CRITICA: SCAPIGLIATURA E VERISMO

 VERGA E IL VERISMO

 AUTORE: Luigi Russo         TRATTO DA: Giovanni Verga

 

Il Verga fu verista, senza sapere del verismo; e quando le dottrine veristiche conobbe, queste non lo orientarono in modo affatto nuovo, ma furono, come già osservò il Croce, una spinta liberatrice perché lo scrittore acquistasse sollecitamente una più chiara coscienza delle sue attitudini.
Il verismo istintivo del Verga anzi, possiamo dire, fu uno dei più chiari segni della sua sensibilità di scrittore moderno e rivoluzionario l'arte nuova, per dirsi nuova, è sempre figlia del suo tempo, sebbene bisogna affrettarsi a soggiungere che essa ne è figlia perché è in uno genitrice del suo tempo. Così il Verga fu scrittore verista, perché implicitamente pieno dei problemi che si respiravano nell'atmosfera della vita contemporanea; ma al momento stesso, quella definizione di verista mortificava l'originalità della sua arte, perché la poesia in quanto poesia, ha un valore trascendentale e si libera dai lacci di ogni scuola. Ma, e sia detto una volta per tutte, la genesi veristica dell'arte verghiana è il sigillo della suo modernità e novità, e non già, come credette la critica polemica dei suoi contemporanei, segno della povertà e angustia dei suoi natali...
Dal verismo non si può dire neanche che il Verga derivasse quel malsano gusto di rappresentare la vita, più che nelle sue miserie dolorose, nelle sue miserie disgustose e nelle sue oscene nudità. Il pessimista Verga solo in questo non fu pessimista: nel fondo primitivo dell'umanità, seppe trovare una sanità e una profondità di sentire, che non c'era più nelle società aristocratiche e complicate, e però più che il descrittore del turpe, del deforme, del basso, dell'animalesco, egli volle essere lo scopritore dell'umanità dei derelitti e dei barbari. E, per questo punto, ebbe piuttosto il pathos religioso di un romantico, che crede alle virtù del popolo, più che l'arida e presuntuosa superiorità del positivista, che era felice solo nello scoprire e catalogare tipi inferiori di umanità. Per codesta sua illusione romantica, il Verga riesci appunto ad essere uno scrittore morale, non nel senso che egli si sia dilettato di moralismo o perché abbia schivato argomenti di facile lubricità, ma scrittore morale in un senso più alto, poiché egli umanizzò la vita dei derelitti, dei bruti, dei vinti, creando una tragedia del sentimento, là dove gli altri vedevano soltanto un contrasto e un urto di forze naturali. Il positivismo delle menti portava a vedere nella vita dell'uomo un meccanismo che si muovesse per virtù e potenze di istinti, di malattie ereditarie, di idiosincrasie fisiologiche; e il Verga dimenticò le brutali e grossolane ricette della patologia, per vedere dappertutto la vita, e non la malattia, e sentirne i palpiti che sono forti e sani, quanto più trascurati dalle squisite ricerche dei dilettanti di psicologia, e quanto più inascoltati dagli stessi protagonisti che soffrono quasi senza riflettere e filosofare sulle loro sofferenze.

Così il Verga restaurava il regno dell'anima, dove il verismo meccanizzava la vita; il Verga idealizzava là dove gli altri, più che soffiare la poesia, ne soffocavano il leggero respiro, per il quale essa vive nelle cose tutte del mondo quasi per originario nascimento; il Verga scolpiva gli uomini, dove gli altri radunavano documenti umani; il Verga riscattava, confermandone la responsabilità, gli affetti, le passioni, le tragedie di sangue e di gelosia, là dove gli altri farneticavano di una antilibertà del volere dei primitivi e di una brutale fatalità dell'agire; il Verga infine legittimava nel regno della vita morale sentimenti e passioni, che certo convenzionalismo etico delle religioni confessionali, accarezzando l'ipocrisia sociale, condanna come peccati:

Non accusate l'arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore, l'onore, là dove non lasciate che la borsa, voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l'arte raccoglie e vi getta in faccia.

Questo manifesto dello scrittore fa eco alle discussioni che sull'arte e la verecondia si agitarono bellicosissime dopo il '70, e che parvero mere questioni di letteratura e testimoniavano invece di una lenta rivoluzione del costume e affermavano un nuovo gusto di vita. Poiché, in mezzo a tante esagerazioni, il naturalismo, continuando il movimento di liberazione del romanticismo, avviava gli spiriti verso una concezione più intimamente cristiana del mondo, di contro alle viete forme farisaiche di vita, che la pedagogia post-tridentina per due secoli aveva radicato nella società. La polemica contro la verecondia era polemica non contro il pudore, ma contro l'ipocrisia del pudore, e la giustificazione delle passioni irregolari voleva essere una paradossale reazione a certo frigido e vizioso mercantilismo. Il manifesto del Verga, pur nella sua enfatica eloquenza giovanile (lo si legge nella prefazione ad Eva, è per l'appunto una viva testimonianza dell'interesse umano, e della sensibilità morale, ch'era già nel giovane scrittore; il quale non era un dilettante di immoralità (tale dilettantismo sarebbe una forma anch'esso di mediocre e provincialesco moralismo, ma un irrequieto e acuto sofferente per il filisteismo e per le menzogne sociali. Il realismo psicologico dello scrittore si convertiva, e non poteva non convertirsi, in realismo artistico; il suo verismo nasceva da un sentimento commosso della realtà della sua razionale inesorabilità; orbene, questo stesso forte interesse morale lo portava a rispettare tutte le passioni, anche quelle che l'ipocrisia sociale avrebbe condannato come immorali.
Le rispettava perché a lui, uomo alieno da canoni estrinseci di giudizio, tutto appariva purificato dal fuoco della passione e della sofferenza; sicché, anche per questo lato, la sua indipendenza dalle preoccupazioni di un'arte moraleggiante gli veniva, più che per incitamento e prediche dei suoi colleghi in verismo, da un intenso incitamento spirituale. Ci tornano a mente le parole che Enrico Lanti di Eva diceva all'autore, qualche giorno prima della sua morte:

Tu che mi parli di gioie false, dimmi quali siano le vere; quelle che costano più lacrime, o quelle che lasciano più rimorsi? e perché rimorsi? Qual'è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? e qual'è la donna più degna d'amore, la più casta o la più seducente? dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio, o che le si inchina quando la vede passare in carrozza? chi sentenzia del bene e del male? Il mondo che cos'è? Quali sono i suoi diritti? e non mentisce? e non s'inganna? o non è ipocrita? o non ha altra sicurezza che quella di negare? e quell'altra di biasimare?

Si tratta, è vero, sotto il rispetto dell'arte, di una assai mediocre tirata retorica, ma è pure una di quelle confidenze giovanili, che attestano di una crisi effervescente della morale tradizionale, passivamente ricevuta finora dagli altri, e che comincia a entrare in travaglio in un temperamento originale. Ubi veritas? pare che si domandi il Verga. Possiamo noi veramente biasimare? possiamo noi condannare? Tutta la storia è sacra, ci dice il filosofo; tutta la vita è sacra, ci dice il poeta. All'artista non rimane che raccogliere il grido delle passioni, ridirlo agli uomini con un tono di impassibilità, senza alterazioni e ingrossamenti di voci, senza condanne ed esaltazioni, ma mettendosi in disparte, perché la vita parli da sé nella muta eloquenza dei fatti e nella logica fatale dei suoi affetti.

Insieme con l'impersonalità dello stile, anche la paesanità della lingua, la vivacità parlata della sintassi, la nudità delle parole: quel giornale di bordo di un marinaio, sgrammaticato e asintattico, senza una frase più del necessario, è il simbolo di un'altra nascosta rivoluzione che il Verga e i suoi seguaci compirono nel campo della letteratura, e che poi finiva con l'essere il campo stesso della nostra vita civile di italiani. Il Carducci restaurava l'aristocrazia delle forme, indebolite e avvilite dai romantici, che avevano voluto sconvolgere l'aulicità dei costrutti pur restando aulici e letterati (deteriori letterati) nei loro gusti e nel loro sentire; il Carducci ancora rinnovava l'onore dell'alta cultura e suscitava la consapevolezza delle nostre tradizioni, cementando la recente unità politica con i ricordi della romanità e della nostra civiltà comunale. Ma la più umile schiera dei veristi, con a capo il Verga, scopriva un'Italia diversa da quella carducciana, una Italia dialettale, tutta piena di fango e di loto, ma che non contrastava alla prima, e che poteva dire anzi parole più precise e più appropriate, e dare concretezza a quell'altra Italia troppo mitica e pelasgica; scopriva una sintassi nuova, assai poco paludata e poco grammatichevole, ma che valeva a correggere efficacemente tanta astrattezza di costrutti letterari, pur senza tradire e venir meno alle leggi della tradizione; scopriva infine una lingua che chiamava pane il pane e vino il vino, realizzando quel sogno dei romantici che avevano pur tentato di dare per ciò stesso un tono più borghese alla nostra lingua cortigiana. E finiva con l'essere maestra di sincerità e di semplicità morale. La rivoluzione romantica, inaugurata dal Manzoni, veniva dunque a concludersi nella schiera dei provinciali, che parevano dimentichi di tutti i nostri più celebrati blasoni di nobiltà letteraria, ma che a questa nobiltà pur finivano col portare tributo di nuove ricchezze e di più fresche primizie. E il Verga, che doveva sollevarsi su tutta la schiera, riprendeva, inavvertito e tacito, la grande eredità del Manzoni, in un momento in cui l'apollinea classicità del Carducci e il prezioso estetismo del D'Annunzio pareva volessero invilire il pregio del patrimonio «cattolico-borghese» del grande Lombardo.

Un'ultima nota ancora: tutto il movimento naturalistico europeo, e in particolare quello francese, per la influenza delle teorie di un Taine, era dominato da una concezione deterministica della realtà. L'individuo era alla mercé delle forze cieche e ignare; le milieu e la race pesavano su di lui come una fatalità naturale, e l'umanità tutta era prigioniera di un meccanismo originario. Alla tragica concezione cristiana del peccato originale, alla pur tragica concezione dei naturalisti del Rinascimento che lottarono per la sistemazione e il disciplinamento della nativa malizia dell'uomo, visto soltanto nella sua feccia di natura, alla contraddittoria e patetica concezione dei romantici, divisi tra il cielo e la terra, la virtù e il vizio, si era venuta sostituendo una troppo accomandante, piatta e rassegnata visione del mondo come rapporto di cause ed effetti, che esonerava gli uomini da ogni loro interna responsabilità, e faceva di essi dei manichini della natura e della società. A codesta nuova fede aderirono molti scrittori in Europa, e parve vi aderissero anche dei grandi artisti; sennonché in atto essi dissolvevano codesta volgare mitologia, e nelle loro opere restaurarono, consapevolmente o inconsapevolmente, quel mondo della libertà, che i filosofi e i sociologi con mano troppo pesante avevano soffocato. E forse non è inesatto dire che la prima evasione da codesta oppressiva concezione deterministica del reale si è compiuta più per opera di artisti e di poeti, che di pensatori.
Per fare il caso solo del nostro Verga, noi vediamo anche in lui un'ombra di codeste teorie deterministiche, ma il determinismo verghiano si è improvvisamente allargato; non è più la gretta materialità dell'ambiente e della razza che opprime i protagonisti dei racconti verghiani, ma una assai più grandiosa e oscura divinità, che può chiamarsi il destino, e che pesa su tutto, sugli uomini e anche sulle cose, e che è come l'eterno limite di tutte le aspirazioni umane. Ma codeste aspirazioni umane non sono più conculcate in un troppo pacifico e soddisfatto «non possumus», ché sono anzi eccitate, nobilitate, celebrate pur nella loro impotenza, e accompagnate da una melodia triste, da un amoroso lamento, che, volgendosi da una pagina all'altra, riesce a formare come tutto un canto epico, eroico e sconsolato, che riabilita e sublima l'impari ma tenace lotta dell'umanità, pur di fronte al destino, a cotesto oscuro nume regolatore dei suoi moti, dei suoi sensi e delle sue vicende.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis