Si trova nei Fioretti un
realismo, che rara volta è anche crudo - e ci meraviglia -, e sempre ci dà
l'impressione schietta dell'ambiente povero in mezzo al quale si svolge
quella vita di dedizione. Voi non potete staccare i sacrifizi dei
fraticelli dai loro miseri «luoghi», dalle casupole, dalle piazze dei
villaggi affollate di contadini e di monelli che li tirano per il capuccio,
li urtano, li coprono di polvere; come non li potete staccare dalle
foreste solitarie e mute e da quel paesaggio che, per virtù di san
Francesco, sembra anche ora il più contemplativo del mondo. Voi non
dimenticate più la campagna invernale, dove il santo insegna a frate Leone
« quelle cose che sono perfetta letizia », perché quella è una scena unica
nel libro: ma da tutte le visioni e meditazioni dei Fioretti spira
continuamente, per una virtù più religiosa che descrittiva, una
suggestione di solitudine santa. Le parole piane, il ritmo placido e
uguale dipingono, senza parere, un paesaggio limpido, dentro il quale
naturalmente l'anima si fa chiara e vede le verità nascoste e vitali.
Quella dei Fioretti è proprio la prosa del rapimento, della mansuetudine e
dell'affetto. Ha una semplicità che non è dei poveri di mente, ma di
coloro che sono abituati a sfrondare le cose del mondo. È quasi scarna, e
sembra alleggerita dalla meditazione costante sui pochi sentimenti che
reggono davvero la vita, fatta trasparente dalla dimestichezza con la
povertà che insegna quanto poche siano. le cose necessarie a vivere.
E perché chi scrive ha una lunga abitudine alla riflessione, ha lo sguardo
sicuro, penetra facilmente i caratteri, delinea con poche parole una
scena, riflette in un dialogo brevissimo i personaggi e le consuetudini
del loro spirito. Anche qui le impressioni che si staccano dal fondo del
libro, sono rare, perché quasi dovunque si tratta di uomini umili e pii.
Ma dove la materia cambia, si rivela una vivacità drammatica insospettata,
la quale - tuttavia - ha sempre la stessa fonte spirituale. Un giorno,
mentre san Francesco è in orazione nella selva, un giovane picchia « in
fretta e forte e per grande spazio » alla porta del convento: Frate Masseo
apre: - Onde vieni tu, figliolo, che non pare che tu ci fossi mai più; sì
hai picchiato disusatamente? - E come si deve picchiare? - Picchia tre
volte, l'una dopo l'altra, di rado: poi aspetta tanto che il frate abbia
detto il pater noster e venga a te; e se in questo intervallo e' non
viene, picchia un'altra volta. Il giovane ha fretta: vorrebbe parlare con
san Francesco, ma poiché questi è in contemplazione, fa chiamare frate
Elia. Frate Masseo tarda a tornare: il giovane picchia un'altra volta come
prima. Poco dopo frate Masseo viene alla porta e dice: - Tu non hai
osservata la mia dottrina nel picchiare. - Il giovane sa che frate Elia
non vuol muoversi, e gli fa comandare da san Francesco di ubbidire. «
Udendo frate Elia l'ubbidienza di santo Francesco, andò alla porta molto
turbato, e con grande impeto e romore l'aperse, e disse al giovane: - Che
vuoi tu? - Il pellegrino gli pone la sua questione; Elia gli risponde
superbamente; - Io so bene questo, ma non ti voglio rispondere; va' per
gli fatti tuoi. - Il giovane replica; - Io saprei meglio rispondere a
questa quistione, che tu. Allora frate Elia, turbato, con furia chiuse
l'uscio e partissi. Poi cominciò a pensare della detta quistione... » E
non sapendola risolvere, torna alla porta per domandarne al giovane: « ma
egli s'era già partito; imperocché la superbia di frate Elia non era degna
di parlare coll'Agnolo ». Che il pellegrino sia un angelo si presente dal
modo com'è delineata la sua figura, dal modo com'egli arriva alla porta,
dalle cose che egli mostra miracolosamente di sapere, dal misterioso
significato che ci sembra d'intravedere nel fatto che proprio durante
questa visita san Francesco « orava nella selva colla faccia levata verso
il cielo»: ma più si sente la sua natura sovrumana in questa scena dove è
accennato con un tocco così leggero e reale il profilo flemmatico del
frate portiere, e colla stessa sicurezza e con un atteggiamento più
riflessivo l'impetuosità di frate Elia.
Questi quadretti rapidi e sottili sono rari, e per la loro brevità si
dimenticano. Ma anch'essi guidano a comprendere la fisonomia e i modi
dominanti del libro. Come poco basta allo scrittore per cogliere un
movimento o un'abitudine dello spirito, così poco gli basta per dare
l'impressione della santità e della campagna romita. Egli ha una rara
esperienza della vita morale: e una sfumatura e certe pause naturali e
significative valgono per lui più di molte parole. Ha la sobrietà che
nasce dalla lucidità interiore, dall'avere per guida costante un
sentimento risoluto: qualità necessaria così al santo come al poeta.
I Fioretti sono il poema dell'umiltà, dell'aspettazione fiduciosa tutto il
resto, tutto ciò che non giova a questo sentimento, non è veduto, è come
se non esistesse. La realtà è orientata in un certo modo, e ridotta, come
avviene sempre nell'opera di un poeta: nulla vi è di estraneo a
quell'orizzonte. E perciò il libro è pieno di armonia, ed è tutto
consapevole del suo fine; e questo fine, purissimo, spira nella sua prosa
come il soffio che informa una fiala di cristallo.
Bisogna aggiungere, per dire tutta la verità, che il volume è più uguale
che ricco, che la sua arte è inconsapevole, che perciò la materia è spesso
ripetuta, non molto ordinata né collegata, e a lungo andare anche gli
atteggiamenti stilistici rivelano i limiti di quella poesia. I Fioretti
nascono da un solo motivo generatore: ma questo motivo è poco fecondo.
Perciò la lettura continua stanca, e i capitoli famosi non sono molti:
quello di frate Leone, a periodi lirici e calmi, come un inno alla
perfetta letizia; quello del lupo che, mansuefatto da san Francesco, «
entra dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare male a
persona, e senza esserne fatto a lui », e « giammai nessun cane gli
abbaiava dietro »; quello della predica agli uccelli, che alle parole del
santo aprono i becchi e distendono i colli e aprono le ali e
reverentemente inchinano i capi infino a terra, e poi si levano in aria
con meravigliosi canti evolano per i quattro punti dell'orizzonte,
presagio dolce e solenne della fortuna dei poverelli di Cristo. Ma qualche
altro meriterebbe la stessa fama: quello di sant'Antonio che predica ai
pesci, stesi dinanzi alla riva in un cerchio ordinato e grandioso,
descritti con lo stesso nitore degli uccelli, e come accarezzati dallo
stesso effetto; e quello di san Francesco che loda a frate Masseo la
povertà, ciò che non è procurato dall'industria umana ma apparecchiato
dalla provvidenza divina, il «pane accattato », « la mensa della pietra
così bella », « la fonte così chiara ».
Tutto il libro è una lode, ora sommessa, ora alta, della creazione. Ma
quando lo scrittore è dinanzi alle creature semplici - gli animali -, e
alle cose che Dio ha fatto per i bisogni immediati dell'uomo, la sua
parola si fa più commossa, acquista una tenerezza piena di gratitudine e
d'innocenza.
Così la sua ammirazione è per i tuguri coperti di graticci, per i letti
fatti di poca paglia distesa sulla nuda terra, per le anime che ignorano
il desiderio o l'orgoglio.
In questa solitudine a cui bastano un sorso e un pane, l'anima si fa più
fine e più penetrante, si sgombra dalle passioni, e la sua parola diviene
persuasiva e amorevole. Chi scrisse questo libro, dovette partecipare
delle stesse esperienze spirituali di san Francesco: altrimenti non si
spiegherebbe la naturalezza e la brevità convincente, con cui egli ritrae
la facile chiaroveggenza psicologica del protagonista e la sua spontaneità
nell'indovinare e soggiogare le anime.
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