Un'ansia interiore s'avverte in Praga, in Camerana, nei due
Boito, in Dossi, come maggiormente in Tarchetti, e ha echi e
confronti nella pittura di Ranzoni, di Cremona se non proprio
nel Mefistofele; non ne vanno esenti gli scapigliati minori:
avventura e malinconia li inquietano, anche, dall'intimo,
l'impazienza del bene a tratti li ispira. È il fondo genuino
della polemica antiborghese che si prolungò in atteggiamenti
pseudo-romantici, e in qualche passione schietta per
l'osteria; questi buontemponi, rappresentano anche una crisi
sofferta da alcuni fino al suicidio o alla disperazione
intera.
Forse si spiega il bisticcio col succedersi tra ideale e
temporale di due borghesie. Se la borghesia da un lato è
decorso esterno, di «medio tono», e rifiuto al sentire, da un
altro è appetito infantile, rassegnazione e vivacità
nell'accettare la sorte. Furono, in qualche modo, antiborghesi
gli scapigliati nel primo aspetto, borghesissimi nel secondo -
esprimendo, in anticipo, uno sviluppo della borghesia dei
nostri tempie Molto timor di Dio cominciò a sparire fra noi
col '60. Ambizioni e malinconie dedicate all'Assoluto della
vita su questa terra, si diffusero tra i sepolcri delle
civiltà regionali; la «borghesia» tenne fede al lavoro e, in
generale, non tralasciò la decenza, ma decenza sempre più
corrotta nel fondo dal bisogno, dall'ansia d'avere. (Non
denaro soltanto ma autorità, esperienza, piaceri, amori.; è
noto quanto si siano estese, nel secolo che trattiamo, la
pratica e la poesia dell'adulterio). Il romanticismo minore
degli scapigliati potrebbe apparirci l'esperimento in partibus
di una novità di costumi introdottasi a poco a poco in una
società industriale. Troveremmo nel loro fermento l'ingenuità
indicatrice d'una speciale infanzia di classe: risolta, poi,
in forme mature, con un'astuzia diversa.
Davvero, la società scapigliata dà segni d'un trapasso verso
umori scettici nel proprio conformismo a venire, e di qualità
spregiudicata. Certe velleità umanitarie, certe proteste
sociali della Scapigliatura, somigliano da vicino a un
presentimento di colpa perduto nel disordine.
Scemate, con le facilità del '59, le ansie civili e
patriottiche, scomparso il vero richiamo al sacrificio, la
borghesia milanese, ossia la più ardita borghesia italiana,
trovava la previsione oscura d'una vacanza morale; e gli
Scapigliati ne furono, quasi, il preventivo rimorso, coi
propri slanci confusi. Ma in senso artistico? La borghesia in
senso artistico non ha né crisi né rimorsi. Verso la poesia
essa è semplice come verso il denaro. Nel sentimento, nella
piacevolezza, cerca necessariamente il facile; e il positivo
dell'epoca poteva incontrarsi nel suo cuore coi rami sfioriti
della poesia più sdolcinata, nel tempo trionfale di Giovanni
Prati. Frasi come questa del gran maestro della Famiglia
artistica scapigliata, «... uno di quegli impeti che sono gli
starnuti dell'anima», esteticamente sono borghesi più in là
d'ogni evoluzione e categoria. Così i versi fescennini dello
stesso Bignami:
Noi siamo artisti,
siamo antecristi,
dei tempi tristi,
ce ne infischiam.
Del sanfedismo,
del panteismo,
del socialismo,
non ci curiam.
Facce ridenti
buoni acquirenti |
solo cerchiam.
Di gente stitica
o paralitica
che fa la critica
corna diciam.
Delle modelle
più fresche e belle
noi per la pelle
amici siam. .. , |
esprimono un sentimento borghese-puro della satira permessa
all'arte, al «libero genio». «Diavolo tentatore delle
festività scapigliate», Bignami era amicissimo di Cremona, di
Carcano e amico di Carlo Dossi. Se il suo inno avesse un
riferimento sufficiente di psicologia estetica al loro lavoro,
bisognerebbe approvare in assoluto il Madini per le insistenze
sul cibo; la Scapigliatura avrebbe per testo decisivo un «Re
dei cuochi» curiosamente illustrato.
Invece, anche nel senso come per i costumi, la Scapigliatura
si adorna d'un vivo contrasto. Fedele da più d'un lato
all'ambiente gastronomico-utilitario, da altri gli è avversa
con una spontaneità molto semplice. Borghesia e antiborghesia,
possono anzi apparire gli estremi allegorici del suo pendolo
per l'espressione, come due forme borghesi limitano la crisi
accennata nel costume. E si noti: non basta qui una
distinzione di nomi, scegliere tra artisti «vivi» e artisti
d'imbroglio. Il contrasto fiorisce volentieri sotto la
medesima mano, da una pagina all'altra, o da un periodo
all'altro di questi libri inquieti, incerti, quasi
sperimentali...
«Scapigliatura» fu definizione di Cletto Arrighi o in verità,
Carlo Righetti, ardito giornalista e letterato in vernacolo e
in lingua dell'epoca, fondatore della Cronaca grigia. Si parla
per la prima volta di Scapigliatura nel n. 20 di questo
giornaletto pettegolo e inconclusivo, il 13 aprile 1861, ma in
un'accezione lontana da quella che s'affermò infine. L'Arrighi
chiama scapigliati i patrioti milanesi della Compagnia Brusca
e d'altri gruppi popolari e mazzineggianti che, dal '49 alla
strage del '53, disturbarono la restaurazione austriaca; gli
eroi d'un suo romanzo, o storia romanzata, letto da molti
allora, pensiamo per l'argomento. Non sapremmo come né in che
tempo si definissero con autorità «scapigliati» i nostri
personaggi d'ora. Una coscienza «scapigliata» certo non fu
avventura facile dal '6o al '70, fin che gli individui ebbero
la meglio sui gruppi; il termine nel suo senso ultimo
s'immaginerebbe tardivo, e contemporaneo forse alle mascherate
della Famiglia artistica, nel ribollimento degli scapigliati
minori e più soddisfatti e cordiali, curiosi già d'una
tradizione interna.
Questi periodici milanesi del '60, la Cronaca grigia, la
Rivista minima, l'Emporio Pittoresco, sembrano narrarci in
figure così la dispersione come la tristezza che sorprendono
la poesia in un'epoca baldanzosa e pratica dalla quale non
riesca a togliersi. Si approfondisce Praga anche scoprendo
l'annunzio editoriale di Fiabe e Leggende in un elenco, che le
aggiunge alla nuovissima cabala del lotto e agli Ultimi
coriandoli dell'Arrighi, o le sue note a lapis dall'Olanda,
dal San Gottardo, tra cento aneddoti di teatro assolutamente
inerti, ma sentiti nell'intimo come un romanzo; le improvvise
demenze espressive di Tarchetti sono più chiare, a chi veda i
suoi racconti stampati tutt'intorno, in uno spazio di
cinque-sei righe, alla fotografia d'un «quadro» francese
d'odalische al bagno o a un frammento d'enciclopedia popolare
sulla Persia, in caratteri pallidi e sempre sporchi
d'inchiostro. Né era questa l'umiliazione estrema d'una
letteratura, che, su altri fogli, potesse sperare un minimo di
decoro esterno. Senza Ghislanzoni e Arrighi, e senza le
Strenne, ripetute ogni capodanno in uno stile sempre più
Sonzogno, poesie e prosa scapigliate non avrebbero trovato
sfogo che nel Pungolo di Leone Fortis o nel Gazzettino Rosa,
quotidiani di disperatissima lingua e simili a pagine
pubblicitarie...
Una coltura che ha per miglior luogo di ritrovo la Rivista
minima di Ghislanzoni, si presenta subito zoppa. Cercheremo
invano, difatti, tra gli scapigliati, uno scambio d'idee o
d'immagini coerente, una polemica decisa o un accordo vivace.
Si è favoleggiato d'una loro estetica della affinità delle
arti; ma le prove sono meschine quanto indiziarie, si riducono
infine all'incapacità che ebbe Rovani di caratterizzare uno
scrittore senza ricorrere a un pittore, un pittore senza
ricorrere a un musicista; o vaghe impressioni critiche come la
pennellata «musicale» di Cremona, la poesia cantabile di
Boito, la poesia «coloristica» di Praga. Furono Dossi e Lucini
a ricostruire in sede di nostalgia le idee della
Scapigliatura, ma poverissime idee: chi spii tra le Note
azzurre il palpito d'una «genialità» diffusa nell'ambiente e
restata informe, come asserì Lucini in un momento di
temperanza, scopre una stolta verbosità provinciale, su
un'assenza di spirito. Dossi in persona fu vittima delle
orazioni religiosamente udite al tavolo di Rovani. «L'ampollino
d'olio finissimo» che la sorte aveva concesso alla sua Musa,
si sarebbe versato ugualmente intero nelle operette
d'adolescenza, pensiamo, se a quei discorsi egli avesse chiuso
gli orecchi; ma lasciandogli tutt'altra voglia d'intendere, di
distinguere. La scapigliatura fu per i suoi ragazzi più dotati
- Tarchetti e Dossi - come l'imposizione intellettuale d'un
dialetto.
Un'energia l'ebbe così almeno negativamente, dalla propria
illusione culturale? Strana energia se i paesaggi dietro le
voci e gli sguardi dei maggiori commensali al tavolo di Rovani
(«beve a loro una lezion d'estetica»), i gusti, le simpatie, i
miti, manifestati da essi in pittura o in letteratura, in
ideologia o in musica, rivelano sensi così estranei...
S'immaginerebbe che un fermento combattivo interno
movimentasse le ore libere degli Scapigliati; Milano
s'affacciava nuovamente a una nuova Europa e c'era tanto in
essa da trovare e da ritrovare. Inquieti, «ribelli», ebbri di
vino e di parole, gli amici avrebbero dovuto, sembra,
soprattutto discutere; sciogliere così anche le immaginazioni
rinchiuse e, fra tanti esempi, fra tanti indizi, liberare
almeno una coltura di ricerca ostile ad indugi sulle idee
ricevute, audace ed aspra.
Ma una verità comune - oltre che evidentemente il basso grado
di virtù quotidiana di quei miti personali - bastò a fissare
gli incontri scapigliati su una teologia negativa. Una parola
ora abusata l'esprime: si soddisfarono tutti d'un contenuto,
esteso nella polemica sommaria contro ciò che sapesse di forma
per la forma, di canoni bigotti. Proprio la modernità
spirituale che alcuni attribuirono a Rovani si riassume in
questa ormai corrotta ma, qui, fedele parola: egli fu
«contenutista» nel sentire in Manzoni, idolo musagete,
soltanto la dottrina dell'armonia tra arte e storia e
sottoporle la bellezza dei Promessi Sposi; fu contenutista nei
raffronti ostinati tra arte e arte, quando avvicinò Bellini a
Tommaso Grossi e Verdi a Giovanni Prati, a Victor Hugo e a
Vincenzo Vela (poiché di musica, in verità, questo despota
musicale capiva pochissimo, Verdi lo spaventava per un eccesso
d'antiformalismo, lo faceva gemere di «glebe» ineducate); fu
contenutista nel giudicare pittori e scultori, di regola,
dall'aderenza al soggetto, dalla psicologia colta nei loro
personaggi o nei loro ambienti...
La cultura estetica degli Scapigliati si direbbe d'un
naturalismo svolto su modelli apocrifi, senza una moralità
concreta nell'opera che era governata da uno scompiglio
«sensibili», o, nei casi più vivi, da una sensibilità
generosa. Un equivoco identico coprì gli spunti sociali,
civili di quei gruppi e in genere di quell'ora; l'uomo
rappresentò per essa una immagine così inquietante da non
poter determinare il sistema d'una civiltà volontaria; e se i
milanesi si consolarono nel sognare un socialismo facile come
la beneficenza (dove trovarono l'alibi politico fino al sangue
del '98) Milano scapigliata non seppe ritagliarvi altro che
una tristezza già paragonata, in queste pagine, al rimorso.
Ritornando agli scrittori vorremmo aggiungere, che il povero
Tarchetti, restato di cuore solitario nonostante le
collaborazioni alla Rivista minima, al Gazzettino Rosa e all'Emporío
Pittoresco, qualcosa di più vivo che Rovani riuscì a dire e di
più deciso, particolare, impaziente, azzardato che gli altri.
La stessa temerità contro Manzoni fu un segno di ricerca della
sensibilità oltre il puro «sensibile», un tentativo
d'inoltrarsi anche con l'intelligenza nel proprio mito; ma non
era mente Tarchetti da poter esprimere sensi riflessivi o
critici d'una qualsiasi durata. Ozioso nella variazione e
intemperante nel gusto, aveva da ripetere soltanto una
preparazione all'opera, o da cantare una volontà spirituale
resa ingenua dal disordine. Più intenso, nell'interesse orale,
che Praga o Dossi, non superò comunque una sincerità
adolescente, che sin dagli accenti migliori manca di forze
eccitatrici verso un approfondimento organico. Fu troppo vago,
quando non fu infantile. « Quella misteriosa espiazione che
tutti sentono di subire nella vita, diventa sempre attiva e
più travagliosa quanto più la vita stessa si avvicina al suo
termine, o sia che l'espiazione affretti e addolori di più il
termine della vita, o che il volgersi più rapido della vita al
suo fine rincrudisca esso stesso la espiazione... Tutto il
meraviglioso dei sogni consiste in quella ignoranza della
verità e in quell'importanza di criterio che ha luogo per
ciascuno in quello stato; lo stesso può dirsi di quel dolce
signore dei fanciulli, ad occhi aperti, e di quell'eterno
vaneggiare e fantasticare che molti uomini semplici e
immaginosi fanno anche in età più avanzata... Da ciò parmi
poter dedurre che se la verità e il senso pratico della vita
rendono più leciti e più nobili i nostri piaceri, ne rendono
però il numero più ristretto, e la varietà e le circostanze
più castigate, e talora li inaridiscono per modo che non
possiamo trarne altro conforto che quello di poter dire: Sono
veri! ». Poterono accompagnarsi a queste le «riflessioni» più
generiche sul destino dell'uomo; egli le coglieva nel
sentimento con un'abbandonata indifferenza per il grado
dell'espressione (tutto gli pareva dicibile, per aforisma,
purché alludesse al bisogno della giustizia o alla necessità
del dolore), ed esclusero il moralismo di Tarchetti da ogni
verità sperimentata nella sua storia, approfondita nel suo
sistema. Così non poteva essere nemmeno incisiva nel tempo.
Dossi resta il solo che abbia dato alla Scapigliatura un certo
sapore critico. Egli era inclinato a forme di scomposizione
intellettuale, che, da una sentita attenzione a se stesso («A
scrivere io soffro. Ogni linea è per me un dolore. A chi è
condannato a molto pensare, Dio avrebbe dovuto concedere per
lo meno un paio di cervelli indipendenti fra loro... Così
invece bisogna soggiacere agli stupori mentali prodotti dal
rilasciarsi dei nervi; così, bisogna aspettare il riflusso
delle idee, come l'onda del mare. La più parte degli scrittori
hanno la parola e non i pensieri. Io con i pensieri non ho la
parola») volevano raggiungere motivi di moralità e di poetica
proprio a far tono, a un'uguale altezza. Ma Rovani . costituì
dall'inizio fino alla fine il suo limite, nella direzione che
più importa, perché Dossi si accontentò di quel facile ardore
di protesta. Non pensò mai da solo, ma da un ambiente. Con
Dossi la Scapigliatura sfiora l'ipercritica della Voce senza
lasciare le premesse. Rimane provinciale, «ambrosiana», per
una fedeltà di campanile, e la sua parabola di coltura si
conclude sullo stesso punto da cui era partita come i salti
mortali che le Note azzurre, con una punta orgogliosa,
riferiscono al proprio autore.
È certamente dal lato della sensibilità ch'essa poteva
procedere, non dal lato della coscienza. In tale senso infatti
la «parabola» ha una figura concreta; da Rovani, da Arrighi,
da Ghislanzoni, introduttori esterni perché privi d'un fondo
sensibile da coltivare, essa giunge ai versi e alla prosa di
Praga, di Tarchetti, di Camerana e di Dossi, in parte di
Camillo Boito -, alla pittura di Cremona e a qualche quadro di
Ranzoni, legati variamente nell'immagine d'un impressionismo
trepido e sincero, primitivo, e in certo strano modo, fecondo;
scende, poi, verso la letteratura e la musica dell'ultimo
Arrigo Boito, esemplari del riassorbimento scapigliato in una
forma d'esteriorità consolatrice schiettamente borghese. |