta non si creda mai apprezzato degnamente in nessuna delle tante Corti, e lo incita ai perpetui mutamenti. E quella coscienza che lo rende assetato di gloria: e di una gloria piena, pronta, indiscussa. Perché della gloria il Tasso non ha un concetto dei più aristocratici: essa vuol essere l'applauso senza eccezione, il successo senza contrasto...

La stessa acuta coscienza che Torquato ebbe di sé, è coscienza di poeta consapevole del suo ufficio, della sua missione, della sua grandezza. Egli si avvilirà in cento modi; ma rispetterà sempre in sé la dignità di poeta. Egli si sente, ingenuamente, il depositario e il dispensatore della fama e della gloria. Sa di dover molto ai prìncipi, ma che i prìncipi anche più devono a lui. E quando le Corti lo maltrattano, e gli viene meno anche il presidio, a cui egli sentì sempre di aver come un diritto, degli amici, allora, come un illustre cittadino di qualche antica repubblica greca, si crede autorizzato ad essere mantenuto a spese della città.
Circostanze speciali svilupparono nel Tasso quella soverchiante coscienza poetica. Nell'esempio del padre, cortigiano e poeta, la poesia si dovette presentare al fanciullo Torquato come qualche cosa di singolarmente significativo. Come il padre, vide in essa l'unico mezzo perché un gentiluomo povero potesse imporsi nelle Corti.
La poesia diventa per lui cosa seria, non solo per la vita dello spirito suo, ma per la vita sua pratica. E ciò che dispiacerà nella poesia del Tasso sarà, troppe volte, specie nelle poesie minori, la concomitanza della esigenza estetica e della pratica: lo spirito adulatorio: la frase d'effetto l'atteggiamento da oratore, la concettosità: l'intenzione manifesta di piacere agli altri, più che di compiacere a se stesso...

La sensibilità del Tasso è quella di chi è uso a stare in continua osservazione e auscultazione di tutti i moti e i palpiti e i respiri del proprio io. Di qui, nel poeta, una tristezza fondamentale e costante. La sua vita interiore non si rinnova; ma ristagna, e si corrompe ed avvelena. Ci deve essere del vero in quello che afferma il Manso: che il Tasso raramente fu veduto ridere. Il riso è liberazione: e il Tasso è ad ogni istante preoccupato, oppresso dal pensiero e dal peso del suo io. Ride, in qualche rara pagina, nell'Aminta; ma non sorride. Anche le gioie del senso egli le ritrae più torbide che acute. Terminò per diventare un ebbro della sofferenza. Come tanti poeti dell'età romantica, egli volle piangere. Il lacrimoso fu elemento sostanziale della sua vita, come della sua arte. Egli si sentiva solo in momenti di commozione eccezionale: nell'orgoglio delle altezze, come nella desolazione dell'abbandono. A destarsi dalla sua fondamentale apatia, aveva bisogno di scosse e flagellazioni. Questo edonista, che amava i « vini raspanti », che si adirava coi medici severi, che non sopportava per la sua cura che sciroppi dolci, che si disperava di passare nell'ospedale i lieti giorni carnevaleschi, che non voleva contristarsi con la lettura di racconti lugubri, affrontava poi viaggi e disagi da sbigottire ogni uomo più rotto alle privazioni. Senza danari, malvestito, febbricitante, senza guida, fuori dalle vie maestre, egli corse per quasi tutta l'Italia. Qualche volta pensò di lasciarsi morire di fame. Gli erano egualmente necessari e i molti diletti, e le tragiche durezze...

