IL TRECENTO MINORE

  • LA NOVELLA SACCHETTIANA
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    Autore: Luigi Russo Tratto da: Ritratti e disegni storici serie III

     
         

    Se il Boccaccio è il poeta delicato e sensuale e arguto dell'eterno femminino, il Sacchetti può dirsi il poeta di un'epopea comico-realistica degli animali. Gli animali ammessi nella vita dell'arte non sono una novità del mondo medievale, dal romanzo di Renard in poi, è singolare questa inclinazione del Sacchetti, per i racconti degli animali... Penso che per la sua arte barocco-popolaresca, o possiamo dire burattinesca, gli animali, con la loro ottusità o caparbietà, sono elementi ottimi di movimento in questo suo mondo fantastico di motivi elementari e spesso esagerati e macchinalizzati, per il gusto del ridere e delle botte. In ogni modo, perché non paia che si voglia stringere in una formula quella che può essere un'ispirazione complessa, io invito a leggere la più bella forse di questa novelle, quella che potremmo intitolare La coda del lupo, che non ha nulla di comico, anzi ha qualcosa di vagamente tragico e pauroso: ciò che vale a riscattare il Sacchetti dalla formula, che può diventar facile, di favolatore comico-burattinesco degli animali. Il nostro Franco è sempre uno spirito semplice, ma anche pensoso, e versatile, e davanti all'avventura di un ragazzo, che ha da lottare con un lupo, racconta, pieno di una sospesa comprensione, tutta la vicenda (nov. XVII). Il lupo è soltanto materia nominale della paurosa vicenda. Questa è proprio una delle più belle novelle animalesche del Sacchetti, appunto perché è difficile rinchiuderla in una formula: essa invece è caratteristica della sua arte narrativa, di scrittore che spesso si distrae ma il cui distrarsi è il suo più effettivo concentrarsi. Il Sacchetti, in un certo senso, va sempre fuori tema, come potrebbe fare un conversatore vivo e schietto, che discorrendo genialmente si abbandona alla volubilità, non tanto delle impressioni, ma dell'argomento. In questo, il Sacchetti mostra la sua indole ragazzesca, che fa tutt'uno con quell'indole che altre volte abbiamo chiamato popolaresca, o dilettantesca. Si potrebbe pensare che questa sia la sua arte di narratore, che muta gli argomenti durante la novella, per divertire e interessare meglio il suo uditorio; così come fa l'Ariosto e lo stesso Manzoni, che ripigliano o abbandonano i loro personaggi, per una segreta astuzia di più avvincente narrativa...

    Ma nell'Ariosto e nel Manzoni c'è una consapevolezza riflessa di questa arte di variare l'intreccio; nel Sacchetti, uomo discolo e grosso, manca codesta consapevolezza, ed egli abbandona tutto come una flottiglia di barchette su una breve corrente d'acqua, varata per giuoco da qualche monello. Si osservi, per esempio, uno dei primi paragrafi della Coda del lupo, in cui il figliuolo di Piero Brandani s'incanta davanti a quel paniere di ciliege della forese, e dimentica le sue carte giudiziarie. L'abbandono del ragazzo è l'abbandono dello stesso narratore.

    Avvenne che, aspettando il garzone, cominciò a piovere una grandissima acqua; e passando una forese, o trecca, con un paniere di ciriege in capo, il detto paniere cadde; del che le ciriege s'andarono spargendo per tutta la via; il rigagnolo della qual via ognora che piove cresce che pare un fiumicello. Il garzone volenteroso, come sono, con altri insieme, alla ruffa alla raffa si diedero a ricogliere delle dette ciriege, e infino nel rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne che, quando le ciriege furono consumate, il garzone, tornando al luogo suo, non si trovò le carte sotto il braccio, però che gli erano cadute nella dett'acqua, la quale tostamente l'avea condotte verso Arno, ed elli di ciò non s'era avveduto; e correndo or giù, or su, domanda qua, domanda là, elle furono parole, ché le carte navicavano già verso Pisa.

    E questa è la prima avventura. La seconda avventura è l'altra dell'improvvisato viaggio con i mercanti verso il Ponte Agliana, e dell'arrivo all'alberghetto di notte. Il Sacchetti non si preoccupa dei legami estrinseci del racconto; va diritto dove il suo interesse visivo e cronachistico di favolatore urgentemente lo chiama, e vi si impegna. Certamente anche questa è arte, ma direi arte nativa, dove la schiettezza e la semplicità del temperamento giuocano sempre nuove e felici sorprese al narratore. Nulla di pedantesco, nei passaggi da un bozzetto all'altro; ma uno spontaneo accorrere come di un ragazzo, che lascia il primo giuoco iniziato, per imbrancarsi in un altro giuoco più divertente offertogli da improvvisati compagni. Mancherebbe la fermezza di un interesse centrale e coordinatore; l'interesse dello scrittore si sposterebbe via via, come in una storia rappresentata per cartoni animati. Ma questa, bisogna affrettarsi a soggiungere, è soltanto l'apparenza fenomenica.

    Veggendo questi mercatanti stare questo garzone molto tapino, domandarono quello ch'egli avea e donde era: risposto alla domanda, dissono se volea stare e andare con loro.

    Al garzone parve mill'anni, e missonsi in cammino, e giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e picchiando a uno albergo, l'albergatore, che era ito a dormire, si fece alla finestra: - Chi è là? - Aprici, ché vogliamo albergare. - L'albergatore rampognando disse: - O non sapete voi che questo paese è tutto pieno di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete stati presi.

    E l'albergatore dicea il vero, ché una gran brigata di sbanditi tormentavano quel paese.

    Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed entrati dentro e governati li cavalli, dissono che voleano cenare; e l'oste disse: - lo non ci ho boccone di pane. - Risposono i mercatanti: - O come facciamo? - Disse l'oste: - lo non ci veggio se non un modo, che questo vostro garzone si metta qualche straccio indosso, sì che paia gaglioffo, e vada quassù da questa piaggia, dove troverà una Chiesa: chiami ser Cione, che è là prete, e da mia parte dica mi presti dodici pani: questo dico io, perché, se questi che fanno questi mali troveranno un garzoncello malvestito, non gli diranno alcuna cosa.

    Qui sta per l'appunto la felicità di Sacchetti narratore: egli procede col suo carico leggero, e quello che ha detto innanzi non lo preoccupa, ché egli si affisa sempre nel nuovo. Ma noi non possiamo ammettere che ci sia uno scrittore, anche elementare, che non abbia coscienza della sua arte: udire cose nuove, questa è la poetica che appare chiara allo scrittore stesso nel suo Proemio: « immaginando come la gente è vaga di udire cose nuove, e specialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa ». Sebbene in forma rozza, qui abbiamo dichiarata con parole acute e veritiere, la poetica a cui segretamente obbedisce lo scrittore. Favolatore delle cose nuove, ecco ancora una nuova definizione che possiamo dare del Sacchetti; cose nuove, cioè singolari, insolite, fuori dell'ordinario, ché questo è il significato della parola nuovo nella lingua del Trecento. Uomo nuovo, dice il Boccaccio, quando parla di Calandrino; noi forse potremmo tradurre nuovo, con singolare, ma anche con la parola buffo, quando si tolga ad essa un qualsiasi significato spregiativo e ingiurioso, così come si parla di un Palío dei buffi da un nostro caro scrittore contemporaneo. La cosa buffa o il personaggio buffo o nuovo, può non essere né una cosa da ridere né personaggio da divertire buffonescamente, ma soltanto l'esplicarsi di una vicenda strana, inaspettata, che agisce di sorpresa. Orbene il Sacchetti ama per l'appunto di abbandonarsi a bozzetti sempre nuovi, che sorprendono piacevolmente la sua fantasia, ma sempre col reticente bisogno umano di prestare la mente ai molti dolori in cui si mescolino alcune risa.

    Ed ecco la terza avventura del nostro protagonista: il viaggio pauroso in un boschetto, e l'errore del ragazzetto. Scambia la casa di un lavoratore con quella del prete Cione; anche qui il Sacchetti colorisce, pennelleggia rapidamente il nuovo racconto e non si indugia in esso.

    Mostrato la via al garzone, v'andò malvolentieri, però che era di notte, e mal si vedea. Pauroso, come si dee credere, si mosse, andandosi avviluppando or qua or là, senza trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in un boschetto, ebbe veduto dall'una parte un poco d'albore, che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso quello, credendo fosse la chiesa; e giunto là su una grande aia, s'avvisò quella essere la piazza; e'l vero era che quella era casa di lavoratore: andandosene là, e cominciò a bussare l'uscio. Il lavoratore, sentendo, grida: - Chi è là? - E 'l garzone dice: - Apritemi, ser Cione, ché il tal oste dal ponte Agliana mi manda a voi, che gli prestiate dodici pani. - Dice il lavoratore: - Che pani? ladroncello che tu se', che vai appostando per cotesti malandrini. Se io esco fuori, io te ne manderò preso a Pistoia, e farotti impiccare.
    Il garzone, udendo questo, non sapea che si fare; e stando così come fuor di sé, e volgendosi se vedesse via che 'l potesse conducere a migliore porto, sentì urlare un lupo ivi presso alla proda del bosco, e guardandosi attorno, vide sull'aia una botte, dall'uno de' lati tutta sfondata di sopra, ed era ritta; alla quale subito ricorse, ed entrovvi dentro, aspettando con gran paura quello che la fortuna di lui disponesse.


    Non ha finito di raccontare dell'equivoco, che la fantasia del narratore è come assorta in un nuovo piccolo vortice: la botte tutta sfondata, e il lupo che, per vecchiezza stizzoso (rognoso), si sfrega ad essa, e la coda entra per il cocchiume: il cocchiume, come si sa, è il turacciolo della botte; qui si indica il buco stesso della botte.

    E così stando, ecco questo lupo, come quello che era forse per la vecchiezza stizzoso, e accostandosi alla botte, a quella si cominciò a grattare; e così fregandosi, alzando la coda, la detta coda entrò per lo cocchiume. Come il garzone sentì toccarsi dentro con la coda, ebbe gran paura; ma pur veggendo quello che era, per la gran temenza si misse a pigliar la coda, e di non lasciarla mai giusto il suo podere, insino a tanto che vedesse quello che dovesse essere di lui. Il lupo, sentendosi preso per la coda, cominciò a tirare: il garzone tien forte, e tira anco elli; e così ciascuno tirando, e la botte cade, e cominciasi a voltolare. Il garzone tien forte, e lo lupo tira; e quanto più tirava, più colpi gli dava la botte addosso. Questo voltolamento durò ben due ore; e tanto, e con tante percosse dando la botte addosso al lupo, che 'l lupo si morì. E non fu però che 'l giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur la fortuna l'aiutò, ché quanto più avea tenuto forte la coda, più aveva difeso sé stesso, e offeso il lupo. Avendo costui morto il lupo, non ardì però in tutta la notte d'uscire della botte, né di lasciare la coda.


    E già questa è la quarta avventura-bozzetto. Ma il nostro Sacchetti è instancabile, e passa ancora alla quinta avventura, e anche lì colorisce il suo nuovo mimo: la sorpresa del lavoratore, quello che aveva rifiutato il pane al ragazzetto, che vede la sua botte rotolata molto lontano dall'aia di casa sua, e attribuisce l'opera ai ladri, scorge il lupo morto, crede che sia vivo ancora e si mette a gridare al lupo, al lupo.

    In sul mattino, levandosi il lavoratore, a cui il giovane avea picchiata la porta, e andando provveggendo le sue terre, ebbe veduto appié d'un burrato questa botte: cominciò a pensare, e dire fra sé medesimo: « Questi diavoli che vanno la notte, non fanno se non male, ché non altro, ma la botte mia che era in su l'aia m'hanno voltolata infino colaggiù »; e accostandosi, vide il lupo giacere allato la botte, che non parca morto. Comincia a gridare: A1 lupo, al lupo, al lupo; - e accostandosi, e correndo gli uomini del paese al romore, vidono il lupo morto, e 'l garzone nella botte.

    Chi si segnò di qua e chi di là, domandano il giovane: - Chi se' tu? che vuol dir questo? - Il garzone, più morto che vivo, che appena potea ricogliere il fiato, disse: - Io mi vi raccomandando per l'amore di Dio, che voi mi ascoltiate, e non mi fate male.

    Li contadini l'ascoltarono, per udire di sì nuova cosa la cagione, il quale disse, dalla perdita delle carte insino a quel punto, ciò che incontrato gli era. A' contadini venne grandissima pietà di costui, e dissono: - Figliuolo, tu hai aùta grandissima sventura, ma la cosa non t'anderà male, come tu credi: a Pistoia è un ordine, che chiunque uccide alcun lupo, e presentalo al Comune, ha da quello cinquanta lire.

    Ora ci si avvia alla conclusione; l'epilogo delle cinque avventure è unitario. Lo scrittore vi riprende le fila di tutto il racconto; e cambia naturalmente la tecnica del suo narrare. Nell'epilogo non ci può essere più nulla di nuovo, ed egli però lascia i modi rappresentativi-dialogici ed assume quelli rapidamente cronachistici. Nel riassunto cronachistico comincia ad affiorare la riflessione del moralista che si esplica alla fine, in un commento finale: H come la fortuna toglie, così dà; e come ella dà, così toglie ». Direi che l'unità del racconto nel vario raccontare, resta sempre la riflessione morale della fine, che però non impaccia affatto il racconto, il quale si svolge con una scioltezza di legami, dietro sempre a questo gusto del nuovo o del singolare. A una occasionale lettura, ci è capitato di osservare che la parola nuovo o nuovamente è il vocabolo che più ritorna insistente nella lingua del Sacchetti. Attraverso questo ossessivo ritorno di immagini o di parole, è possibile definire l'ispirazione, l'arte o meglio la poesia di uno scrittore. Ecco la chiusa della novella:

    Un poco tornò la smarrita vita al giovane, essendoli profferto da loro e compagnia. e aiuto a portare il detto lupo; e così accettoe. E insieme alquanti con lui, portando il lupo, pervennono all'albergo al pont'Agliana, donde si era partito, e l'albergatore della detta cosa si meraviglioe, come si dee immaginare, e disse che e' mercatanti se ne erano iti, e che egli ed eglino, veggendo non era tornato, credeano lui essere da' lupi devorato, o essere da' malandrini preso. Infine il garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoia, dal quale udita la cosa come stava, ebbe lire cinquanta; e di queste spese lire cinque in fare onore alla brigata, e con le quarantacinque, preso da loro commiato, tornò al padre; e addomandando misericordia, gli contò ciò che gli era intervenuto, e diedegli le lire quarantacinque. Il qual padre, come povero uomo, gli tolse volentieri, e perdonògli; e con li detti denari fece copiare le carte, e dell'avanzo piatìo gagliardamente.

    E perciò non si dee mai alcuno disperare, però che spesse volte, come la fortuna toglie, così dà; e come ella dà, così toglie. Chi avrebbe immaginato che le perdute carte giù per l'acqua fossero state rifatte per un lupo, che mettesse la coda per uno cocchiume d'una botte, e sì nuovamente fosse stato preso? Per certo questo è un caso e uno esemplo, non che da non disperarsi, ma di cosa che venga, non pigliare né sconforto né malinconia.


    Novellistica animalesca, epopea comico-realistica degli animali, si era detto cominciando; ma noi ci siamo adoperati a spezzare la formula, così come si fece per i racconti delle donne, perché allo scrittore quel che importa è che l'uomo dai casi strani del mondo non deve prendere né sconforto né malinconia.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis