L'intuizione di De Roberto, sviluppatasi dalla poetica verista
nel senso originale della deformazione di un elemento della
realtà, cui si guarda come gravato da tare ereditarie e da
fatali predestinazioni, dischiude, al di là di tale
contraddizione (proprio il verismo chiude lo scrittore in una
visione preconcetta, allucinata e sgradita della realtà, di
cui i contorni sono segnati con acute e insieme grosse linee
spietate), una ricerca di verità, condotta dallo scrittore in
un'inchiesta intrepida, un paragone con la vita, con il
progresso, contemplato nelle sue speranze e nelle sue
amarezze, nel suo lento faticoso cammino. È l'aspetto questo
interiormente dinamico del romanzo, opposto alla statica
intuizione, alla volontaria costruzione dello scrittore: se i
piani dell'opera sono effettivamente molti e riflettono la
molteplicità d'indagine e la sapienza compositiva del De
Roberto, si deve porre in evidenza decisamente, come non si è
ancora fatto, tale opposizione, che sta all'origine, dato che
l'affresco storico non nasce gratuitamente o come una voluta
decorativa, ma si inserisce profondamente entro la compagine
del romanzo come un elemento dialettico (di dialettica
fantastica), di fronte al quale le questioni e le immagini di
eredità, di testamenti, di matrimoni, di passione economica,
di manie e di metamorfosi degli Uzeda assumono l'importanza e
il valore che possono rivelare in un periodo di profonda crisi
storica, quale è quello su cui insiste, con una scelta non
indifferente, l'indagine dello scrittore. La vicenda degli
Uzeda è in primo piano, ma essa vive e respira in un'aria che
via via muta: l'atmosfera stessa, in cui trova espressione
tale impostazione, porta da una parte a vedere i «vicerè»
stravolti nella deformazione di cui si è detto, dall'altra a
un «clinamen» dell'attenzione dello scrittore verso la libera
proiezione, negli sfondi e nei piani del romanzo, delle nuove
situazioni storiche e degli echi che esse suscitano nell'animo
dei protagonisti, così che appare evidente la reciprocità
degli influssi.
In sostanza queste fisse repulsive figure di maniaci sono ora
poste dinanzi non più ai fasti araldici consumati di una
storia genealogica, ma ai dubbi, ai timori, alla passione,
alle reazioni di una storia in atto che sconvolge e rinnova,
che le tocca però solo nel poco spazio in esse lasciato
sgombro dal perdurare degli assidui litigi familiari, dalle
corrodenti passioni ereditarie. L'interesse narrativo
dell'opera poggia così prevalentemente sugli Uzeda, mentre
l'interesse morale si concentra sul processo di rinnovamento:
in definitiva l'uno e l'altro cospirano verso mutue relazioni
e rapporti di scambio; per questo gli Uzeda sarebbero
inconcepibili al di fuori di tale loro « passione storica »,
intesa ora come passività, ora come compromesso, ora come
tentativo di reinserimento nell'ormai riconosciuto sviluppo
della storia.
Essi, statici nelle loro manie e fin anco nelle loro
metamorfosi, vivono proprio in quanto toccati da questo
pathos, da questo problema del mutamento, inteso da loro in
senso spiccatamente tecnico, come un tentativo di adeguarsi
alla nuova realtà economica; poiché il senso delle idealità
morali, del loro stesso illanguidire, a contatto con la
realtà, si dibatte unicamente nella coscienza dello scrittore,
che non nutre illusioni in proposito e anzi esercita su se
stesso e sulla sua materia a tale riguardo un ironico
controllo. Ma proprio per quel senso di inadeguatezza, per
quell'angoscia segreta che è nell'anima dei reazionari Uzeda e
resta quasi allo stadio di rancore contro il tempo, è
possibile questa visione ferma, lucida, poeticamente
illuminata di tensioni e di distensioni e anche di una
chiarezza disillusa, che porta finalmente in un'atmosfera che,
rimanendo fuori di quella intossicata da atavici, ormai
astiosi, sogni e da sterili bramosie rientrate di dominio,
conferisce alla narrazione un andamento di naturalezza, un
senso dei problemi della vita e della storia contemplati
semplicemente dalla parte della realtà, un banco di prova di
fronte al quale l'esagitazione grottesca dei protagonisti si
riduce quasi a un surreale giuoco di immagini in disfacimento:
e tuttavia anche tali immagini si riuniscono quasi in
un'immagine sola dai molti volti, che alla sua maniera rende
un aspetto della storia, quello rivolto ad arrestare il
passato non per una forza di ripensamento interiore o di
adesione nostalgica, ma per un gretto bisogno di confermare
privilegi e di violare i nuovi sentimenti, siano essi quelli
nutriti nell'animo dei figli della grande casata, siano essi
quelli in cui spera una vita sociale in sviluppo.
Vi sono certamente delle ragioni ben determinate dal punto di
vista umano per cui De Roberto cerca col suo romanzo,
innestando elementi dinamici nella sua poetica, di trovare una
soluzione al chiuso di una gelida passione di prestigio (che
si basa su un gergo intellettualistico ed economico) in un
principio di libera discussione che nasce da una certa
gravitazione storica, in cui bene e male, eroismo e viltà
appaiono nei loro precisi confini: non dunque romanzo storico
I Vicerè, ma romanzo in cui la storia ferve dentro e appare,
in un'atmosfera di attesa, quasi un mito liberatore, simbolo
di un faticoso progresso, di una forza che attrae a sé anche
gli elementi più sordi e restii, la storia dunque nel suo
valore di prospettiva umana.
Così al di là delle molte figure predeterminate, nate sotto il
segno della poetica veristica, al di là di certi «nuclei» di
accadimenti (non veri centri di energia, non linee di forza),
che si stringono progressivamente intorno a una umanità
demoniaca (ma senza il fascino, e il tormento del demoniaco)
nasce una paziente catarsi storica, delusa e anche disillusa,
per cui all'analista e all'annalista De Roberto subentra un
narratore che fa convergere gli eventi su un piano di
distaccata prospettiva, secondo le leggi che gli Uzeda non
comprendono e non possono comprendere, perché mosse da forze
superiori e anche dalle umili forze della storia e anche da
loro stessi, inconsapevoli e pessimistici testimoni di una
realtà che di troppo li trascende, proprio perché si rifiutano
di soffrire, di sperare e anche di errare in essa. Ma tuttavia
da parte loro e loro malgrado e malgrado il loro pessimismo
(che è il lato Uzeda di guardare gli avvenimenti più che il
lato De Roberto, in cui sovrasta l'aspetto di una lucida,
distaccata e anche placata visione che non rifugge
dall'ironia, ma senza incidere su un'umile, vigile speranza)
si istituisce un rapporto poetico fra le figure e la storia,
tra la nobile casata e la storia, anche se in un primo momento
si era creata una netta separazione...
Il romanzo si conclude con un senso esatto della misura,
quando gli Uzeda cessano di essere degli antagonisti della
storia, in nome delle forze dell'anti-storia o degli emblemi
del genealogico Mugnòs, ma ancora non acquistano un senso di
vita interiore: essi intenderanno sempre la storia alla loro
maniera di «mostri» Uzeda, che giungono a simboleggiare in.
concrete figure certe turpi immaginazioni, dall'attribuzione a
Consalvo di iettatore (motivo fantastico e «scellerato» nella
mentre del principe padre) all'abnorme parto di Chiara, quasi
una sintesi, un groppo da bestiario (dopo una serie di
immaginari parti), all'animalesco linguaggio di don Blasco,
alle grottesche e surreali fantasie intorno a eredità e
testamenti e matrimoni.
Di contro lo scrittore cerca umanità in uno stile ricco di
tonalità impreviste, cerca sviluppi non rigidi: così nella
descrizione dei corsi e dei ricorsi periodici del colera,
regolare e ineluttabile come una tragica misura del tempo;
l'impresa dei Mille è vista in uno scorcio provinciale e il
racconto del loro accantonamento nel convento catanese di San
Nicola è illuminato da una come lietezza intima di speranza,
da un segno di gentilezza; diversa ancora e più complessa
diventa la tensione stilistica della narrazione dei tempi di
Aspromonte, incline a rilevare lo spegnersi di un'illusione e
della freschezza di uno slancio eroico in una situazione
gravida di cupi fermenti rivoluzionari; poi comincia la storia
attenta e minuta delle lente trasformazioni economiche e
sociali, dell'arrivismo di una borghesia arricchita e delle
sue varie inclinazioni politiche nel momento di passaggio
dalla Destra alla Sinistra, pur essa disposta ai compromessi
dopo le elezioni del '74, e anche si intensificano gli accenni
a quelle floride società operaie che rappresentavano la
partecipazione alla vita pubblica di nuovi strati sociali: si
tratta di una storia ridotta a scorci, al rilievo di un
particolare, a un preannuncio; è il gusto di una storia che
riflette sull'origine, sui germi di nuove disposizioni, che
provoca nella pagina un senso di attesa, un andamento sciolto
e impreveduto nell'intonazione sbrigativa e insieme ricca di
significati per quella sua libertà di atteggiamenti
impressionistici.
Ma tali riflessi storici ancora valgono per il loro nesso con
la psicologia degli Uzeda, in quanto quegli avvenimenti cui
essi guardano con terrore, nella loro modestia (fatta
eccezione per l'epico racconto, trasformato in accenti quasi
domestici e familiari, dell'impresa dei Mille) riecheggiano
l'umile storia d'Italia che cerca una via d'uscita spesso
infelice e provvisoria ai tanti suoi problemi, attraverso
l'azione di una classe dirigente a volte di troppo inferiore
ai suoi compiti: tuttavia il nesso con gli Uzeda, con le loro
ombre crudeli e implacabili, sviluppa di contro quel tono
realistico e dimesso che rende la descrizione di tali
avvenimenti naturalmente antiretorica, spoglia, lontana dal
parteggiare nemmeno coi nuovi borghesi, poiché troppo alto è
forse nello scrittore il sentimento di un Risorgimento se non
tradito, certo deluso e non custodito e non sviluppato, perché
possa esser tratto a giudicarli benevolmente; se egli si
oppone all'antirisorgimento, per uguali ragioni si deve
opporre al tralignare o al logorarsi dell'eredità
risorgimentale degli uomini stessi che avevano partecipato a
quelle battaglie. E tuttavia il romanziere se non esprime
speranze, sembra aspettare pazientemente i frutti della
storia, anche se li vede come disperdere per mille rivoli
nella trita, antieroica vita quotidiana.
L'adesione decisa di un Uzeda alla vita politica potrebbe da
una parte significare proprio pessimisticamente anche
un'accessibilità ormai dischiusa e agevolata (per un uomo
incline al compromesso come Consalvo), fornita dalla nuova
situazione italiana, che può tollerare più della precedente
ogni camaleontismo, se non riuscisse veramente accettabile una
considerazione più matura e non certo vanamente intesa a
forzare le posizioni, per una partigianeria di qualsiasi
colore, ma a sottolineare in maniera equilibrata aspetti
positivi e negativi, perché consapevole che solo così si fa
vera storia e che solo si può penetrare in essa con un
interesse concreto, misurando la portata di una accettazione,
che vale ad ogni modo come un riconoscimento.
L'ambizione politica porta il principe Consalvo verso la sua
trasformazione da discendente di vicerè in deputato ed egli
vuole certo qualificare tale suo atteggiamento come una
reincarnazione degli antichi vicerè in regime democratico, ma
in effetti molto cambia in lui e, a dispetto delle sue
intenzioni, il fatto stesso che è costretto a deporre una
maschera per assumerne un'altra implica un'accettazione di
quella storia, di cui la famiglia era rimasta irata e stupita
spettatrice. Certo don Lodovico rappresenta la pazienza
sorniona di una potenza che si sviluppa di fronte alla storia
e don Blasco ora la violenza di una polemica (che tuttavia si
basa su un principio di incomunicabilità del personaggio e
delle sue reazioni, che restano in una sorta di intemperante e
colorita trascendenza verbale), ora la voce di una propaganda,
che, nei suoi subitanei ardori da neofita di un liberalismo a
stampo utilitaristico, non riconferma altro che il gusto di
affermare gli straripanti umori di una grossa personalità, che
a momenti può sembrare voler strappare il velo di ipocrisia
che circonda gli Uzeda, ma in sostanza dà l'impressione di un
vociferare da maligno energumeno, non privo nella sua barbarie
un po' animalesca, di una vena di sottigliezza, di una sua
ferina astuzia. L'uno e l'altro sono dei solitari, ma l'uno
nella sua unzione, l'altro nelle sue furenti esplosioni
tengono d'occhio la storia e alla loro maniera l'accettano,
l'uno con un'adesione d'istinto, con una capacità di
adattamento ad ogni situazione, si da trarre il massimo di
utile per la propria carriera prelatizia, l'altro con la sua
furberia che lo conduce a prendere con tranquilla indifferenza
morale atteggiamenti estremistici sia in un senso che in un
altro, guidato a ciò da una sua naturale conoscenza delle
situazioni politiche e del posto che in esse possono sempre
trovare demagoghi di taglia piuttosto grossolana, senza
problemi in sospeso.
Di tali adesioni non è da dire molto per la naturale
politicità delle due posizioni pur così distanti; più
importante è invece il freddo, aristocratico distacco degli
Uzeda come famiglia, che poi muta e si piega alla necessità
con Consalvo, il quale, dopo i suoi anni di noviziato, di
avventure e di viaggi, giunge a una decisione certo
compromettente, ma anche chiara e maturata: così quella
famiglia, i cui membri anche quando fanno politica restano
sempre chiusi in se stessi, senza rapporti di comunicazione
umana, e anche quando parlano, parlano per se stessi in una
maniera tale che neppure il De Roberto forse ne ha piena
coscienza (si tratta di una sfera estranea alla discussione
morale e di una chiusura del personaggio né interiore né
drammatica, ma assiomatica), nella sua spagnolesca sicilianità,
rende fantasticamente in maniera turbante, sulla soglia della
nuova Italia, un complesso di aporie che risalgono a una
tradizione e si portano innanzi nel futuro; essi paiono quasi
alludere a una lotta col destino, con la storia, ma si
confermano poi non solo dei deboli lottatori (e in questa
debolezza delle loro stesse ostinate convinzioni, sta la loro
condanna politica e umana), ma anche degli individui malcerti
ed esitanti, senza uno scopo che non sia egoistico ed
immediato, pur nelle loro fissazioni. Il paesaggio di queste
persone sconvolte e in crisi perenne giunge a definirsi solo
in questo, appunto, che il turbamento dei tempi ha potuto
aggiungere solo una nota alle altre già troppo evidenti della
loro follia: di tipi come gli Uzeda probabilmente se ne
troveranno prima e dopo l'Unità, ma è vero tuttavia che essi
rappresentano, come blocco unitario, quasi un emblema del
passato.
Per questo allo scrittore, che tra le tante tendenze e facce
del reale, non trascura quelle dell'umorismo, del grottesco,
dell'ironia, non riesce difficile giungere a scrivere, pure
attraverso a tali tonalità, un'opera che risulta
fondamentalmente seria e come grave nella sua direzione
unitaria e nel suo volto più profondo, quando si sappia
cogliere il succo segreto di essa. L'urto dei due mondi non è
tragico, anzi può passare attraverso pagine rapidamente e
pungentemente comiche, certo però lascia una impressione di
tristezza, di una certa violenza, stilistica e di fondo,
spietata e crudele, di una dissipazione spirituale, non
proprio per quel che muore nell'opera e neanche per quel che
in essa nasce, ma per quel che si avverte come inferiore a se
stesso nel passato e nel presente.
Dai padri ai figli la storia degli Uzeda percorre una parabola
in cui í, caratteri degli antichi ossessi si trasformano,
aprendo spiragli verso aspetti persino di un languore
patetico, quali trascorrono in una vicenda romanticamente tesa
verso una soluzione suprema, sostenuta da un sentimento di
serietà e delicata dignità dell'amore, come quella di Teresa;
le varie linee si compongono in un insieme contrastato, certo
non ridotto all'essenziale, ma valido in qualche maniera
persino nei suoi scavi secondari. È che nei Viceré si respira
un'atmosfera di mutamento e il vero è portato in una
dimensione storica (che è altro dalla dimensione temporale in
cui gli Uzeda distendono la serie e la successione dei loro
miti di eredità, di testamenti, di matrimoni): i personaggi
non attendono tanto al varco delle loro azioni, che sono
spesso quasi prevedibili, quanto al varco del loro confronto
con la storia. La morale che da essi si ricava resta
fondamentalmente quella del compromesso; la deformazione
sfocia nel compromesso, la storia assorbe anche il
compromesso; ma gli Uzeda restano schiavi di se stessi; nessun
Uzeda, neanche Teresa e Consalvo, riesce ad avvertire il
sentore di una vera, umana libertà...
La decadenza, la morte, la storia, sono questi i temi, intorno
a cui non sempre v'è sobrietà di scrittura, poiché a volte
essa appare come qualcosa di convenzionale, di costruito, che
può derivare dalle conseguenze della poetica veristica,
denunciando un venir meno di quella vitalità che corrisponde
alla vitalità della fantasia e del linguaggio: era sin troppo
facile che ciò accadesse per gli Uzeda, che appaiono per certi
aspetti la negazione della vitalità e che solo in don Blasco
presentano quello tra loro che almeno, anche se imbevuto dei
pregiudizi e delle colpe familiari, se le porta addosso con
una certa spigliatezza e vivacità canagliesca.
Ma era singolarmente difficile tenere questa folla di figure
sul filo del tempo, sulla soglia quasi della loro morte: gli
schemi veristici si sovrappongono agli schemi mentali insiti
nelle tradizioni nobiliari; è un lungo cammino che si deve
percorrere per giungere alla comprensione di un loro
significato; oltre v'è il respiro libero della storia.
Attraverso gli intrichi del romanzo, attraverso le punte
ironiche, gli svaghi grotteschi e certi succhi estravaganti,
attraverso l'aspra disperazione della tragedia, il De Roberto
sfiora l'alta malinconia della storia, la fine di un mondo; ma
attraverso quella serie di eventi cui si affacciano le amare
maschere degli Uzeda ancora riesce a balenare qua e là una
pagina di speranza, anche se essa può sembrare poi come
inghiottita dal tempo quella fallita rivoluzione in convento
tra i novizi, in un clima di fanciullesche impressioni,
stupori, attrazioni, quando Bixio e Menotti Garibaldi hanno
portato i volontari entro le mura di San Nicola. L'episodio
più umanamente poetico è anche quello che segna un vivo,
limpido contatto con la realtà in una sfumatura come di
candore (la rosa di Giovannino), mentre almeno per un momento
gli atroci, corrodenti pensieri degli Uzeda impallidiscono e
si spengono come larve nelle tenebre della loro notte. |