IL TRECENTO MINORE

  • LA STORIOGRAFIA FIORENTINA DEL TRECENTO
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    Autore: Raffaello Morghen Tratto da: La storiografia fiorentina del Trecento

     
         

    Se si confronti la storiografia lombarda al tempo della lotta dei Comuni col Barbarossa, con la storiografia di Firenze nell'età di Dante, si rimane colpiti dalla differenza di tono, dalla diversità della tradizione culturale, dalla diversa estensione e intensità d'interessi che le contraddistingue e quasi le contrappone.
    Né il paragone è ozioso, perché vale a mostrarci, con assoluta immediatezza ed evidenza, come la nostra prima storiografia volgare rappresenti l'espressione di un momento particolarmente significativo e, direi quasi, conclusivo di tutta la civiltà comunale.
    Era passato appena un secolo da quando gli ultimi echi della lotta contro il Barbarossa si erano spenti, nella cronaca attribuita a Sire Raoul, quando il guelfo Ricordano Malispini, tornato a Firenze dal suo probabile esilio romano, dopo la battaglia di Benevento, si era accinto, intorno al 1270, a raccogliere « di gran fascio in piccolo volume » la tradizione delle origini leggendarie della sua città e i fasti del comune del « primo popolo ». E tutta un'epoca aveva raggiunto in quel secolo la pienezza delle sue espressioni e i germi della civiltà del comune italiano, che apparivano ancora in boccio al tempo della Lega Lombarda, si erano ormai dischiusi in una lussureggiante fioritura, nella Firenze del Trecento.
    La storiografia comunale lombarda del secolo XII era ancora redatta in lingua latina e si ispirava, come nel caso del poema anonimo sui Gesta di Federico in Italia, alle tradizioni di un umanesimo di scuola, mentre la cronistica imperiale raggiungeva la sua più compiuta espressione nell'opera di Ottone di Frisinga. La storiografia fiorentina, fiorita tra il XIII e il XIV secolo era, invece, scritta in volgare ed aveva assunto dalla lingua viva quei caratteri d'immediatezza e di spontaneità che le furono proprie, riallacciandosi, nello stesso tempo, a quelle tradizioni favolose delle storie di Troia e di Roma, onde traevano alimento l'orgoglio municipale delle nostre città e la prima coscienza unitaria della civiltà comune, nel nome di Roma madre, il latiale caput cunctis Italis diligendum di Dante e del Petrarca.
    Ma anche un diverso tono morale distingueva, come dicevo, le due storiografie. C'è nella storiografia lombarda nel tempo del Barbarossa un riserbo, una cautela, un senso della opportunità contingente, che si contrappongono nettamente all'afflato ideale, alla immensità della passione politica, alla larghezza degli interessi di un Malispini, di un Compagni, di un Villani.

    Ottone e Acerbo Morena, i maggiori rappresentanti della storiografia comunale lombarda, appaiono, nella loro opera, soprattutto animati da vivo odio contro Milano; e il rispetto per l'imperatore, che s'era fatto strumento della loro vendetta, è in loro appena temperato dalle legittime rivendicazioni dell'autonomia cittadina. Ma l'odio e lo spirito di rivalsa prevalgono in loro su ogni altro sentimento. La devozione all'Impero e la stessa umanità, che l'anonimo autore dei Gesta di Federico dimostra nei riguardi di Arnaldo da Brescia, non si elevano mai alla consapevolezza di un ideale civile o religioso. Più tardi, dopo la spietata distruzione di Milano, la necessità di difendere, anche a prezzo della vita, la prosperità e le autonomie conquistate, decise i comuni lombardi a schierarsi compatti contro l'Imperatore, mettendo per il momento da parte le rivalità e gli odi tenaci. Ma era sempre una necessità di vita che li spingeva all'unione e all'azione. Sì che lo stesso continuatore di Ottone e Acerbo Morena, commentando l'alleanza che Lodi aveva dovuto, suo malgrado, stringere con l'odiata Milano, nel 1167, poteva scrivere, non senza una certa dose di cinismo: turpiter vivere dedecus est, ac male mori deterius est; magis bene vivere in patria ac domibus morari.
    Nella storiografia fiorentina del Trecento la passione di parte e la « carità del natio loco » si elevano, invece, ad esprimere i motivi ideali della lotta politica del tempo; si fondevano nella cronaca malispiniana, nell'esaltazione delle tradizioni gentilesche del comune del « primo popolo »; ispiravano l'accorato rimpianto di Dino Compagni, ultimo priore di parte bianca, per la caduta del comune, sorto dagli ordinamenti antimagnatizi di Giano della Bella; si placavano infine nell'orgogliosa coscienza che Giovanni Villani, mercante e socio della compagnia dei Peruzzi, aveva della grandezza raggiunta dalla sua Firenze, famosa in tutto il mondo civile e destinata « a seguire grandi cose », mentre Roma stessa, della quale era « figliola e fattura », era nel suo calare.
    Il fiorire della storiografia fiorentina del Trecento dimostra ancora una volta conce la grande storia sia il frutto delle epoche di più intensa espansione della civiltà umana, nelle quali una società, giunta alla pienezza della sua potenza creatrice, avverte più viva l'esigenza di approfondire, nei valori della tradizione, la consapevolezza del proprio essere e del proprio destino: Tucidide, alla vigilia della caduta della libertà greca, ne tramanda la tradizione gloriosa nel racconto delle tragiche vicende della guerra del Peloponneso; Polibio avverte il significato universale dell'Impero di Roma, all'indomani delle guerre puniche e della conquista dell'Oriente; Paolo Diacono canta l'epopea delle nuove popolazioni barbariche, attratte nell'orbita della civiltà cristiana di Roma, all'indomani della caduta del regno longobardo; Ottone di Frisinga celebra i fasti dell'Impero cristiano alle soglie della settima età, che doveva concludere, con l'avvento dell'Anticristo, il ciclo della storia umana. Così la storiografia fiorentina del Trecento veniva quasi ad esprimere la coscienza che gli ultimi uomini del comune medioevale avevano dei valori della loro civiltà, mentre già sorgevano all'orizzonte le prime luci dell'imminente Rinascimento...

    Il Compagni iniziò il suo racconto dagli anni intorno al 1280, presso a poco dal momento in cui s'interrompeva la parte della Storia scritta da Ricordano, continuata poi fino al primo ventennio del Trecento, dal nipote Giacotto. Ma si può dire che tra i due scrittori intercorra un'intera generazione. Le lotte tra le « maledette parti », delle quali il buon Ricordano aveva deprecato la nascita, avevano operato un profondo mutamento nella struttura costituzionale del comune fiorentino. La pace del cardinal Latino del 1280, riconciliando i ghibellini e ponendo un freno al prepotere della parte guelfa, aveva spinto i ceti più solleciti del pubblico bene, ad accostarsi alle corporazioni artigiane, preparando l'ascesa al potere del priorato del 1282, che rappresentò l'affermarsi di un governo democratico popolare, contro gli incipienti tentativi di signoria dei « magnati », cresciuti a potenza nella lotta delle fazioni.
    Gli ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, del 1293, furono la magna charta della nuova costituzione del comune fiorentino e segnarono il momento più felice della sua ripresa democratica. Ma, con l'esilio di Giano della Bella, avvenuto nel 1295, e la vigorosa azione di riscossa dei ceti magnatizi, si iniziò quella profonda crisi politica che attraverso la subdola opera di paciere di Carlo di Valois e il trionfo dei Neri, portò alla definitiva ascesa al potere della oligarchia mercantile delle arti maggiori, oligarchia che dominò la vita politica di Firenze, quasi ininterrottamente, fino all'affermarsi della signoria dei Medici.
    Dino fu fautore e sostenitore del governo dei priori dal 1282. Fu uno dei priori egli stesso nel 1289, al tempo della vittoria fiorentina di Campaldino; fu gonfaloniere di giustizia nel 1293, e appartenne, infine, all'ultimo governo di parte bianca, che il 5 novembre del 1301, fiducioso nella lealtà del principe, si assunse la grave responsabilità di consegnare Firenze nelle mani di Carlo di Valois, assicurando così il trionfo della parte dei Neri.
    Dino Compagni fu dunque, oltre che testimone degli avvenimenti di quegli anni, addirittura attore e protagonista della vicenda politica dal 1280 al 1301; e, quando, con la caduta del governo di parte bianca, cadde anche il comune di popolo, ch'egli aveva promosso e servito con lealtà adamantina e fede sincera negli ideali del bene pubblico, egli si ritirò a vita privata, ignorato dai suoi stessi nemici che, pure, nell'ebbrezza della vittoria, avevano infierito contro gli avversari con sbandimenti, vessazioni e atrocità di ogni sorta. Consapevole del fallimento politico della sua parte, nella cui caduta egli stesso era stato travolto, Dino Compagni scriveva allora quella breve storia degli anni tempestosi della sua esperienza politica, che è insieme un commovente documento umano e uno dei più mirabili esempi di prosa d'arte della nostra letteratura.
    Dino Compagni scrisse la sua storia « a utilità di coloro che saranno eredi di prosperevoli anni, acciocché riconoscano i benefici da Dio, il quale per tutti i tempi regge e governa ».
    L'ispirazione religiosa domina tutta l'opera. Nella concezione provvidenziale che Dino ha della storia umana, Dio appare in essa quasi come unico protagonista. Egli comparte, nella sua infinita sapienza, il bene e il male a premio dei buoni e a punizione dei malvagi, indirizza talvolta perfino il male a benefici effetti, apre al bene vie del tutto insospettate nei momenti stessi in cui sembra che il male celebri il suo trionfo definitivo. Ma questa concezione religiosa, se pure sinceramente affermata e profondamente sentita, non placa nella speranza e nella fiducia la sete di giustizia del Compagni, né l'animo suo esacerbato dal disinganno e dalla sconfitta. Egli stigmatizza con parole di fuoco la malafede dei suoi nemici, le frodi cinicamente palesi, le violenze efferate ed insieme il disinteresse per la cosa pubblica, la viltà di tutti coloro che aveano favorito, più o meno consapevolmente, il loro gioco. Una fosca luce di speranza balena nell'ultima pagina dell'aureo libretto del Compagni, per la calata in Italia di Arrigo VII, l'imperatore che sarà ministro della terribile vendetta di Dio contro « l'ingrato e superbo » popolo fiorentino.

    « O iniqui cittadini che tutto il mondo avete corrotto e viziato di mali costumi e di falsi guadagni! Voi siete quelli che nel mondo avete messo ogni mal uso. Ora vi si ricomincia a volgere il mondo addosso. L'imperatore colle sue forze vi farà prendere per mare e per terra ». E con queste parole di odio, nelle quali il risentimento per la sconfitta subita sembra superare ogni senso di amor di patria, si chiude l'opera.
    Tutti coloro che si sono occupati di essa hanno avvertito il contrasto profondo esistente tra i due motivi fondamentali ai quali può ridursi l'ispirazione dell'opera: la coscienza religiosa e morale dell'autore, che riconosce in tutte le forme della realtà il segno di Dio, e giudica tutta l'attività umana secondo il modulo di un ideale assoluto di bene, e la triste realtà della vita politica della sua città, ch'egli rappresenta come espressione esemplare di tutta la malvagità umana.
    Il De Sanctis interpretò il contrasto di due mondi così dissimili come il conflitto tra la realtà e le idealità dello storico; ma tale interpretazione faceva di Dino Compagni poco meno di un illuso o di un « ingenuo », « astratto e dogmatico, che non sa fare altro, di fronte alla realtà, che sdegnarsi e maledire ».
    Il Del Lungo parlò invece di una inconciliabilità fra aspirazioni comunali di Dino e della parte che egli rappresentava, e reliquie feudali del mondo rappresentato dai magnati; ma aspirazioni comunali, e reliquie feudali venivano schematizzati dal Del Lungo in una opposizione astratta di libertà, lavoro e progresso da una parte, e di soprusi, violenze e tumulti dall'altra. Il Del Monte, nel rifiutare le due interpretazioni, proposte dal De Sanctis e dal Del Lungo, vede piuttosto la spiegazione del conflitto nell'opposizione tra la religiosità di Dino Compagni, religiosità di coloro che non vivono solo della realtà, ma riconoscono nelle vicende umane il mistero di un eterno piano di giustizia divina, e il mondo irreligioso e brutale rappresentato dai suoi avversari.
    Ma io penso che la spiegazione del dramma interiore di Dino Compagni sia piuttosto nell'urto generato, nella coscienza ancora medievale del cronista, dalla prima consapevole scoperta della cruda realtà della politica, di contro agli ideali morali e religiosi della tradizione.

    Io non esiterei, sotto questo riguardo, a porre Dino Compagni agli inizi di quella tradizione di pensiero politico che ci condurrà fino al Machiavelli. Il mondo ideale dei due grandi fiorentini era diverso, mala realtà, nella quale essi spingevano l'analisi spietata del loro pensiero, è la stessa. Il Compagni vede la realtà politica con lo stesso occhio disincantato del Machiavelli, con la stessa nettezza di particolari, con la stessa acutezza di notazioni psicologiche. In ambedue la stessa visione pessimistica dell'umanità: i pochi che sanno veramente essere buoni o cattivi e l'ignavia dei molti. Ambedue muovono dal disgusto di una realtà presente aborrita, per rifugiarsi nell'attesa di un redentore. Lo stesso lucido distacco, se pur mediato attraverso due temperamenti diversi, dalla realtà umana che osservano e ritraggono, nella sconcertante evidenza dei suoi autentici aspetti. La sola differenza esistente tra il mondo di Dino Compagni e quello del Machiavelli sta nel fatto che nel mondo del Machiavelli non è più signore Iddio, mala Fortuna e la virtù umana. Nel mondo del Compagni domina invece ancora la Provvidenza, ma rappresentata da un Dio giusto e severo, che sulla umanità tralignante si appresta a far sentire il terribile peso della sua mano punitrice.

    Ma come nell'opera del Machiavelli, sulla fosca visione della realtà del suo tempo si accende improvvisa la fiamma di una illogica speranza di redenzione, che svela il segreto della passione morale del segretario fiorentino, così nel Compagni la passione umana esplode in accenti di odio, che non sembrano compatibili con l'alta ispirazione morale e religiosa dell'opera sua. Gli è che a quella realtà umana, che malediceva, il Compagni si sentiva profondamente legato. Né è il caso di parlare di opposizione tra aspirazioni comunali e reliquie di idealità feudali. Si tratta piuttosto di conservatorismo moderato di Dino Compagni e dei suoi amici, che si contrapponeva alle aspirazioni al potere della oligarchia mercantile del popolo grasso, alle quali erano favorevoli invece tutte le condizioni della vita politica del tempo. I Bianchi volevano la piena indipendenza della città da ogni influsso delle potenze che dominavano allora la politica italiana, quali il Papato e gli Angioini, proprio quando la fortuna e la prosperità di Firenze apparivano sempre più legate alle vicende della politica papale e angioina; e si muovevano verso posizioni ghibelline, proprio quando le tradizioni guelfe del comune di Firenze, acquistavano nuovo vigore per la caduta degli Svevi e il trionfo del guelfismo in tutta l'Italia.
    Dietro i magnati in lotta per il potere, vi era infatti l'oligarchia dell'alta banca, che rappresentava la quasi totalità della potenza e della forza politica di Firenze. Erano le grandi casate dei Frescobaldi, dei Bardi, dei Peruzzi, dei Francesi, degli Spini, dei Mozzi, degli Scali, degli Acciaiuoli, dei Buonaccorsi, degli Alberti, che tenevano in mano le fila della finanza internazionale presso le corti di Francia, d'Inghilterra, del Regno di Napoli, del Papa. Di fronte a questo mondo, il Compagni rappresentava il passato e, sia pure, un passato glorioso trasfigurato in ideale, ma un ideale al quale non corrispondeva più una effettiva realtà politica. Né egli era certamente di ciò consapevole. E proprio da questa sua inconsapevolezza nasce il dramma, che è il dramma di un uomo del Medioevo, che contempla per la prima volta la « realtà effettuale » della vita politica, alla luce di tradizionali valori morali e religiosi di una età che aveva compiuto il suo ciclo storico.
    Ricordate i famosi ritratti a tutto tondo, dei maggiori protagonisti della lotta politica del suo tempo? Il gran beccaio Pecora « uomo di poca verità, ardito e sfacciato e gran ciarlatore » . E Messer Corso Donati « che per sua superbia fu chiamato il 'barone', che quando passava per la terra molti gridavano: viva il 'barone'. E parca la terra. sua ». E la finezza di certe notazioni psicologiche? Ricordate, ad esempio, il Cardinal da Prato, combattuto tra l'avidità del danaro offertogli e la doverosa ripulsa, quando Dino gli portò a nome dei priori, in riparazione di un affronto subito, una coppa d'argento con 1300 fiorini nuovi? « Rispose: gli aveva cari. E molto gli guardò e non gli volle ».
    Dino Compagni era ben lontano da quel mondo d'inganni, di frode, di violenza, di pochezza morale e di viltà, che, con dolorosa meraviglia, sembra scoprire per la prima volta. Quel mondo era sempre esistito. Ma nella coscienza di uomini come Ricordano Malispini, gli accadimenti umani apparivano idealizzati, sul piano provvidenziale della storia, in una vicenda di cui protagonista unico era Iddio, mentre nella coscienza di Dino Compagni i due mondi della tradizione religiosa e della realtà umana si erano ormai distaccati e il mondo della realtà umana si presentava, è vero, agli occhi del cronista, come il regno del Maligno, ma con un risalto tutto suo ed un peso che mai prima d'allora sembrava aver avuto...

    Uomo di rilievo fu Giovanni Villani, appartenente a una élite che dominava gli affari e la grande politica europea, e membro di quella classe di governo, che aveva ormai saldamente affermato il suo potere nella città. Esperto del mondo, uso a trattare con i grandi, consapevole delle gravi responsabilità del potere, il Villani dimostra, nella sua cronaca, una moderazione nei giudizi e una oggettività che non riscontriamo in Ricordano, né, tanto meno, in Dino Compagni. Ma quelle caratteristiche, le quali potrebbero anche considerarsi come intrinseche del suo abito professionale di banchiere e di uomo adusato all'esercizio di cariche pubbliche, si univano nel Villani storico a un insaziabile desiderio di sapere e di conoscere, a una cura tenace e meticolosa nel raccogliere, ovunque gli fosse possibile, informazioni e dati di prima mano o nell'aggiungere qualche nuovo particolare ai dati già noti, sui grandi avvenimenti politici del tempo, su personalità eminenti, su carestie, disastri, feste, sugli usi e costumi dei popoli, sull'andamento delle vicende economiche, su tutto quanto, insomma, può stimolare la curiosità e l'interesse di un uomo situato in un'alta posizione sociale e attento ad ascoltare tutti gli echi e tutte le voci del vasto mondo.

    Marc Bloch, nel suo Métier de l'Historien dice dello storico che egli è come l'orco della favola; dovunque sente odore di uomo, là subito corre avido. Nessuna altra immagine si potrebbe adattare meglio a definire il cronista Giovanni Villani. A comporre infatti la sua monumentale opera, egli raccolse un materiale immenso: tradizioni leggendarie, notizie tramandate oralmente, fonti scritte, informazioni assunte direttamente o indirettamente per mezzo dei corrispondenti della banca dei Peruzzi, dichiarazioni di testimoni oculari, documenti veduti o avuti in copia dalle Cancellerie delle maggiori potenze « e io scrittore a queste cose fui presente... e dissi allora... e ciò sapemmo da persone degne di fede... e detta copia (di lettera avemmo da nostro fratello ch'allora era in corte di Roma »: queste sono le indicazioni delle fonti della Cronica nelle quali ci imbattiamo, si può dire, quasi ad apertura di libro. E che gusto dell'esattezza e della completezza dei dati è nel Villani! Egli corregge, integra, commenta le sue fonti. Aggiunge spesso le date precise del mese e del giorno di avvenimenti di cui era stato dato solo l'anno. Traduce in francese frasi pronunciate da Carlo d'Angiò e riferite dal Malispini in volgare. Aggiunge due versi alla canzonetta sulle donne di Messina, della quale il Malispini aveva citato solo una quartina. E tutto l'immenso materiale raccolto rielabora e ricompone in un racconto nel quale l'individualità delle fonti utilizzate si perde, e le tinte troppo forti si smorzano in un quadro ampio e nitido, ma sfumato nella obiettività di una relazione quasi ufficiale. E in questo atteggiamento moderato e prudente, di chi vuole ascoltare le voci di tutti, e non vuol pronunciare giudizi eccessivi o avventati, conscio della complessa polivalenza delle cose e delle opinioni umane, è tutto il Villani, quel Villani che, di Dante stesso, ammirato da lui come ingegno e poeta sovrano, gloria imperitura di Firenze, diceva tuttavia: « Bene si dilettò nella Commedia di garrire e sclamare a guisa di poeta, forse in parte più che non si convegna; ma forse il suo esilio glielo fece fare ».
    Nel proemio stesso della sua Cronica il Villani ha esposto il suo metodo di lavoro. « E prima diremo onde fu il cominciamento della detta nostra città, conseguendo per gli tempi infinoché Dio ne concederà grazia; e non sanza grande fatica mi travaglierò di ritrarre e di ritrovare di più antichi e diversi libri, e croniche e autori, le geste e i fatti de' Fiorentini compilando in questo ». Occorre una dichiarazione più esplicita per dedurne che il Villani utilizzò la Cronaca malispimana, correggendola e integrandola nei dati, adattandone, in parte, il tono alla sua mentalità, « compilando » da essa, ma non tanto che la nuova redazione non tradisse spesso tracce dall'antico testo.
    D'altra parte, se si pensa che il Villani seguiva la prassi di tutti i cronisti medioevali, che incorporavano nelle loro opere, senza nessuno scrupolo, fonti più antiche, riadattandole in parte e continuandole con i dati desunti dalla loro particolare esperienza; se si pensa che tutta la parte leggendaria del Malispini è stata realmente rifatta dal Villani, che cercò di rendere il racconto più aderente alla tradizione degli antichi scrittori, sfrondandolo inoltre delle « belle e dilettevoli storie » , quali la novella di Belisea e Teverina; se si pensa, infine, che il materiale della cronaca malispiniana utilizzata dal Villani costituisce appena un terzo della sua opera, e che solo per gli avvenimenti dal 13oo al 1348, essa assume il particolare carattere di storia degli avvenimenti di cui il Villani aveva avuto esperienza diretta; se si considera tutto ciò, la questione delle relazioni tra il Villani e il Malispini cesserà di essere un processo di falsari e di plagiari e riacquisterà il suo vero carattere di indagine squisitamente storica, volta a illustrare il processo di formazione di una delle maggiori opere della letteratura storiografica del Medioevo.

    Alla luce di una tale indagine, la differenza di temperamento fra i due cronisti e la diversità del clima storico, nel quale si svolse la loro attività, appaiono evidenti non solo nella parte più recente della cronaca villaniana, inspirata a motivi e a interessi ch'erano estranei alla mentalità di Ricordano, ma proprio nella parte stessa che il Villani aveva mutuato dal Malispini.
    La leggenda delle origini di Fiesole e di Firenze viene infatti molto sfrondata dal Villani e accolta solo come tradizione ormai consolidata della grandezza e della nobiltà della sua Firenze in un momento d'espansione europea, come il blasone che conferisce prestigio e una grande e recente fortuna. Il Villani era ben lontano dal mondo ingenuo e favoloso del buon Ricordano, che s'indugiava a narrare della bella regina Belisea, moglie di Catilina, che andava a messa nella « calonaca di Fiesole » ! Ma anche il mondo cavalleresco di Ricordano appare rievocato, nella cronaca del Villani, con toni smorzati, come l'eco di una tradizione, se non spenta, certo non più intensamente vissuta. Come poteva infatti il Villani rievocare l'uccisione di Buondelmonte del 1215, e il divampare della lotta tra Guelfi e Ghibellini che ne fu conseguenza, con quella minuzia di particolari e quegli accenti di dolore e di deprecazione ch'erano ben naturali del Malispini, partecipe e vittima in parte delle vicende di quel tragico periodo di lotte intestine, alle quali il Villani, a distanza di circa un secolo, doveva guardare con palese distacco, se perfino la più recente lotta tra i Bianchi e i Neri e la crisi del 1301 non avevano destato nel suo animo sentimenti di viva partecipazione?

    È certo dunque che, per il periodo che va dal 1245 al 1282, la fonte principale del Villani fu la Cronaca del Malispini, con l'aggiunta dell'interpretazione e dei commenti che Dante 'aveva fatto, nella Divina Commedia, ad alcuni degli episodi più famosi della storia di Firenze del secolo XIII, narrati dal Malispini...
    Ma via via che la Cronica di messer Giovanni Villani si allontana dal secolo XIII e dal solco della cronaca malispiniana, essa conquista la sua particolare caratterizzazione e il suo più largo respiro. Il cronista sentiva potentemente l'orgoglio di essere cittadino di Firenze, per « la nobiltà e grandezza » alle quali era pervenuta la città ai suoi tempi. Firenze era allora il più grande centro bancario d'Europa e il nodo più importante della vita politica italiana. Da Firenze e per mezzo della Compagnia de' Peruzzi, che il Villani definì addirittura « la colonna della cristianità », il suo sguardo attento e acuto spaziava sull'Italia e l'Europa intera, dove i Peruzzi avevano disseminato le loro agenzie, da Cipro a Tunisi e Maiorca, da Bari a Bruges e Londra. È noto con quale sicurezza d'informazione e quale messe di dati precisi e controllati il Villani narri le vicende della lotta fra Filippo il Bello e i Fiamminghi; e i drammatici contrasti del conclave di Perugia del 1305, da cui ebbe inizio il papato avignonese; ed è noto con quale vivo interesse egli seguì lo sviluppo della vita politica ed economica della sua città ed, in genere, dei maggiori stati d'Europa, nel momento della loro massima espansione.

    II mondo del Villani è ancora un mondo medioevale, dominato dalla Provvidenza piuttosto che dalla Fortuna, ma la virtù dell'uomo appare in esso già al centro della realtà, come una forza creatrice ed operosa. A parte i motivi moralistici e religiosi consueti della cronachistica medioevale, il Villani scriveva la sua Cronica « per dar esempio, a quelli che saranno, delle mutazioni delle cose passate, e le cagioni e il perché ».
    In questa consapevolezza della continua mutazione delle vicende umane, e in questo ricercar i nessi di quelle vicende e le cagioni di quelle mutazioni, è già il senso più profondo della storia. Ed è significativo che questa coscienza della storia si affermi in una grande opera qual'è la cronaca del Villani, quasi agli albori del Rinascimento, che dell'uomo creatore della storia e della realtà umana doveva fare la più alta celebrazione.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis