Non c'è altra opera del Tasso che come le Rime dichiari così
palesemente il terreno cortigiano su cui fiorirono la sua
ornata letteratura, i ceselli della sua arte e la sua stessa
poesia maggiore. Egli suddivideva questi suoi componimenti in
rime d'amore, rime d'encomio e rime sacre; e quanto ai temi
trattati, la distinzione non era priva di esattezza. Ma quanto
alla sostanza, quanto all'atteggiamento proprio del poeta,
quanto, diciam pure così, alla sua ispirazione, tutte, anche
le amorose e le sacre, gli riuscirono rime essenzialmente
encomiastiche e cortigiane...
Il tentativo di realizzare poeticamente la propria vita, di
far di se stesso un personaggio poetico, rimase invece nel
Tasso come un'aspirazione sporadica e inconsapevole. I tempi,
le circostanze della sua vita e il carattere stesso dell'uomo
impedirono che l'autobiografia ideale e poetica valicasse
risoluta i limiti della biografia reale e prosaica in cui essa
nasceva. Gli spunti e gli accenni sparsi di tale autobiografia
rimasero, così, incastonati nell'eloquio cortigianesco ed
encomiastico. Il Tasso, che non poteva avvertire la ricchezza
poetica di questo suo motivo, non lo distinse e non lo coltivò
per dargli l'autonomia della vita poetica a cui esso aspirava.
Se ne valse, invece, a fini utilitari, per impietosire gli
altri sulla propria sorte e per sollecitarne il soccorso.
Accadde, così, che anche i due momenti più alti di questa
ispirazione autobiografica, la canzone al Metauro e quella
alle figlie di Renata, non riuscissero le due più grandi
liriche, ma solo le due più eloquenti canzoni del Cinquecento.
Se si prescinda da quello dell'autobiografia, si può dire che
tutti, o quasi tutti, gli altri motivi poetici che si
incontrano nella gran selva delle Rime ebbero articolato e
pieno sviluppo altrove, nell'Amínta e nella Gerusalemme
Liberata. Nelle Rime, oltre che non si liberarono interamente
dal terreno cortigiano su cui sorsero, essi rimasero legati
alla biografia del Poeta. Perciò, a voler ripigliare una nota
distinzione del De Sanctis, bisognerebbe concludere che il
Tasso fu nelle Rime assai più artista che poeta. Infatti, se i
sentimenti suoi, anche i più aspri, non vi si svilupparono in
profondità e rimasero sparsamente pronunciati, costante fu
invece il suo lavoro stilistico, l'elaborazione tecnica del
linguaggio e dei ritmi. Sotto l'aspetto della perfezione
formale le Rime non temono confronti. Anche nelle cose più
insignificanti c'è una sostenutezza di numero e di eloquio,
una sapienza retorica, che fa meraviglia. L'encomio più
gratuito e più inerte trova sempre nella elaborata
letterarietà dell'espressione quella autosufficienza che gli
sarebbe negata dalla povertà e dalla convenzionalità dei
concetti; e sono queste le occasioni in cui si ,tocca più da
vicino l'uniformarsi del Tasso alle esigenze di quella
superiore cortigianeria che era il suo ideale di vita. Il
linguaggio della corte non poteva essere per lui se non un
eloquio letterariamente ornato e levigato, aristocraticamente
piacevole e impeccabile. S'intende, però, che i risultati più
felici non li toccò quando codeste risorse rimasero al
servizio di occasioni meramente celebrative; ma li raggiunse
quando i suoi sentimenti più vivi, distratti com'erano dalla
loro interiorità, si riversarono all'esterno, e disponendosi
in aeree fantasie e sposandosi alla purezza armoniosa del
linguaggio produssero quell'espressione poetico-musicale in
cui risiederà sempre il più vero incanto delle Rime.
Tali fantasie e la materia di cui esse son fatte nacquero
nell'ambito dell'omaggio galante alla bellezza femminile. Già
nelle prime rime amorose il Tasso immaginò che le ninfe e il
mare facessero dono a Lucrezia di perle, oro, rubini, coralli
e ostri; e nella canzone Qual più rara e gentile la assomigliò
a diverse meraviglie. Ma nel secondo canzoniere d'amore la
celebrazione si fa più pura, ed è più scoperto il movimento
sentimentale che guida il poeta a circondare la donna di ogni
cosa più preziosa, a paragonarla con queste, e infine a
trasformare i suoi stessi versi in un incantevole monile per
il più glorioso trionfo di lei. Da questo movimento nacquero
alcune delle cose più pure del Tasso, come le ballate e i
madrigali in lode di Bianca Cappello, dove l'artificio
encomiastico sul nome della granduchessa si dissolve in varie
e vaghissime immagini di candore; e più pura d'ogni altra ne
derivò la corona di madrigali in onore di Laura Peperara.
Questa è tutta un incanto, un formarsi e dissolversi di luci,
di profumi, di suoni, come un aereo sogno primaverile.
Questa purezza è raggiunta quando l'omaggio galante è sentito
con tale intensità da tramutarsi in un atto di contemplazione
e di adorazione. Allora la figura della donna non è veduta
come corpo, ma come immagine, e divien luce, suono, colore,
fiore, paese, cielo. Così è quel sonetto dové la figura di
Lucrezia Bendidio si scioglie in un labile trascolorare di
immagini sognate:
E sentìa, quasi fiamma ch'al ciel vole,
la bella mano, e quasi fresco nembo
sospiri e soavissime parole. |
E così anche nell'altro notissimo a Lucrezia d'Este, ove
perfino la forma della rosa sembra materiale al poeta, che
nella donna vede piuttosto una
celeste aurora
che le campagne imperla e i monti indora
lucida in ciel sereno e rugiadosa, |
e il fiore e il sole formano nella chiusa l'immagine sola di
un fiammeggiante meriggio (592).
Nel giro compassato del sonetto la purezza contemplativa non
si trova però del tutto a suo agio. L'inevitabile presenza di
residui encomiastici, la quadratura dell'impostazione metrica
e gli indispensabili nessi del periodare logico la trattengono
dal pronunciarsi nella sua intima essenza, che è quella di
un'aerea e volubile musicalità. Il suo luogo vero non poteva
essere in uno schema prestabilito che fosse troppo rigido ed
esatto; non era perciò neanche nella canzonetta, che il Tasso
tentò e che tanta voga ebbe in seguito; ma nel madrigale, che
col suo schema vago e volubile preludeva alla stanza della
canzone libera leopardiana. Certamente il madrigale era forma
classica dell'omaggio galante, e in tale ufficio lo conservò
anche il Tasso; ma nel capriccioso fluire e rifluire del ritmo
dai settenari agli endecasillabi, del ritmo che qui non
preesiste ma è direttamente ispirato dall'intima disposizione
della fantasia, l'omaggio si scioglie nelle levità d'un ricamo
musicale, tanto più adorabile, quanto più esso si spoglia
perfino di certi accenti di voluttuosa tenerezza, e sul filo
serico della melodia si lascia rapire nell'incantesimo delle
albe e dei notturni. Ogni peso umano svanisce in una
trascolorante vibrazione luminosa e melodica.
Ecco mormorar l'onde
e tremolar le fronde
a l'aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l'oriente:
ecco già l'alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora. |
Il precedente letterario di questa « alba » è nella « foresta
spessa e viva » del paradiso terrestre; di là viene l'aura
mattutina, di là il tremolar delle fronde e il canto degli
uccelletti sui rami. Ma non è un precedente ozioso. È anzi un
elemento necessario, perché proprio lo schermo di un motivo
già poeticamente elaborato è qui il primo passo decisivo verso
lo scorporamento, a cui il poeta vuol giungere, di quella
realtà affettiva che pur doveva esserci all'origine di questi
versi. E tale scorporamento è poi ottenuto in modo definitivo
mediante una tendenziosa elaborazione del testo stesso che è
servito da schermo. L'adulto linguaggio di Dante, anche qui,
dove si studia di essere più dolce, più « stilnovistico », si
attiene pur sempre alla sua virile schiettezza, giovandosi
anche della sostenutezza del ritmo costantemente
endecasillabico e della solida impostatura della terza rima.
Nel Tasso invece tutto divien fluido e molle, la dolcezza si
stempra in languore, la ferma razionalità del ritmo cede, e si
sfalda in una scansione insinuante dalle battute vellutate e
come rapite nei vezzi della rima baciata. Il ricordo dantesco,
così rarefatto, scompare inoltre al sovrapporsi di alcune
pennellate in cui vibra forse la lontana immagine di un
paesaggio meridionale, ma ormai stilizzata nelle forme
dolcissime e convenzionali di una fantasia non plastica, non
pittorica, ma tutta assorta in un musicale stupore. E il
vecchio motivo della donna che col suo solo apparire risuscita
ovunque a nuova vita gli esseri e le cose, chi lo riconosce
più? La galanteria si fa tutta un fresco alitare, si smemora
in un vaghissimo gioco di vocali e di dittonghi:
O bella e vaga Aurora,
l'aura è tua messaggera, e tu de l'aura
ch'ogni arso cor ristaura. |
Ascoltiamo ora il gemito sommesso di quel flautato notturno:
Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo
Perché nell'aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir Paure insino al giorno
Fúr segni forse de la tua partita,
vita della mia vitae |
Sono le gemme più rare; ma tante altre sono fatte della stessa
materia preziosa. E' la gioielleria del Tasso. E l'ampio e non
di rado inameno orizzonte delle Rime ne brilla come un cielo
stellato.
Ma la musicalità, che è il miglior esito delle Rime, nasce
anch'essa da una rinuncia del poeta a conoscere sé medesimo, a
prender pieno possesso di tutto il suo essere umano; essa
nasce da una rarefazione del sentimento, che rifuggendo
dall'approfondirsi si sparge e si oblia in una diffusa e
trascolorante sensibilità in cui si riflettono le vibrazioni
più vaghe e più seducenti del mondo esterno. Essa non può
dunque considerarsi come uno sviluppo positivo della poesia
del Tasso, della quale segna piuttosto il lembo estremo, il
margine decadentistico. Occorre solo aggiungere che, benché
sia possibile isolare un gruppo di rime nelle quali codesta
musicalità si pronuncia in maniera più assoluta, essa è
tuttavia presente in tutta la poesia del Tasso, e ne
costituisce uno dei limiti costanti. Questo limite, fatto di
momenti estatici e voluttuosi, in assenza dei quali non rimane
se non un virtuoso gioco di concetti verbali e di ritmi, è
proprio l'addentellato da cui si diramò la poesia barocca,
quella poesia in cui, del mondo seriamente affettivo del
Tasso, si spense anche l'ultimo lume. |