Vero è che di quella vita, prodotto violento di un fervore sentimentale e di una tensione fantastica, il poeta non poté non sentire a quando a quando l'intima inanità e inconsistenza. Allora

 

... ombra reale e salda
gli parve il Nulla ....



e il cantore della grandezza e della magnificenza pronunziò allora sulla vita parole disperatamente amare. Più spesso, guardò come in una sintesi la storia dei suoi propri giorni. Ebbe la lucida coscienza che la sua vita era un travaglio superiore alle sue energie: una rete di obblighi, di impacci, di fatiche, di disegni, che lo premeva e stringeva come una camicia di forza. Allora, nella sua fantasia, celebrò la liberazione. Contro la vita artificiosa e perversa delle Corti vagheggiò quella spontanea e sana, che la letteratura collocava nel mondo pastorale: contro i divieti dell'età ipocrita, la libertà dell'età dell'oro, contro la perpetua agitazione del senza casa dipinse la calma serena di costumanze patriarcali: contro le fatiche dei giorni sentì il riposo della Morte, o in un regno di beatitudine inerte, che gli si disegnò come un regno dei Morti. Hai, in questi abbandoni a sogni calmanti l'esasperazione della vita, le note forse più suggestive della poesia del Tasso. E la coscienza che la sua vita è un travaglio, spinge il poeta alla ricerca perpetua di oasi di pace, verso miraggi di annichilamento. Non è solamente l'ambizione insoddisfatta, che lo trae dall'una all'altra Corte: ma forse più la sete di un riposo, che la illusione fantastica gli rappresenta possibile negli ospizi non ancora conosciuti. Ed è ancora quella coscienza, che gli detta programmi di vita pratica, la cui attuazione gli avrebbe consentito di poter finalmente vivere per sé e a sé, e godere del suo ozio contemplativo. Allora pensò a pubblicare o ripubblicare i suoi scritti recenti e antichi; per averne lucro anche più che gloria. Allora pensò a qualche tranquilla carica ecclesiastica: e anche alla possibilità di prender moglie. Sentì forse allora che né Corti, né amici gli avrebbero mai fatto beneficii, che non lo umiliassero e non lo legassero. Sentì che chi non ha non è. E si tribolò in una lite che durò anni ed anni, per ricuperare la dote materna. Erano assalti del senso del reale: che miravano a sgominare le superstiti fantasie...

E il poeta spiega nel Tasso l'uomo: dico il piccolo uomo comune, composto di debolezze, di vizii, di vanità, che si può dedurre dall'epistolario, e da molte rime, e dai documenti, e contro il quale si può istruire, in nome della moralità e dignità, il processo, che biografi e critici hanno istruito contro troppi altri poeti. Le amoralità del Tasso, la sua sete di godimento, il suo egoismo sono il poeta in azione che vuol vivere, piena e libera, l'impressione, l'immagine, il sentimento e il senso. È il poeta in azione quella mancanza di praticità, di tatto, di misura, che è tutt'uno con la mancanza di moralità: moralità è attitudine a trattare con gli uomini. Ma si badi anche, che nel Tasso il poeta dà un tono superiore ai difetti dell'uomo. Il Tasso è lascivo, non mai osceno; è corteggiatore, assai più che adulatore; irascibile, non vendicativo. La sua povertà non è mai cinica, ma nobilitata da un non mai estinto desiderio di cose belle e di ambienti signorili. A Socrate si atteggiò nei tardi anni; ma non volle mai essere Diogene. L'invidia diventa in lui emulazione. Il suo orgoglio è sete di gloria. La gloria, questa forma più intensa ma più alta dell'egotismo, fu la brama di tutta la sua vita. Il Montégu, nota come c'è qualche cosa di fanciullesco, sempre, nelle poesie del Tasso. Un eterno fanciullo, un ingenuo egli resta anche nella vita. Non bisogna dimenticare che il Tasso, con un poco di prudenza, avrebbe potuto vivere nell'agiatezza e negli splendori: e che morì in un letto di convento, mendico. Egli si muove in un mondo superiore di bellezza e di magnanimità. Il cantore della Liberata sente la grandezza e la poesia di tutti i valori umani. Il Tasso rimane lo scrittore più nobile che poteva produrre l'età sua. La maestà del suo linguaggio è l'altezza e serietà del suo mondo ideale.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis