CRITICA: TORQUATO TASSO

 I MOTIVI DEL POEMA DEL TASSO

 AUTORE: Attilio Momigliano    TRATTO DA: Introduzione ai poeti

 

La poesia del Tasso è insieme eroica e indefinita. L'eroismo di Argante e di Solimano sfuma nel funebre; quello di Clorinda Erminia Sofronia Armida Tancredi Rinaldo sfuma nel tenero. Da questo confluire delle note alte e delle note abbandonate nasce il carattere fondamentale dello stile del Tasso: quel piglio ancora sintetico ma già commosso da un palpito che toglie alla parola la precisione logica e le conferisce l'indefinito dell'atmosfera e del canto, quell'emotività che ha inebriato tante generazioni di lettori e generato una così lunga schiera di imitatori e ha lasciato un'impronta anche nella malinconia meditativa e nelle ombreggiature eroiche di un poeta, così personale come Federigo Della Valle.
All'incisività e alla limpidezza sottentra con il Tasso lo sfumato: le note della sua vera poesia non sono né fluenti né squillanti, ma indugiano nell'aria e la impregnano della loro malinconia e della loro passione. Al confronto, anche il Petrarca, che è il suo unico, lontano precursore, sembra chiuso in un virile riserbo. Le grandi frasi poetiche del Tassò si propagano come echi insistenti e dolenti, quelle del Petrarca al confronto sembrano sorde, muoiono sull'istante come sospiri subito soffocati: « Le soavi parole e i dolci sguardi, Ch'ad un ad un descritti e depinti hai, Son levati de terra; et è, ben sai, Qui ricercarli intempestivo é tardi »; « Lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde, Veggio et odo et intendo ch'ancor viva Di sì lontano a' sospir miei risponde ». La sua malinconia non arriva mai a vivere per se stessa, a soverchiare la riflessione o la narrazione o l'immagine: esempio, la stessa canzone « Di pensier in pensier, di monte in monte ». Un sonetto come « Solo e pensoso », che esprime il riversarsi della passione del poeta nella natura solitaria, lontano dallo sguardo degli uomini, finisce con un quadro di larghe ma fermissime linee: « Ma pur sì aspre vie né sì selvaggie Cercar non so ch'Amor non venga sempre Ragionando con meco, et io con lui »; il rimpianto della fugacità della vita gli si configura in una visione di latitudine gigantesca: «E la morte vien dietro a gran giornate».
Nel Tasso, nonostante il tessuto narrativo, la lirica cessa di essere immagine o intreccio, e diventa sensibilità che s'irradia all'intorno, atmosfera che trema; la parola acquista una fisonomia nuova, anzi perde la fisonomia e diventa emozione...

Il Tasso è stato il precursore di un grande rivolgimento anche nel campo delle arti figurative, dove allo stampo del carattere sottentra la fisonomia abbandonata o concentrata, ai piani vigorosi e precisi del volto la linea sfatta e indecisa del sentimento, e lo stesso disegno degli edifici sembra volersi nascondere sotto un'onda di sensibilità.
I personaggi del Tasso sono definiti da questi palpiti patetici, da questi rapimenti dove la figura del personaggio scompare, sommersa dalla sensibilità che trabocca. Tancredi all'improvvisa apparizione di Clorinda: « Già non mira Tancredi ove il Circasso la spaventosa fronte al cielo estolle; Ma move il suo destrier con lento passo Volgendo gli occhi ov'è colei su 'l colle. Poscia immobil si ferma, e pare un sasso; Gelido tutto fuor, ma dentro bolle: Sol di mirar s'appaga, e di battaglia Sembiante fa che poco or più gli caglia »: la stessa « spaventosa » fronte di Argante sembra svanire in quell'aura di smemoramento. Erminia allo scoprir Tancredi ferito: « Vista la faccia scolorita e bella, Non scese no, precipitò di sella »: dove quella sussultante forma negativa non ha un valore logico, ma emotivo.
Questo fondo emotivo è meno evidente nei due più tremendi eroi del poema: Argante e Solimano. Pure proprio di qui nasce il fascino che essi esercitano su chi legge. Argante è un personaggio immane, sarcastico e triste. Non potremmo astrarre dalle sue pose gigantesche, pur non di rado iperboliche e convenzionali, senza menomare la sua personalità: ma questa consiste sopra tutto nei suoi micidiali sarcasmi e nella tristezza della sua fine. Quei gesti e quegli atteggiamenti titanici sono il piedistallo su cui si innalza e giganteggia la sua figura morale: che è quella di un magnanimo predestinato. Anche dalla persona di Argante movono accordi d'inconsolabile mestizia; anche la sua persona titanica si scioglie, in ultima analisi, in un altro motivo patetico. La sua ultima ora è la più sarcastica e la più malinconica della sua vita: la provocazione amara al « forte de le donne uccisor » e il desolato pensiero rivolto a Gerusalemme che cade, si illuminano a vicenda e compendiano la sua figura morale...

Il motivo della notte è uno dei più dolci e più tristi della poesia del Tasso. È musicato sempre sui temi dell'oscurità e del silenzio; e l'oscurità e il silenzio si traggono dietro l'oblio. Oscurità, silenzio, oblio; non vedere, non sentire, non ricordare; rinunziare alla vita, riposare nell'informe e nel nulla...

Il paesaggio è l'espressione più completa dell'animo del Tasso. Espressione indefinita, in cui risuonano e si armonizzano tutti i tasti del suo animo, della sua malinconia che svaria dagli incubi e dai terrori della selva incantata, alla grigia tristezza del paesaggio di Gerusalemme, alla luce implacabile della siccità che fa languire piante uomini e animali, all'abbandonata solitudine delle rovine di Cartagine, agli idillici sospiri del rifugio pastorale di Erminia, alla voluttà ardente e - in fondo sconsolata del giardino di Armida, all'interiore serenità dell'alba su Clorinda morente e dell'alba sul monte Oliveto. Quanto è pittorica e fantasiosa la terra dell'Ariosto, altrettanto è spirituale e raccolta quella del Tasso. Nelle varie contrade del Tasso si adombra la descrizione e la storia della sua coscienza. E se si vuol comprendere quale fosse la sua religiosità si deve badare non ai riti, ai fasti, ai discorsi edificanti del poema, ma, oltre che a brevi e intense parentesi ascetiche, all'aura meditativa, ai terrori, alle inquietudini e alle febbri che spirano dagli sfondi paesistici dell'azione. Noi siamo, anche parlando del Tasso, troppo abituati a considerare come religiosità soltanto la sincera adesione alle forme del culto e l'esplicita espressione di sentimenti e di pensieri morali e religiosi. Se questa misura è buona per Dante, il Tasso è un'anima troppo più moderna perché essa basti per lui. E il Tasso è un grande poeta anche perché con lui si inizia una forma nuova, più irriflessa e più tormentosa, di religiosità...

Non è vero che il Tasso non sia un poeta religioso. Egli non sa esprimere gli slanci dell'anima, la confidenza in Dio; ma sa bene esprimere l'anima mortificata, compresa della propria debolezza e della propria colpevolezza. E non è vero che fra gli episodi famosi d'amore e lo sfondo del poema ci sia una frattura. Fra il tema e gli episodi c'é una forte affinità, e quindi un intimo legame. La crociata è un'impresa grave, ispirata da una religiosità malinconica. In venti canti, quanti essa dura, non c'é l'ombra di un sorriso. Né ombra di sorriso c'é in alcuno degli episodi che la interrompono. Una medesima atmosfera grave avvolge quella e questi: ed è appunto quest'unità d'atmosfera che tiene uniti gli episodi all'impresa e impedisce una soluzione di continuità. E sono certe pagine di vera religiosità che dànno ragione di quel lievito di tristezza che è infondo a tutti gli episodi amorosi. Il Tasso sente profondamente tutti gli stati d'animo tristi che nascono dalla religione: in questo poeta voluttuoso c'è un fondo ascetico, come sarà poi nei romantici. Se gli slanci e i fasti del culto hanno nel poema un timbro enfatico, tutto quello che è sacrificio, passione, aspirazione ad un infinito negato ai mortali, resipiscenza, rende una nota profonda. Il conforto di Sofronia ad Olindo; la processione sul monte Oliveto (XI, 21), dove la pompa è mortificata dalla compunzione; qualche isolato sospiro sulla vanità della terra; la salita di Rinaldo sul monte Oliveto sono espressioni indubbie di una anima che aspira alla fede. Le parole che l'ombra di Ugone rivolge in sogno a Goffredo: « Quanto è vil la cagion ch'a la virtude Umana è colà giù premio e contrasto! In che piccolo cerchio, e fra che nude Solitudini é stretto il vostro fasto! » (XIV, 10), queste poche parole sono tra le più solenni e significative del Tasso, sono la sintesi poetica dell'età della Controriforma, età di etichetta e di pompa, e perciò di pungente coscienza della vanità della vita. E anche qui, quello che costituisce l'originalità della poesia è quella risonanza che ne rimane nell'anima...

Perciò l'orizzonte della poesia del Tasso è così chiuso in confronto con quello dell'Ariosto: perché quello che fissa la sua attenzione non è il mondo inesauribilmente diverso, ma il fantasticare e il delirare della passione, la scontentezza, l'inquietudine del cuore che non si appaga delle apparenze e delle leggi che governano la vita, ma sente sotto di esse la fatalità di un destino. Fra tante terre quante sono quelle che passano dinanzi a Carlo e Ubaldo naviganti sulla barca della Fortuna, quella che commove veramente il poeta è il lido deserto dove giacciono le rovine di Cartagine. E se la splendida predizione della scoperta di Colombo rievoca alla nostra mente lo stupore da cui dovette essere percossa l'Europa alla notizia della straordinaria navigazione, e se il canto XV continua il motivo rinascimentale del XIV, mettendo accanto alla curiosità dei segreti della natura l'ardore ulisseo di conoscere il vasto mondo da cui erano stati presi gli Europei fra il '4 e il '500, l'istinto dei lettori e dei critici ha sempre sentito che la voce del Tasso rendeva un suono più schietto nel fugace lamento sulla caducità delle città e dei regni; e perciò non la celebrazione di quella scoperta è rimasta famosa, ma l'elegia di quel disfacimento.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis