CRITICA: SCAPIGLIATURA E VERISMO

 LA PARABOLA DELLA SCAPIGLIATURA

 AUTORE: Giansiro Ferrata         TRATTO DA: Parabola della Scapigliatura

 

Un'ansia interiore s'avverte in Praga, in Camerana, nei due Boito, in Dossi, come maggiormente in Tarchetti, e ha echi e confronti nella pittura di Ranzoni, di Cremona se non proprio nel Mefistofele; non ne vanno esenti gli scapigliati minori: avventura e malinconia li inquietano, anche, dall'intimo, l'impazienza del bene a tratti li ispira. È il fondo genuino della polemica antiborghese che si prolungò in atteggiamenti pseudo-romantici, e in qualche passione schietta per l'osteria; questi buontemponi, rappresentano anche una crisi sofferta da alcuni fino al suicidio o alla disperazione intera.
Forse si spiega il bisticcio col succedersi tra ideale e temporale di due borghesie. Se la borghesia da un lato è decorso esterno, di «medio tono», e rifiuto al sentire, da un altro è appetito infantile, rassegnazione e vivacità nell'accettare la sorte. Furono, in qualche modo, antiborghesi gli scapigliati nel primo aspetto, borghesissimi nel secondo - esprimendo, in anticipo, uno sviluppo della borghesia dei nostri tempie Molto timor di Dio cominciò a sparire fra noi col '60. Ambizioni e malinconie dedicate all'Assoluto della vita su questa terra, si diffusero tra i sepolcri delle civiltà regionali; la «borghesia» tenne fede al lavoro e, in generale, non tralasciò la decenza, ma decenza sempre più corrotta nel fondo dal bisogno, dall'ansia d'avere. (Non denaro soltanto ma autorità, esperienza, piaceri, amori.; è noto quanto si siano estese, nel secolo che trattiamo, la pratica e la poesia dell'adulterio). Il romanticismo minore degli scapigliati potrebbe apparirci l'esperimento in partibus di una novità di costumi introdottasi a poco a poco in una società industriale. Troveremmo nel loro fermento l'ingenuità indicatrice d'una speciale infanzia di classe: risolta, poi, in forme mature, con un'astuzia diversa.
Davvero, la società scapigliata dà segni d'un trapasso verso umori scettici nel proprio conformismo a venire, e di qualità spregiudicata. Certe velleità umanitarie, certe proteste sociali della Scapigliatura, somigliano da vicino a un presentimento di colpa perduto nel disordine.
Scemate, con le facilità del '59, le ansie civili e patriottiche, scomparso il vero richiamo al sacrificio, la borghesia milanese, ossia la più ardita borghesia italiana, trovava la previsione oscura d'una vacanza morale; e gli Scapigliati ne furono, quasi, il preventivo rimorso, coi propri slanci confusi. Ma in senso artistico? La borghesia in senso artistico non ha né crisi né rimorsi. Verso la poesia essa è semplice come verso il denaro. Nel sentimento, nella piacevolezza, cerca necessariamente il facile; e il positivo dell'epoca poteva incontrarsi nel suo cuore coi rami sfioriti della poesia più sdolcinata, nel tempo trionfale di Giovanni Prati. Frasi come questa del gran maestro della Famiglia artistica scapigliata, «... uno di quegli impeti che sono gli starnuti dell'anima», esteticamente sono borghesi più in là d'ogni evoluzione e categoria. Così i versi fescennini dello stesso Bignami:

 

Noi siamo artisti,
siamo antecristi,
dei tempi tristi,
ce ne infischiam.
Del sanfedismo,
del panteismo,
del socialismo,
non ci curiam.
Facce ridenti
buoni acquirenti
solo cerchiam.
Di gente stitica
o paralitica
che fa la critica
corna diciam.
Delle modelle
più fresche e belle
noi per la pelle
amici siam. .. ,


esprimono un sentimento borghese-puro della satira permessa all'arte, al «libero genio». «Diavolo tentatore delle festività scapigliate», Bignami era amicissimo di Cremona, di Carcano e amico di Carlo Dossi. Se il suo inno avesse un riferimento sufficiente di psicologia estetica al loro lavoro, bisognerebbe approvare in assoluto il Madini per le insistenze sul cibo; la Scapigliatura avrebbe per testo decisivo un «Re dei cuochi» curiosamente illustrato.
Invece, anche nel senso come per i costumi, la Scapigliatura si adorna d'un vivo contrasto. Fedele da più d'un lato all'ambiente gastronomico-utilitario, da altri gli è avversa con una spontaneità molto semplice. Borghesia e antiborghesia, possono anzi apparire gli estremi allegorici del suo pendolo per l'espressione, come due forme borghesi limitano la crisi accennata nel costume. E si noti: non basta qui una distinzione di nomi, scegliere tra artisti «vivi» e artisti d'imbroglio. Il contrasto fiorisce volentieri sotto la medesima mano, da una pagina all'altra, o da un periodo all'altro di questi libri inquieti, incerti, quasi sperimentali...

«Scapigliatura» fu definizione di Cletto Arrighi o in verità, Carlo Righetti, ardito giornalista e letterato in vernacolo e in lingua dell'epoca, fondatore della Cronaca grigia. Si parla per la prima volta di Scapigliatura nel n. 20 di questo giornaletto pettegolo e inconclusivo, il 13 aprile 1861, ma in un'accezione lontana da quella che s'affermò infine. L'Arrighi chiama scapigliati i patrioti milanesi della Compagnia Brusca e d'altri gruppi popolari e mazzineggianti che, dal '49 alla strage del '53, disturbarono la restaurazione austriaca; gli eroi d'un suo romanzo, o storia romanzata, letto da molti allora, pensiamo per l'argomento. Non sapremmo come né in che tempo si definissero con autorità «scapigliati» i nostri personaggi d'ora. Una coscienza «scapigliata» certo non fu avventura facile dal '6o al '70, fin che gli individui ebbero la meglio sui gruppi; il termine nel suo senso ultimo s'immaginerebbe tardivo, e contemporaneo forse alle mascherate della Famiglia artistica, nel ribollimento degli scapigliati minori e più soddisfatti e cordiali, curiosi già d'una tradizione interna.

Questi periodici milanesi del '60, la Cronaca grigia, la Rivista minima, l'Emporio Pittoresco, sembrano narrarci in figure così la dispersione come la tristezza che sorprendono la poesia in un'epoca baldanzosa e pratica dalla quale non riesca a togliersi. Si approfondisce Praga anche scoprendo l'annunzio editoriale di Fiabe e Leggende in un elenco, che le aggiunge alla nuovissima cabala del lotto e agli Ultimi coriandoli dell'Arrighi, o le sue note a lapis dall'Olanda, dal San Gottardo, tra cento aneddoti di teatro assolutamente inerti, ma sentiti nell'intimo come un romanzo; le improvvise demenze espressive di Tarchetti sono più chiare, a chi veda i suoi racconti stampati tutt'intorno, in uno spazio di cinque-sei righe, alla fotografia d'un «quadro» francese d'odalische al bagno o a un frammento d'enciclopedia popolare sulla Persia, in caratteri pallidi e sempre sporchi d'inchiostro. Né era questa l'umiliazione estrema d'una letteratura, che, su altri fogli, potesse sperare un minimo di decoro esterno. Senza Ghislanzoni e Arrighi, e senza le Strenne, ripetute ogni capodanno in uno stile sempre più Sonzogno, poesie e prosa scapigliate non avrebbero trovato sfogo che nel Pungolo di Leone Fortis o nel Gazzettino Rosa, quotidiani di disperatissima lingua e simili a pagine pubblicitarie...

Una coltura che ha per miglior luogo di ritrovo la Rivista minima di Ghislanzoni, si presenta subito zoppa. Cercheremo invano, difatti, tra gli scapigliati, uno scambio d'idee o d'immagini coerente, una polemica decisa o un accordo vivace. Si è favoleggiato d'una loro estetica della affinità delle arti; ma le prove sono meschine quanto indiziarie, si riducono infine all'incapacità che ebbe Rovani di caratterizzare uno scrittore senza ricorrere a un pittore, un pittore senza ricorrere a un musicista; o vaghe impressioni critiche come la pennellata «musicale» di Cremona, la poesia cantabile di Boito, la poesia «coloristica» di Praga. Furono Dossi e Lucini a ricostruire in sede di nostalgia le idee della Scapigliatura, ma poverissime idee: chi spii tra le Note azzurre il palpito d'una «genialità» diffusa nell'ambiente e restata informe, come asserì Lucini in un momento di temperanza, scopre una stolta verbosità provinciale, su un'assenza di spirito. Dossi in persona fu vittima delle orazioni religiosamente udite al tavolo di Rovani. «L'ampollino d'olio finissimo» che la sorte aveva concesso alla sua Musa, si sarebbe versato ugualmente intero nelle operette d'adolescenza, pensiamo, se a quei discorsi egli avesse chiuso gli orecchi; ma lasciandogli tutt'altra voglia d'intendere, di distinguere. La scapigliatura fu per i suoi ragazzi più dotati - Tarchetti e Dossi - come l'imposizione intellettuale d'un dialetto.
Un'energia l'ebbe così almeno negativamente, dalla propria illusione culturale? Strana energia se i paesaggi dietro le voci e gli sguardi dei maggiori commensali al tavolo di Rovani («beve a loro una lezion d'estetica»), i gusti, le simpatie, i miti, manifestati da essi in pittura o in letteratura, in ideologia o in musica, rivelano sensi così estranei...

S'immaginerebbe che un fermento combattivo interno movimentasse le ore libere degli Scapigliati; Milano s'affacciava nuovamente a una nuova Europa e c'era tanto in essa da trovare e da ritrovare. Inquieti, «ribelli», ebbri di vino e di parole, gli amici avrebbero dovuto, sembra, soprattutto discutere; sciogliere così anche le immaginazioni rinchiuse e, fra tanti esempi, fra tanti indizi, liberare almeno una coltura di ricerca ostile ad indugi sulle idee ricevute, audace ed aspra.
Ma una verità comune - oltre che evidentemente il basso grado di virtù quotidiana di quei miti personali - bastò a fissare gli incontri scapigliati su una teologia negativa. Una parola ora abusata l'esprime: si soddisfarono tutti d'un contenuto, esteso nella polemica sommaria contro ciò che sapesse di forma per la forma, di canoni bigotti. Proprio la modernità spirituale che alcuni attribuirono a Rovani si riassume in questa ormai corrotta ma, qui, fedele parola: egli fu «contenutista» nel sentire in Manzoni, idolo musagete, soltanto la dottrina dell'armonia tra arte e storia e sottoporle la bellezza dei Promessi Sposi; fu contenutista nei raffronti ostinati tra arte e arte, quando avvicinò Bellini a Tommaso Grossi e Verdi a Giovanni Prati, a Victor Hugo e a Vincenzo Vela (poiché di musica, in verità, questo despota musicale capiva pochissimo, Verdi lo spaventava per un eccesso d'antiformalismo, lo faceva gemere di «glebe» ineducate); fu contenutista nel giudicare pittori e scultori, di regola, dall'aderenza al soggetto, dalla psicologia colta nei loro personaggi o nei loro ambienti...

La cultura estetica degli Scapigliati si direbbe d'un naturalismo svolto su modelli apocrifi, senza una moralità concreta nell'opera che era governata da uno scompiglio «sensibili», o, nei casi più vivi, da una sensibilità generosa. Un equivoco identico coprì gli spunti sociali, civili di quei gruppi e in genere di quell'ora; l'uomo rappresentò per essa una immagine così inquietante da non poter determinare il sistema d'una civiltà volontaria; e se i milanesi si consolarono nel sognare un socialismo facile come la beneficenza (dove trovarono l'alibi politico fino al sangue del '98) Milano scapigliata non seppe ritagliarvi altro che una tristezza già paragonata, in queste pagine, al rimorso.
Ritornando agli scrittori vorremmo aggiungere, che il povero Tarchetti, restato di cuore solitario nonostante le collaborazioni alla Rivista minima, al Gazzettino Rosa e all'Emporío Pittoresco, qualcosa di più vivo che Rovani riuscì a dire e di più deciso, particolare, impaziente, azzardato che gli altri. La stessa temerità contro Manzoni fu un segno di ricerca della sensibilità oltre il puro «sensibile», un tentativo d'inoltrarsi anche con l'intelligenza nel proprio mito; ma non era mente Tarchetti da poter esprimere sensi riflessivi o critici d'una qualsiasi durata. Ozioso nella variazione e intemperante nel gusto, aveva da ripetere soltanto una preparazione all'opera, o da cantare una volontà spirituale resa ingenua dal disordine. Più intenso, nell'interesse orale, che Praga o Dossi, non superò comunque una sincerità adolescente, che sin dagli accenti migliori manca di forze eccitatrici verso un approfondimento organico. Fu troppo vago, quando non fu infantile. « Quella misteriosa espiazione che tutti sentono di subire nella vita, diventa sempre attiva e più travagliosa quanto più la vita stessa si avvicina al suo termine, o sia che l'espiazione affretti e addolori di più il termine della vita, o che il volgersi più rapido della vita al suo fine rincrudisca esso stesso la espiazione... Tutto il meraviglioso dei sogni consiste in quella ignoranza della verità e in quell'importanza di criterio che ha luogo per ciascuno in quello stato; lo stesso può dirsi di quel dolce signore dei fanciulli, ad occhi aperti, e di quell'eterno vaneggiare e fantasticare che molti uomini semplici e immaginosi fanno anche in età più avanzata... Da ciò parmi poter dedurre che se la verità e il senso pratico della vita rendono più leciti e più nobili i nostri piaceri, ne rendono però il numero più ristretto, e la varietà e le circostanze più castigate, e talora li inaridiscono per modo che non possiamo trarne altro conforto che quello di poter dire: Sono veri! ». Poterono accompagnarsi a queste le «riflessioni» più generiche sul destino dell'uomo; egli le coglieva nel sentimento con un'abbandonata indifferenza per il grado dell'espressione (tutto gli pareva dicibile, per aforisma, purché alludesse al bisogno della giustizia o alla necessità del dolore), ed esclusero il moralismo di Tarchetti da ogni verità sperimentata nella sua storia, approfondita nel suo sistema. Così non poteva essere nemmeno incisiva nel tempo.

Dossi resta il solo che abbia dato alla Scapigliatura un certo sapore critico. Egli era inclinato a forme di scomposizione intellettuale, che, da una sentita attenzione a se stesso («A scrivere io soffro. Ogni linea è per me un dolore. A chi è condannato a molto pensare, Dio avrebbe dovuto concedere per lo meno un paio di cervelli indipendenti fra loro... Così invece bisogna soggiacere agli stupori mentali prodotti dal rilasciarsi dei nervi; così, bisogna aspettare il riflusso delle idee, come l'onda del mare. La più parte degli scrittori hanno la parola e non i pensieri. Io con i pensieri non ho la parola») volevano raggiungere motivi di moralità e di poetica proprio a far tono, a un'uguale altezza. Ma Rovani . costituì dall'inizio fino alla fine il suo limite, nella direzione che più importa, perché Dossi si accontentò di quel facile ardore di protesta. Non pensò mai da solo, ma da un ambiente. Con Dossi la Scapigliatura sfiora l'ipercritica della Voce senza lasciare le premesse. Rimane provinciale, «ambrosiana», per una fedeltà di campanile, e la sua parabola di coltura si conclude sullo stesso punto da cui era partita come i salti mortali che le Note azzurre, con una punta orgogliosa, riferiscono al proprio autore.
È certamente dal lato della sensibilità ch'essa poteva procedere, non dal lato della coscienza. In tale senso infatti la «parabola» ha una figura concreta; da Rovani, da Arrighi, da Ghislanzoni, introduttori esterni perché privi d'un fondo sensibile da coltivare, essa giunge ai versi e alla prosa di Praga, di Tarchetti, di Camerana e di Dossi, in parte di Camillo Boito -, alla pittura di Cremona e a qualche quadro di Ranzoni, legati variamente nell'immagine d'un impressionismo trepido e sincero, primitivo, e in certo strano modo, fecondo; scende, poi, verso la letteratura e la musica dell'ultimo Arrigo Boito, esemplari del riassorbimento scapigliato in una forma d'esteriorità consolatrice schiettamente borghese.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis