La maggior parte delle
novelle sacchettiane, per la loro stessa natura, rifiutano la presenza di
personaggi psicologicamente complessi. Collocate, infatti, le ragioni
segrete e profonde della « commedia umana » in una regione assolutamente
remota e impraticabile, se non per atto di fede tuttora teocratica,
rimaneva necessariamente esclusa, dagli interessi narrativi del Sacchetti,
l'intenzione di penetrare nel profondo del cuore umano (là donde, per
intricata via, si generano le passioni, i gesti, le parole), e s'apriva
invece del tutto disponibile, come s'è veduto, la via per una
rappresentazione essenzialmente dinamica e realistica della vita. Il «
ritratto », inteso come studio intirnistico del carattere, nel suo
svolgersi più sottile e segreto, era pertanto inibito al Sacchetti dalla
sua stessa disposizione a cogliere esclusivamente lo svolgimento fluido e
bizzarro delle vicende umane. Placato infatti, dalla matura remissività di
una fede sicuramente provvidenziale, l'ansia dello sguardo volto a frugare
la coscienza e a interrogarne ansiosamente i battiti (spogliatasi, cioè,
della sua drammaticità più acuta la vita, ed immessasi quindi nel racconto
lietamente fuggevole), l'occhio del Sacchetti si spalancava, ormai limpido
e curioso, sul romanzesco mondo dei fatti quotidiani, sul loro strano
dispiegarsi eccitante e prestigioso. Entro questo ritmo concitato, entro
questo incrocio sempre nuovo di azioni concorrenti o contrastanti, è
naturale che le figure umane non si accampassero mai in una loro solitaria
e immobile evidenza, ma entrassero, direi anzi si presentassero (« Uno
contadino di Francia mi si fa innanzi a volere che io lo descriva in un
suo sottile accorgimento... », nov. CXCV), per lo più appena di scorcio o,
ad ogni modo, per segni o cenni rapidissimi. Figure come quelle
sacchettiane, non collocate mai idealmente in una ferma aria rarefatta
(l'aria assorta e senza tempo della lirica o della prosa poetica), ma
piuttosto liberamente sfrenate nell'impeto di un vento fluido e veloce,
malamente sopportavano, da parte del loro stesso inventore, indugi troppo
compiaciuti o soste troppo tenere e sentimentali. Perché la loro sorte era
segnata sin dal loro apparire e il loro destino era proprio quello di
bruciarsi festevolmente, senza interno « romanzo », nel ritmo serrato e
incalzante delle loro stesse avventure.
Perciò queste figure non possono né pretendono restare nella nostra
memoria come cospicui personaggi autonomi, creature esemplari (anime,
coscienze, caratteri). Incorporate saldamente nel tessuto vivo del
racconto esse ne costituiscono semplicemente uno dei tanti elementi:
quello più essenziale, forse, ma non per questo meno « funzionale » degli
altri. Per questo, a lettura ultimata non tendono a riaffiorare in noi con
profilo indipendente e staccato, ma sempre ci appaiono, nella fantasia,
entro la cornice del luogo in cui operarono, sotto le spoglie misere o
estrose che indossarono, avvinte indissolubilmente al nodo romanzesco che
le strinse e che per un attimo le trasse dalla loro cronaca anonima e le
proiettò entro l'agile movimento di un imprevedibile accidente, di una
azione irresistibile e soverchiante. Ciò che dobbiamo, dunque, mettere in
luce in questi personaggi non è già quella complessità psicologica che ad
essi era costituzionalmente negata, ma piuttosto la pura forza
rappresentativa della loro « comparsa » nel racconto ossia del loro
inserirsi e manifestarsi in esso.
Sotto questo punto di vista, entro questi termini precisi e ben definiti,
le figure del Trecentonovelle appaiono quasi sempre realizzate con occhio
attento e obbiettivo, con piglio sicuro, con tratti rapidi e icastici, sia
che si presentino nel racconto quasi di soppiatto, sia invece che vi
appaiano ampiamente rincalzate di particolari descrittivi o caratterizzate
con gustoso umore e felicissimo estro. Queste variazioni tra opposti casi
limite (tra una fugace sottolineatura, cioè, di certe « costanti »
esteriori e una tipizzazione all'opposto, minuta, risentita e oltremodo
sapida) può essere testualmente illustrata partendo da taluni esempi
minimi, oscillanti tra l'esigua nota fisica e quella di costume
(acconciatura e foggia), per giungere poi addirittura a certi « ritratti
», più ricchi ed impegnati, nei quali vediamo entrare in gioco non
soltanto il consueto spirito d'osservazione disinteressata e di
definizione aneddotica del Sacchetti, ma anche il suo genio divertito
della deformazione inventiva o quello polemico della caricatura
felicemente immaginosa...
La ragione di questa variazione va soprattutto ricercata, secondo me,
nella particolare parte che assumono di volta in volta nel racconto i
personaggi sacchettiani, giusto in rapporto al diverso carattere delle
novelle a cui essi appartengono. Tralasciando, infatti, i racconti più
brevi e schematici, dove è evidente che il personaggio è deliberatamente
ridotto a una funzione esigua e quasi irrilevante (fondandosi l'autore, in
questi casi, unicamente sul brio e sull'arguzia dei motti o sulla modesta
animazione di una « scenetta »), occorre per altro fare una distinzione
preventiva anche fra le novelle maggiori del Sacchetti, identificando tra
esse quelle più propriamente narrative e quelle, invece, essenzialmente
rappresentative e dialogate. Si tratta naturalmente di una distinzione non
assoluta né, tanto meno, decisiva, essendo le stesse novelle narrative
ricche, a loro volta, di scene e di battute dirette, così come quelle
rappresentative non mancano mai di frammenti discorsivi, anche ampi, quali
elementi di raccordo e di sostegno. Si tratta, caso mai, di prevalenza
saltuaria di un elemento sull'altro e di diversa impostazione e avvio
iniziale. In alcune novelle sacchettiane, comunque, l'intreccio dei casi
ha senza dubbio la prevalenza sul movimento puro dell'azione, sì che il
racconto disteso vi spesseggia rispetto ai modi rappresentativi e scenici,
alla frequenza delle voci. Qui il gioco gratuito e gustoso dell'imprevisto
non è governato dal semplice caso fortuito, dall'accidente occasionale;
qui i personaggi conservano ancora, ben definito, il carattere di
protagonisti attivi della vicenda, la quale appare così determinata da un
loro calcolo ben predisposto e quindi controllato dalla loro discrezione e
dalla loro intelligenza. In queste novelle i personaggi ci appaiono
segnati generalmente da una descrizione preventiva quanto mai veloce ed
esterna, mentre la loro vera caratterizzazione resta affidata allo
sviluppo della novella stessa e al modo tutto particolare con cui essi
creano, a ragion veduta, la situazione e quindi vi entrano nel bel mezzo,
vi agiscono, e infine, ne escono, con libera decisione. In questo caso i
dati preliminari non sono per nulla « incidenti » rispetto all'azione vera
del racconto; e sono, invece, del tutto estranei, o almeno marginali, come
una semplice didascalia « storica », un elemento aggiuntivo di colore.
Penso, fra l'altro, a quel Basso della Penna, di cui sappiamo appena che «
era vecchio e piccolo di persona e sempre pettinato andava in zazzera e in
cuffia », e la cui immagine tuttavia sopravvive in noi, davvero
memorabile, in virtù di quella sua straordinaria loica piacevolezza,
dimostrata apertamente « insino nell'ultimo della sua morte ».
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