La poesia del Tasso è insieme eroica e indefinita. L'eroismo
di Argante e di Solimano sfuma nel funebre; quello di Clorinda
Erminia Sofronia Armida Tancredi Rinaldo sfuma nel tenero. Da
questo confluire delle note alte e delle note abbandonate
nasce il carattere fondamentale dello stile del Tasso: quel
piglio ancora sintetico ma già commosso da un palpito che
toglie alla parola la precisione logica e le conferisce
l'indefinito dell'atmosfera e del canto, quell'emotività che
ha inebriato tante generazioni di lettori e generato una così
lunga schiera di imitatori e ha lasciato un'impronta anche
nella malinconia meditativa e nelle ombreggiature eroiche di
un poeta, così personale come Federigo Della Valle.
All'incisività e alla limpidezza sottentra con il Tasso lo
sfumato: le note della sua vera poesia non sono né fluenti né
squillanti, ma indugiano nell'aria e la impregnano della loro
malinconia e della loro passione. Al confronto, anche il
Petrarca, che è il suo unico, lontano precursore, sembra
chiuso in un virile riserbo. Le grandi frasi poetiche del
Tassò si propagano come echi insistenti e dolenti, quelle del
Petrarca al confronto sembrano sorde, muoiono sull'istante
come sospiri subito soffocati: « Le soavi parole e i dolci
sguardi, Ch'ad un ad un descritti e depinti hai, Son levati de
terra; et è, ben sai, Qui ricercarli intempestivo é tardi »; «
Lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde, Veggio et odo et
intendo ch'ancor viva Di sì lontano a' sospir miei risponde ».
La sua malinconia non arriva mai a vivere per se stessa, a
soverchiare la riflessione o la narrazione o l'immagine:
esempio, la stessa canzone « Di pensier in pensier, di monte
in monte ». Un sonetto come « Solo e pensoso », che esprime il
riversarsi della passione del poeta nella natura solitaria,
lontano dallo sguardo degli uomini, finisce con un quadro di
larghe ma fermissime linee: « Ma pur sì aspre vie né sì
selvaggie Cercar non so ch'Amor non venga sempre Ragionando
con meco, et io con lui »; il rimpianto della fugacità della
vita gli si configura in una visione di latitudine gigantesca:
«E la morte vien dietro a gran giornate».
Nel Tasso, nonostante il tessuto narrativo, la lirica cessa di
essere immagine o intreccio, e diventa sensibilità che
s'irradia all'intorno, atmosfera che trema; la parola acquista
una fisonomia nuova, anzi perde la fisonomia e diventa
emozione...
Il Tasso è stato il precursore di un grande rivolgimento anche
nel campo delle arti figurative, dove allo stampo del
carattere sottentra la fisonomia abbandonata o concentrata, ai
piani vigorosi e precisi del volto la linea sfatta e indecisa
del sentimento, e lo stesso disegno degli edifici sembra
volersi nascondere sotto un'onda di sensibilità.
I personaggi del Tasso sono definiti da questi palpiti
patetici, da questi rapimenti dove la figura del personaggio
scompare, sommersa dalla sensibilità che trabocca. Tancredi
all'improvvisa apparizione di Clorinda: « Già non mira
Tancredi ove il Circasso la spaventosa fronte al cielo estolle;
Ma move il suo destrier con lento passo Volgendo gli occhi ov'è
colei su 'l colle. Poscia immobil si ferma, e pare un sasso;
Gelido tutto fuor, ma dentro bolle: Sol di mirar s'appaga, e
di battaglia Sembiante fa che poco or più gli caglia »: la
stessa « spaventosa » fronte di Argante sembra svanire in
quell'aura di smemoramento. Erminia allo scoprir Tancredi
ferito: « Vista la faccia scolorita e bella, Non scese no,
precipitò di sella »: dove quella sussultante forma negativa
non ha un valore logico, ma emotivo.
Questo fondo emotivo è meno evidente nei due più tremendi eroi
del poema: Argante e Solimano. Pure proprio di qui nasce il
fascino che essi esercitano su chi legge. Argante è un
personaggio immane, sarcastico e triste. Non potremmo astrarre
dalle sue pose gigantesche, pur non di rado iperboliche e
convenzionali, senza menomare la sua personalità: ma questa
consiste sopra tutto nei suoi micidiali sarcasmi e nella
tristezza della sua fine. Quei gesti e quegli atteggiamenti
titanici sono il piedistallo su cui si innalza e giganteggia
la sua figura morale: che è quella di un magnanimo
predestinato. Anche dalla persona di Argante movono accordi
d'inconsolabile mestizia; anche la sua persona titanica si
scioglie, in ultima analisi, in un altro motivo patetico. La
sua ultima ora è la più sarcastica e la più malinconica della
sua vita: la provocazione amara al « forte de le donne uccisor
» e il desolato pensiero rivolto a Gerusalemme che cade, si
illuminano a vicenda e compendiano la sua figura morale...
Il motivo della notte è uno dei più dolci e più tristi della
poesia del Tasso. È musicato sempre sui temi dell'oscurità e
del silenzio; e l'oscurità e il silenzio si traggono dietro
l'oblio. Oscurità, silenzio, oblio; non vedere, non sentire,
non ricordare; rinunziare alla vita, riposare nell'informe e
nel nulla...
Il paesaggio è l'espressione più completa dell'animo del
Tasso. Espressione indefinita, in cui risuonano e si
armonizzano tutti i tasti del suo animo, della sua malinconia
che svaria dagli incubi e dai terrori della selva incantata,
alla grigia tristezza del paesaggio di Gerusalemme, alla luce
implacabile della siccità che fa languire piante uomini e
animali, all'abbandonata solitudine delle rovine di Cartagine,
agli idillici sospiri del rifugio pastorale di Erminia, alla
voluttà ardente e - in fondo sconsolata del giardino di
Armida, all'interiore serenità dell'alba su Clorinda morente e
dell'alba sul monte Oliveto. Quanto è pittorica e fantasiosa
la terra dell'Ariosto, altrettanto è spirituale e raccolta
quella del Tasso. Nelle varie contrade del Tasso si adombra la
descrizione e la storia della sua coscienza. E se si vuol
comprendere quale fosse la sua religiosità si deve badare non
ai riti, ai fasti, ai discorsi edificanti del poema, ma, oltre
che a brevi e intense parentesi ascetiche, all'aura
meditativa, ai terrori, alle inquietudini e alle febbri che
spirano dagli sfondi paesistici dell'azione. Noi siamo, anche
parlando del Tasso, troppo abituati a considerare come
religiosità soltanto la sincera adesione alle forme del culto
e l'esplicita espressione di sentimenti e di pensieri morali e
religiosi. Se questa misura è buona per Dante, il Tasso è
un'anima troppo più moderna perché essa basti per lui. E il
Tasso è un grande poeta anche perché con lui si inizia una
forma nuova, più irriflessa e più tormentosa, di
religiosità...
Non è vero che il Tasso non sia un poeta religioso. Egli non
sa esprimere gli slanci dell'anima, la confidenza in Dio; ma
sa bene esprimere l'anima mortificata, compresa della propria
debolezza e della propria colpevolezza. E non è vero che fra
gli episodi famosi d'amore e lo sfondo del poema ci sia una
frattura. Fra il tema e gli episodi c'é una forte affinità, e
quindi un intimo legame. La crociata è un'impresa grave,
ispirata da una religiosità malinconica. In venti canti,
quanti essa dura, non c'é l'ombra di un sorriso. Né ombra di
sorriso c'é in alcuno degli episodi che la interrompono. Una
medesima atmosfera grave avvolge quella e questi: ed è appunto
quest'unità d'atmosfera che tiene uniti gli episodi
all'impresa e impedisce una soluzione di continuità. E sono
certe pagine di vera religiosità che dànno ragione di quel
lievito di tristezza che è infondo a tutti gli episodi
amorosi. Il Tasso sente profondamente tutti gli stati d'animo
tristi che nascono dalla religione: in questo poeta voluttuoso
c'è un fondo ascetico, come sarà poi nei romantici. Se gli
slanci e i fasti del culto hanno nel poema un timbro enfatico,
tutto quello che è sacrificio, passione, aspirazione ad un
infinito negato ai mortali, resipiscenza, rende una nota
profonda. Il conforto di Sofronia ad Olindo; la processione
sul monte Oliveto (XI, 21), dove la pompa è mortificata dalla
compunzione; qualche isolato sospiro sulla vanità della terra;
la salita di Rinaldo sul monte Oliveto sono espressioni
indubbie di una anima che aspira alla fede. Le parole che
l'ombra di Ugone rivolge in sogno a Goffredo: « Quanto è vil
la cagion ch'a la virtude Umana è colà giù premio e contrasto!
In che piccolo cerchio, e fra che nude Solitudini é stretto il
vostro fasto! » (XIV, 10), queste poche parole sono tra le più
solenni e significative del Tasso, sono la sintesi poetica
dell'età della Controriforma, età di etichetta e di pompa, e
perciò di pungente coscienza della vanità della vita. E anche
qui, quello che costituisce l'originalità della poesia è
quella risonanza che ne rimane nell'anima...
Perciò l'orizzonte della poesia del Tasso è così chiuso in
confronto con quello dell'Ariosto: perché quello che fissa la
sua attenzione non è il mondo inesauribilmente diverso, ma il
fantasticare e il delirare della passione, la scontentezza,
l'inquietudine del cuore che non si appaga delle apparenze e
delle leggi che governano la vita, ma sente sotto di esse la
fatalità di un destino. Fra tante terre quante sono quelle che
passano dinanzi a Carlo e Ubaldo naviganti sulla barca della
Fortuna, quella che commove veramente il poeta è il lido
deserto dove giacciono le rovine di Cartagine. E se la
splendida predizione della scoperta di Colombo rievoca alla
nostra mente lo stupore da cui dovette essere percossa
l'Europa alla notizia della straordinaria navigazione, e se il
canto XV continua il motivo rinascimentale del XIV, mettendo
accanto alla curiosità dei segreti della natura l'ardore
ulisseo di conoscere il vasto mondo da cui erano stati presi
gli Europei fra il '4 e il '500, l'istinto dei lettori e dei
critici ha sempre sentito che la voce del Tasso rendeva un
suono più schietto nel fugace lamento sulla caducità delle
città e dei regni; e perciò non la celebrazione di quella
scoperta è rimasta famosa, ma l'elegia di quel disfacimento. |