CRITICA: SCAPIGLIATURA E VERISMO

 DON GESUALDO

 AUTORE: Attilio Momigliano         TRATTO DA: Dante, Manzoni, Verga

 

La concezione verghiana della vita si assomma nel personaggio principale del Mastro-don Gesualdo che, venendo dalla miseria e passando da questa alla borghesia e all'ambiente aristocratico, riflette nella sua storia psicologica e nelle sue vicende l'atteggiamento costante dello scrittore di fronte a tutte le classi sociali. Mastro-don Gesualdo è, se non il più perfetto, il più ricco carattere di Verga, e rappresenta l'espressione ultima della sua particolare visione umana. È della stessa tempra di nonno 'Ntoni, ma ha fatto esperienze più varie; perciò la sua storia ha una prospettiva più multiforme. La pittura di quel muratore arricchito è ridondante, ma non così insistente come quella del vecchio Malavoglia, di cui sentiamo troppo a lungo, se non gli accenti di bontà profonda, certo le sagge sentenze.
Spalle da sostenere tutta una famiglia, cuore indurato alla fatica della vita, animo impenetrabile ai pettegolezzi, parola spedita, pensiero netto, disegno ostinato: così dura mastro-don Gesualdo sin quando lo colpisce la malattia mortale. In questa figura palpita la vitalità grandiosa e instancabile dei più caratteristici personaggi del Balzac. Per questa figura il Verga è, come lo scrittore francese, un epico del romanzo: ma egli ha temperato la ridondanza di quei protagonisti della Comédie humaíne.

In don Gesualdo culmina la concezione virile che il Verga ha della vita. Quel tenace lavoratore ha un rude senso della realtà, e non conosce illusioni. La sua tristezza è senza sfogo o si esaurisce in un'esclamazione aspra. Egli sopporta per tutta la vita l'ingratitudine, le pretese, le contumelie, i tradimenti della famiglia: ha sempre dietro il padre, la sorella, il cognato che gli fanno cagnara e gli rompono la testa e gli attraversano la strada con ogni astuzia, e aspetta per tutta la vita che almeno la moglie gli si affezioni davvero e lo fiancheggi nella sua conquista, che almeno la figlia riconosca e compensi le sue fatiche.
La vita lo ha avvezzato a tutte le amarezze: al lavoro senza riposo, al beneficio senza riconoscenza, alle congiure della malignità e dell'invidia, alla solitudine morale. Perciò lotta senza lamenti e senza abbattimenti, e guarda l'avvenire senza sogni. Quando la figlia va nel collegio di Palermo, egli dice a Bianca: - Vedi, noi ci ammazziamo per fare il suo meglio, ciascuno come può, ed essa un giorno non penserà neppure a noi. Così va il mondo -. È l'eroe più grande di quel mondo di stoici che il Verga ha rappresentato nelle sue opere, l'uomo più incallito al travaglio incessante dell'esistenza.

Ha una vita scura e opprimente, in cui le fatiche e i fastidi si succedono senza posa. Eppure in questo destino accanito non sentite nulla di architettato e di voluto. 1 malanni nascono dalla forza stessa delle cose, dalla natura stessa degli uomini, dalla logica fatale delle rigide leggi che governano la nostra sorte. In questo mondo fustigato dalla necessità è naturale che don Gesualdo viva così senza respiro; che i parenti poveri gli invidino la ricchezza, e valutino quello che egli ha e non quello che egli ha donato; che sempre, e sopra tutto nei giorni di torbidi, i villani e gli affamati non gli perdonino di esser nato «povero e nudo al par di loro» e di essersi arricchito. In questo mondo, dove le classi e le abitudini ci dividono, è naturale che i parenti nobili circondino d'ostilità l'antico muratore, e che la moglie, di sangue aristocratico, senta sempre in lui qualche cosa di rozzo e d'inferiore che la fa tremare e la offende.
Perciò egli rimane fatalmente chiuso nel cerchio dei sentimenti coi quali è cresciuto e coi quali ha conquistato l'agiatezza, e nulla ammorbidisce o trasforma la sua tempra di macigno, la fibra grossolana e potente con cui è salito nella vita. Gli averi radunati non perdono ai suoi occhi il valore che avevano quando ancora non li aveva accumulati, perché egli non trova nessuna affezione profonda che richiami durevolmente il suo cuore in una sfera più riposata, e perché intorno ad essi si è concentrata tutta la sua vita: i suoi sforzi, le sue ansie di ogni giorno, la cura di sollevare dalla miseria i parenti, la speranza di uscire con un matrimonio dall'ambiente umile in cui è cresciuto. I danari sono la sua storia: i suoi disegni, le sue speranze, le sue battaglie, le sue amarezze, le sue soddisfazioni brevi e potenti di conquistatore. Perciò si capisce che egli li difenda con tutte le sue forze, e dica: «A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!». Perciò si capisce la desolazione, il tormento sordo della sua decadenza, quando la malattia gli impedisce di lavorare, lo rende debole contro i raggiri di chi lo vuole sfruttare, e lo dà in balìa del genero che dilapida quello che egli ha messo insieme in tanti anni di tenacia.

Medici, speziali, parenti gli calano addosso come uno stormo di corvi: ed egli ha sempre il pensiero ai suoi poderi che ora vanno alla malora, alla terra conquistata, vigilata, amata, l'unica cosa salda che egli abbia potuto accomunare alla sua anima in tanti anni di stenti.
Quel lungo tramonto è d'una malinconia tetra, e stringe il cuore. La sua straordinaria resistenza fisica e morale si fiacca di giorno in giorno; l'energia e la ribellione si calmano a poco a poco in un silenzio fosco e in un'immobilità disperata. Qualche volta don Gesualdo piange in silenzio, come un bambino. Una tristezza nera ci avvolge dinanzi a quella vita eroica che finisce miseramente come quella d'un ozioso, una sfiducia sorda s'impadronisce di noi e ci fa assistere con un amaro stupore allo spettacolo di quella rovina.

Ogni pagina è piena della sensazione che don Gesualdo ha del proprio scadimento, piena di nostalgia per la campagna soleggiata ora che il sole gli muore sul cornicione della casa senza mai scendere sino alle finestre -, piena di avvilimento. «Venivano l'uno dopo l'altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L'osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o con un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni ,fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose». Sentite una ribellione muta della dignità dell'uomo; e proprio in questi mesi di impotenza cogliete tutta la grandiosità morale di questa creazione, di questo lavoratore nato per l'operosità incessante, per la lotta, per l'impiego di un'energia che è una forza morale per il fatto stesso di essere tesa continuamente e senza premio.
E proprio in quest'agonia che passa nell'ombra fredda di una casa e riempie le pareti delle immagini lontane delle campagne e delle strade polverose, in questo rimpianto silenzioso degli anni trascorsi all'aria aperta, fra il solleone, il freddo, la pioggia, il tepore e il sereno della primavera, in questo sospiro verso le terre lontane sentite quanto profondo, quanto essenziale sia in mastro-don Gesualdo l'amore alla terra per la quale e della quale ha vissuto. Anche in questo egli rappresenta e perfeziona artisticamente gli altri personaggi siciliani del Verga.
Le sue ultime tenerezze e i suoi ultimi pensieri sono per i suoi campi e per sua figlia. Si comprende che sia tanto attaccato alla vita chi ha vissuto per la roba, e che fino agli estremi si difenda con un'astuzia gelosa e furiosa contro coloro che gliela vorrebbero togliere. Per essa egli ha speso i suoi anni, ed essa occupa ancora le sue ore lente di malato immobile.
Così se ne va, con alternative pietose di fiducia e di scoramento, di tenerezze e di durezze in cui si avvicendano il leone d'un tempo e la povera vittima. Ma a poco a poco, fra lotte e sospetti, si rassegna al suo destino di inerte: e così muore.
Quest'uomo senza debolezze, indurato alle prove della vita, ha però una bontà forte e sincera, quella di cui sono capaci gli uomini attivi. La lotta non lo rende cinico, gli lascia nel cuore il bisogno e l'amore della tenerezza. Ma la sorte gli contende quasi sempre questo riposo. Nella sua vita lunga e spinosa, una sola persona lo ama: Diodata, quella serva così umile, così devota, così grande!

Gli affetti di don Gesualdo sono la lirica solitaria e nascosta della sua esistenza di lottatore, e compiono questa così maschia figura.
Ma la moglie a cui egli si accosta con una trepidazione tanto puerile e tanto commovente la sera delle nozze, lo tiene sempre lontano con la sua ostilità timida e istintiva di donna dal sangue gentile. Le pagine con cui si chiude la scena del matrimonio, tutte palpitanti della finezza esangue e spaurita di Bianca, dell'ansia sensuale di don Gesualdo, della sua delicatezza ancora un po' goffa e un po' ruvida e intimidita dalla prima intimità con quella fanciulla fragile e pallida, preannunciano con un'ombra di malinconia, con una sensibilità sfumata di presentimenti, i lunghi anni di vita comune ma estranea del rude lavoratore e della nobile Trao. Si sente in quelle due pagine vaghe e complesse l'intreccio di sensazioni inconciliabili, l'urto - più che il contatto - di due tempre che non si possono fondere, il principio d'una unione fatalmente triste.
Diodata è l'unico riposo di don Gesualdo, la sola creatura che possa dargli un'ora di dolcezza, che sappia chinare il capo sotto la sua volontà e sotto la sua carezza ruvida. Quest'amore è una delle cose più belle del Verga; l'incontro di don Gesualdo e di Diodata quando egli ha deciso il suo matrimonio, è la parte più lirica e più melodiosa del volume. Sotto le parole misurate del dialogo mormora una vena dolce e mesta di sentimento che si allarga nel silenzioso paesaggio notturno.
La campagna intorno, tranquilla, sembra riposare insieme con don Gesualdo, dopo una giornata lunga di sole e di lavoro. Qui, come altrove, il romanzo ha un respiro più sereno e più ampio che quello solito del Verga: queste pause di paesaggio diffondono intorno un'aria più lieve, dilatano il sentimento, con una malia inconsueta, in un vasto affiato d'idillio. Una ventata di fresco vien su dai campi, il cielo notturno avvolge nel silenzio e nel sonno le pianure e i monti, i buoi accovacciati dormono con un respiro pesante. In quell'ombra dove a poco a poco svapora il caldo della giornata estiva, l'anima si distende, e una gran pace la invade. Gesualdo si sposa: Diodata sta per rimaner sola. Ma quella povera serva, sciupata dagli stenti, accarezzata dalla mano commossa e intenerita dello scrittore, finisce per commuovere anche il padrone. Don Gesualdo, dopo la giornata dura, sente sciogliersi il cuore in un bisogno di tenerezza. Le sue parole sono poche, un po' rozze, ma spirano un affetto forte, e la pace della campagna le isola in un'atmosfera di poesia: il respiro dei campi, pieno di rumori vaganti e di silenzio, approfondisce quelle parole di protezione e di pietà e dà loro una risonanza che va al cuore. In queste pagine tutto è ad un tempo preciso e sfumato; la descrizione della fattoria e dei campi è rustica, concreta senza particolari evanescenti; i dialoghi, appena accennati, svolti fra la stanchezza e il sonno, non hanno un momento d'effusione sentimentale, e sono costruiti quasi solo di fatti dell'esistenza elementare e quotidiana: ma fra quelle parlate e quelle descrizioni si insinua e si diffonde un sopore, un abbandono che dà alle parole un'eco calda di sentimento e di bontà e alle cose agresti un contorno appena adombrato di sogno. Questo effetto di fascino lento, questa potenza della notte estiva, in cui tutto riposa si distende si rinnova, nasce dai particolari spazieggiati, dalle linee come isolate e abbandonate a se stesse, da quello stile che si rilassa in una contemplazione non sorvegliata. Dovunque penetra il respiro tranquillo di don Gesualdo che, dopo la lunga corsa sotto il cielo in fiamme, allenta il corpo e la mente, lascia che la calma dell'ora tarda smorzi la fatica, si ristora nella buia frescura della notte.
La solitudine ridesta i ricordi lontani di don Gesualdo travagliato nella conquista dell'agiatezza: è un momento di poesia nella sua vita infaticabile, la poesia della sua esistenza di lottatore, il respiro di sollievo, lo sguardo di chi è salito e ripercorre con l'occhio l'ascesa. Nemici, pericoli, liti, ostacoli, tutto ritorna in quest'ora di ricordi, ma raddolcito dalla lontananza, immerso nella serenità della notte estiva, ammorbidito e sfumato di tenerezza dalla vicinanza muta di quell'umile donna amata. Nella lotta don Gesualdo non ha avuto altra gioia che quella chiusa di fare sempre un passo avanti. Ma Diodata è stata l'aiutante silenziosa, la carezza che solleva e sospinge.

Queste pagine hanno un leggero sentore femminile: nell'anima rude di don Gesualdo penetra, appena, una lieve mollezza insolita, che è come il fascino modesto, timoroso, di quella povera donna che è nascosta e veglia nella notte. Il capitolo è velatamente dominato da quella bellezza un po' sfiorita, dolce e umile, di Diodata, sottomessa come un cane fedele: essa scioglie in tenerezza le cure gravi della giornata del padrone, e spande il suo soffio molle e malinconico su quella notte silenziosa.
Le scene fra Gesualdo e la sua serva, che ritornano, più brevi, attraverso il volume, ci richiamano sempre a questa, con la tenerezza rude del padrone e il suo atteggiamento di protezione virile, con quella sfumatura indefinita di malinconia e di bontà senza limiti che si sente sempre nelle parole di Diodata.

Diodata è per Gesualdo il pensiero sereno dell'uomo che ha bisogno di una donna debole da sostenere, è la nostalgia misurata e contenuta di un affetto che metta un po' di dolcezza nella sua vita tempestosa. Quella povera donna, che non ha pretese e non occupa nessun posto nella famiglia ostile o fredda o diffidente di don Gesualdo, è il complemento umano del protagonista, la corda più delicata del suo cuore temprato, il sospiro fugace e profondo della sua vita senza sfogo e senza carezze. In virtù di Diodata la figura epica di don Gesualdo si fa più umana e più ricca e si avvicina all'umanità più comune con un sospiro represso d'elegia.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis