CRITICA: SCAPIGLIATURA E VERISMO

 PROSPETTIVE STORICHE DEI "VICERE' " DI DE ROBERTO

 AUTORE: Marcello Turchi         TRATTO DA: La rassegna della letteratura italiana

 

L'intuizione di De Roberto, sviluppatasi dalla poetica verista nel senso originale della deformazione di un elemento della realtà, cui si guarda come gravato da tare ereditarie e da fatali predestinazioni, dischiude, al di là di tale contraddizione (proprio il verismo chiude lo scrittore in una visione preconcetta, allucinata e sgradita della realtà, di cui i contorni sono segnati con acute e insieme grosse linee spietate), una ricerca di verità, condotta dallo scrittore in un'inchiesta intrepida, un paragone con la vita, con il progresso, contemplato nelle sue speranze e nelle sue amarezze, nel suo lento faticoso cammino. È l'aspetto questo interiormente dinamico del romanzo, opposto alla statica intuizione, alla volontaria costruzione dello scrittore: se i piani dell'opera sono effettivamente molti e riflettono la molteplicità d'indagine e la sapienza compositiva del De Roberto, si deve porre in evidenza decisamente, come non si è ancora fatto, tale opposizione, che sta all'origine, dato che l'affresco storico non nasce gratuitamente o come una voluta decorativa, ma si inserisce profondamente entro la compagine del romanzo come un elemento dialettico (di dialettica fantastica), di fronte al quale le questioni e le immagini di eredità, di testamenti, di matrimoni, di passione economica, di manie e di metamorfosi degli Uzeda assumono l'importanza e il valore che possono rivelare in un periodo di profonda crisi storica, quale è quello su cui insiste, con una scelta non indifferente, l'indagine dello scrittore. La vicenda degli Uzeda è in primo piano, ma essa vive e respira in un'aria che via via muta: l'atmosfera stessa, in cui trova espressione tale impostazione, porta da una parte a vedere i «vicerè» stravolti nella deformazione di cui si è detto, dall'altra a un «clinamen» dell'attenzione dello scrittore verso la libera proiezione, negli sfondi e nei piani del romanzo, delle nuove situazioni storiche e degli echi che esse suscitano nell'animo dei protagonisti, così che appare evidente la reciprocità degli influssi.

In sostanza queste fisse repulsive figure di maniaci sono ora poste dinanzi non più ai fasti araldici consumati di una storia genealogica, ma ai dubbi, ai timori, alla passione, alle reazioni di una storia in atto che sconvolge e rinnova, che le tocca però solo nel poco spazio in esse lasciato sgombro dal perdurare degli assidui litigi familiari, dalle corrodenti passioni ereditarie. L'interesse narrativo dell'opera poggia così prevalentemente sugli Uzeda, mentre l'interesse morale si concentra sul processo di rinnovamento: in definitiva l'uno e l'altro cospirano verso mutue relazioni e rapporti di scambio; per questo gli Uzeda sarebbero inconcepibili al di fuori di tale loro « passione storica », intesa ora come passività, ora come compromesso, ora come tentativo di reinserimento nell'ormai riconosciuto sviluppo della storia.
Essi, statici nelle loro manie e fin anco nelle loro metamorfosi, vivono proprio in quanto toccati da questo pathos, da questo problema del mutamento, inteso da loro in senso spiccatamente tecnico, come un tentativo di adeguarsi alla nuova realtà economica; poiché il senso delle idealità morali, del loro stesso illanguidire, a contatto con la realtà, si dibatte unicamente nella coscienza dello scrittore, che non nutre illusioni in proposito e anzi esercita su se stesso e sulla sua materia a tale riguardo un ironico controllo. Ma proprio per quel senso di inadeguatezza, per quell'angoscia segreta che è nell'anima dei reazionari Uzeda e resta quasi allo stadio di rancore contro il tempo, è possibile questa visione ferma, lucida, poeticamente illuminata di tensioni e di distensioni e anche di una chiarezza disillusa, che porta finalmente in un'atmosfera che, rimanendo fuori di quella intossicata da atavici, ormai astiosi, sogni e da sterili bramosie rientrate di dominio, conferisce alla narrazione un andamento di naturalezza, un senso dei problemi della vita e della storia contemplati semplicemente dalla parte della realtà, un banco di prova di fronte al quale l'esagitazione grottesca dei protagonisti si riduce quasi a un surreale giuoco di immagini in disfacimento: e tuttavia anche tali immagini si riuniscono quasi in un'immagine sola dai molti volti, che alla sua maniera rende un aspetto della storia, quello rivolto ad arrestare il passato non per una forza di ripensamento interiore o di adesione nostalgica, ma per un gretto bisogno di confermare privilegi e di violare i nuovi sentimenti, siano essi quelli nutriti nell'animo dei figli della grande casata, siano essi quelli in cui spera una vita sociale in sviluppo.

Vi sono certamente delle ragioni ben determinate dal punto di vista umano per cui De Roberto cerca col suo romanzo, innestando elementi dinamici nella sua poetica, di trovare una soluzione al chiuso di una gelida passione di prestigio (che si basa su un gergo intellettualistico ed economico) in un principio di libera discussione che nasce da una certa gravitazione storica, in cui bene e male, eroismo e viltà appaiono nei loro precisi confini: non dunque romanzo storico I Vicerè, ma romanzo in cui la storia ferve dentro e appare, in un'atmosfera di attesa, quasi un mito liberatore, simbolo di un faticoso progresso, di una forza che attrae a sé anche gli elementi più sordi e restii, la storia dunque nel suo valore di prospettiva umana.
Così al di là delle molte figure predeterminate, nate sotto il segno della poetica veristica, al di là di certi «nuclei» di accadimenti (non veri centri di energia, non linee di forza), che si stringono progressivamente intorno a una umanità demoniaca (ma senza il fascino, e il tormento del demoniaco) nasce una paziente catarsi storica, delusa e anche disillusa, per cui all'analista e all'annalista De Roberto subentra un narratore che fa convergere gli eventi su un piano di distaccata prospettiva, secondo le leggi che gli Uzeda non comprendono e non possono comprendere, perché mosse da forze superiori e anche dalle umili forze della storia e anche da loro stessi, inconsapevoli e pessimistici testimoni di una realtà che di troppo li trascende, proprio perché si rifiutano di soffrire, di sperare e anche di errare in essa. Ma tuttavia da parte loro e loro malgrado e malgrado il loro pessimismo (che è il lato Uzeda di guardare gli avvenimenti più che il lato De Roberto, in cui sovrasta l'aspetto di una lucida, distaccata e anche placata visione che non rifugge dall'ironia, ma senza incidere su un'umile, vigile speranza) si istituisce un rapporto poetico fra le figure e la storia, tra la nobile casata e la storia, anche se in un primo momento si era creata una netta separazione...

Il romanzo si conclude con un senso esatto della misura, quando gli Uzeda cessano di essere degli antagonisti della storia, in nome delle forze dell'anti-storia o degli emblemi del genealogico Mugnòs, ma ancora non acquistano un senso di vita interiore: essi intenderanno sempre la storia alla loro maniera di «mostri» Uzeda, che giungono a simboleggiare in. concrete figure certe turpi immaginazioni, dall'attribuzione a Consalvo di iettatore (motivo fantastico e «scellerato» nella mentre del principe padre) all'abnorme parto di Chiara, quasi una sintesi, un groppo da bestiario (dopo una serie di immaginari parti), all'animalesco linguaggio di don Blasco, alle grottesche e surreali fantasie intorno a eredità e testamenti e matrimoni.
Di contro lo scrittore cerca umanità in uno stile ricco di tonalità impreviste, cerca sviluppi non rigidi: così nella descrizione dei corsi e dei ricorsi periodici del colera, regolare e ineluttabile come una tragica misura del tempo; l'impresa dei Mille è vista in uno scorcio provinciale e il racconto del loro accantonamento nel convento catanese di San Nicola è illuminato da una come lietezza intima di speranza, da un segno di gentilezza; diversa ancora e più complessa diventa la tensione stilistica della narrazione dei tempi di Aspromonte, incline a rilevare lo spegnersi di un'illusione e della freschezza di uno slancio eroico in una situazione gravida di cupi fermenti rivoluzionari; poi comincia la storia attenta e minuta delle lente trasformazioni economiche e sociali, dell'arrivismo di una borghesia arricchita e delle sue varie inclinazioni politiche nel momento di passaggio dalla Destra alla Sinistra, pur essa disposta ai compromessi dopo le elezioni del '74, e anche si intensificano gli accenni a quelle floride società operaie che rappresentavano la partecipazione alla vita pubblica di nuovi strati sociali: si tratta di una storia ridotta a scorci, al rilievo di un particolare, a un preannuncio; è il gusto di una storia che riflette sull'origine, sui germi di nuove disposizioni, che provoca nella pagina un senso di attesa, un andamento sciolto e impreveduto nell'intonazione sbrigativa e insieme ricca di significati per quella sua libertà di atteggiamenti impressionistici.
Ma tali riflessi storici ancora valgono per il loro nesso con la psicologia degli Uzeda, in quanto quegli avvenimenti cui essi guardano con terrore, nella loro modestia (fatta eccezione per l'epico racconto, trasformato in accenti quasi domestici e familiari, dell'impresa dei Mille) riecheggiano l'umile storia d'Italia che cerca una via d'uscita spesso infelice e provvisoria ai tanti suoi problemi, attraverso l'azione di una classe dirigente a volte di troppo inferiore ai suoi compiti: tuttavia il nesso con gli Uzeda, con le loro ombre crudeli e implacabili, sviluppa di contro quel tono realistico e dimesso che rende la descrizione di tali avvenimenti naturalmente antiretorica, spoglia, lontana dal parteggiare nemmeno coi nuovi borghesi, poiché troppo alto è forse nello scrittore il sentimento di un Risorgimento se non tradito, certo deluso e non custodito e non sviluppato, perché possa esser tratto a giudicarli benevolmente; se egli si oppone all'antirisorgimento, per uguali ragioni si deve opporre al tralignare o al logorarsi dell'eredità risorgimentale degli uomini stessi che avevano partecipato a quelle battaglie. E tuttavia il romanziere se non esprime speranze, sembra aspettare pazientemente i frutti della storia, anche se li vede come disperdere per mille rivoli nella trita, antieroica vita quotidiana.

L'adesione decisa di un Uzeda alla vita politica potrebbe da una parte significare proprio pessimisticamente anche un'accessibilità ormai dischiusa e agevolata (per un uomo incline al compromesso come Consalvo), fornita dalla nuova situazione italiana, che può tollerare più della precedente ogni camaleontismo, se non riuscisse veramente accettabile una considerazione più matura e non certo vanamente intesa a forzare le posizioni, per una partigianeria di qualsiasi colore, ma a sottolineare in maniera equilibrata aspetti positivi e negativi, perché consapevole che solo così si fa vera storia e che solo si può penetrare in essa con un interesse concreto, misurando la portata di una accettazione, che vale ad ogni modo come un riconoscimento.

L'ambizione politica porta il principe Consalvo verso la sua trasformazione da discendente di vicerè in deputato ed egli vuole certo qualificare tale suo atteggiamento come una reincarnazione degli antichi vicerè in regime democratico, ma in effetti molto cambia in lui e, a dispetto delle sue intenzioni, il fatto stesso che è costretto a deporre una maschera per assumerne un'altra implica un'accettazione di quella storia, di cui la famiglia era rimasta irata e stupita spettatrice. Certo don Lodovico rappresenta la pazienza sorniona di una potenza che si sviluppa di fronte alla storia e don Blasco ora la violenza di una polemica (che tuttavia si basa su un principio di incomunicabilità del personaggio e delle sue reazioni, che restano in una sorta di intemperante e colorita trascendenza verbale), ora la voce di una propaganda, che, nei suoi subitanei ardori da neofita di un liberalismo a stampo utilitaristico, non riconferma altro che il gusto di affermare gli straripanti umori di una grossa personalità, che a momenti può sembrare voler strappare il velo di ipocrisia che circonda gli Uzeda, ma in sostanza dà l'impressione di un vociferare da maligno energumeno, non privo nella sua barbarie un po' animalesca, di una vena di sottigliezza, di una sua ferina astuzia. L'uno e l'altro sono dei solitari, ma l'uno nella sua unzione, l'altro nelle sue furenti esplosioni tengono d'occhio la storia e alla loro maniera l'accettano, l'uno con un'adesione d'istinto, con una capacità di adattamento ad ogni situazione, si da trarre il massimo di utile per la propria carriera prelatizia, l'altro con la sua furberia che lo conduce a prendere con tranquilla indifferenza morale atteggiamenti estremistici sia in un senso che in un altro, guidato a ciò da una sua naturale conoscenza delle situazioni politiche e del posto che in esse possono sempre trovare demagoghi di taglia piuttosto grossolana, senza problemi in sospeso.

Di tali adesioni non è da dire molto per la naturale politicità delle due posizioni pur così distanti; più importante è invece il freddo, aristocratico distacco degli Uzeda come famiglia, che poi muta e si piega alla necessità con Consalvo, il quale, dopo i suoi anni di noviziato, di avventure e di viaggi, giunge a una decisione certo compromettente, ma anche chiara e maturata: così quella famiglia, i cui membri anche quando fanno politica restano sempre chiusi in se stessi, senza rapporti di comunicazione umana, e anche quando parlano, parlano per se stessi in una maniera tale che neppure il De Roberto forse ne ha piena coscienza (si tratta di una sfera estranea alla discussione morale e di una chiusura del personaggio né interiore né drammatica, ma assiomatica), nella sua spagnolesca sicilianità, rende fantasticamente in maniera turbante, sulla soglia della nuova Italia, un complesso di aporie che risalgono a una tradizione e si portano innanzi nel futuro; essi paiono quasi alludere a una lotta col destino, con la storia, ma si confermano poi non solo dei deboli lottatori (e in questa debolezza delle loro stesse ostinate convinzioni, sta la loro condanna politica e umana), ma anche degli individui malcerti ed esitanti, senza uno scopo che non sia egoistico ed immediato, pur nelle loro fissazioni. Il paesaggio di queste persone sconvolte e in crisi perenne giunge a definirsi solo in questo, appunto, che il turbamento dei tempi ha potuto aggiungere solo una nota alle altre già troppo evidenti della loro follia: di tipi come gli Uzeda probabilmente se ne troveranno prima e dopo l'Unità, ma è vero tuttavia che essi rappresentano, come blocco unitario, quasi un emblema del passato.

Per questo allo scrittore, che tra le tante tendenze e facce del reale, non trascura quelle dell'umorismo, del grottesco, dell'ironia, non riesce difficile giungere a scrivere, pure attraverso a tali tonalità, un'opera che risulta fondamentalmente seria e come grave nella sua direzione unitaria e nel suo volto più profondo, quando si sappia cogliere il succo segreto di essa. L'urto dei due mondi non è tragico, anzi può passare attraverso pagine rapidamente e pungentemente comiche, certo però lascia una impressione di tristezza, di una certa violenza, stilistica e di fondo, spietata e crudele, di una dissipazione spirituale, non proprio per quel che muore nell'opera e neanche per quel che in essa nasce, ma per quel che si avverte come inferiore a se stesso nel passato e nel presente.
Dai padri ai figli la storia degli Uzeda percorre una parabola in cui í, caratteri degli antichi ossessi si trasformano, aprendo spiragli verso aspetti persino di un languore patetico, quali trascorrono in una vicenda romanticamente tesa verso una soluzione suprema, sostenuta da un sentimento di serietà e delicata dignità dell'amore, come quella di Teresa; le varie linee si compongono in un insieme contrastato, certo non ridotto all'essenziale, ma valido in qualche maniera persino nei suoi scavi secondari. È che nei Viceré si respira un'atmosfera di mutamento e il vero è portato in una dimensione storica (che è altro dalla dimensione temporale in cui gli Uzeda distendono la serie e la successione dei loro miti di eredità, di testamenti, di matrimoni): i personaggi non attendono tanto al varco delle loro azioni, che sono spesso quasi prevedibili, quanto al varco del loro confronto con la storia. La morale che da essi si ricava resta fondamentalmente quella del compromesso; la deformazione sfocia nel compromesso, la storia assorbe anche il compromesso; ma gli Uzeda restano schiavi di se stessi; nessun Uzeda, neanche Teresa e Consalvo, riesce ad avvertire il sentore di una vera, umana libertà...

La decadenza, la morte, la storia, sono questi i temi, intorno a cui non sempre v'è sobrietà di scrittura, poiché a volte essa appare come qualcosa di convenzionale, di costruito, che può derivare dalle conseguenze della poetica veristica, denunciando un venir meno di quella vitalità che corrisponde alla vitalità della fantasia e del linguaggio: era sin troppo facile che ciò accadesse per gli Uzeda, che appaiono per certi aspetti la negazione della vitalità e che solo in don Blasco presentano quello tra loro che almeno, anche se imbevuto dei pregiudizi e delle colpe familiari, se le porta addosso con una certa spigliatezza e vivacità canagliesca.
Ma era singolarmente difficile tenere questa folla di figure sul filo del tempo, sulla soglia quasi della loro morte: gli schemi veristici si sovrappongono agli schemi mentali insiti nelle tradizioni nobiliari; è un lungo cammino che si deve percorrere per giungere alla comprensione di un loro significato; oltre v'è il respiro libero della storia. Attraverso gli intrichi del romanzo, attraverso le punte ironiche, gli svaghi grotteschi e certi succhi estravaganti, attraverso l'aspra disperazione della tragedia, il De Roberto sfiora l'alta malinconia della storia, la fine di un mondo; ma attraverso quella serie di eventi cui si affacciano le amare maschere degli Uzeda ancora riesce a balenare qua e là una pagina di speranza, anche se essa può sembrare poi come inghiottita dal tempo quella fallita rivoluzione in convento tra i novizi, in un clima di fanciullesche impressioni, stupori, attrazioni, quando Bixio e Menotti Garibaldi hanno portato i volontari entro le mura di San Nicola. L'episodio più umanamente poetico è anche quello che segna un vivo, limpido contatto con la realtà in una sfumatura come di candore (la rosa di Giovannino), mentre almeno per un momento gli atroci, corrodenti pensieri degli Uzeda impallidiscono e si spengono come larve nelle tenebre della loro notte.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis