Più giovane di circa vent'anni rispetto al Verga e al Capuana,
Federico De Roberto, terzo membro della triade verista
siciliana, appartenne alla primissima generazione del regno
d'Italia. Nato il 16 gennaio 1861 a Napoli, ma catanese per
sangue e per elezione, ancor più immediatamente dei due
fraterni amici e compagni d'arte egli soffrì dei turbamenti e
delle contraddizioni caratteristici di quella prima fase di
vita nazionale unitaria; la sua infanzia, la sua adolescenza
videro la terza guerra d'indipendenza, la conquista di Roma e
poi la rivoluzione parlamentare del '76; la sua formazione
etica e culturale avvenne nel periodo del trasformismo
trionfante; la sua giovinezza conobbe gli scandali finanziari
e le prime rivolte sociali. Quando egli si affacciò alla vita
letteraria, gli ideali del Risorgimento erano ormai crollati
nell'animo di molti; le nuove generazioni non si riconoscevano
più in essi, e dalla convinzione del loro fallimento erano
tratte ad una più generale reazione contro ogni forma di
poetico abbellimento della meschina realtà in cui essi
vivevano e in cui, a loro parere, l'uomo era sempre vissuto.
Romanticismo e Risorgimento, che assieme avevano cospirato
nell'alimentare tante fallaci illusioni, vengono ora
accomunati in un'unica condanna; sul piano della poesia, i
maggiori bersagli sono rappresentati dal Prati e dall'Aleardi,
non solo per il loro estenuato patetismo ma anche per
l'ispirazione etico-politica, per la vocazione di cantori
ufficiali del rinnovamento nazionale; mentre nel campo della
prosa l'obiettivo è costituito dai degeneri seguaci del
Manzoni, con i loro ardori patriottici, gli intenti educativi,
il moralismo pietistico, la tendenza ad ambientare la vicenda
romanzesca in epoche remote, evitando un diretto impegno di
fronte alla vita contemporanea.
De Roberto si accostò alla letteratura quando l'esperienza
romantica si era ormai dissolta, per usare le parole del De
Sanctis, in una «Arcadia con licenza de' superiori»; e la
caratteristica fondamentale della sua personalità di scrittore
fu appunto l'avversione tenace, radicata, a volte persino
furiosa contro l'enfasi sentimentale, i rapimenti lirici e
tutte le forme di idealizzazione o comunque di mistificazione
del vero, di cui si eran resi colpevoli, ai suoi occhi, gli
autori tardo-romantici. In lui fu sempre accesissima la
volontà di scoprire i concreti, terreni motivi dell'agire
umano, fuori di ogni prospettiva metafisica, rimuovendo ogni
velame di pietà o di ipocrisia: tutta la sua miglior narrativa
vive in questo impegno di assoluta dedizione al reale, in
quest'ansia di scrutare il vero volto e l'animo della civiltà
contemporanea, adempiendo così un urgente dovere civico e al
tempo stesso collaborando a un radicale rinnovamento
letterario.
A fondamento della concezione derobertiana dell'arte sta
dunque l'assioma che primo compito dello scrittore è quello di
osservare attentamente, scrupolosamente la realtà del proprio
tempo, la vita cioè, la quale è «il tema unico e molteplice,
semplice e formidabilmente complicato che si offre all'esame
del romanziere». Occorre insomma anzitutto accumulare dei
«documenti umani»: ma questa stessa parola d'ordine, che De
Roberto assumerà a titolo di uno dei suoi primi volumi, mentre
parrebbe segnare il più stretto legame col naturalismo
francese, rivela invece le profonde divergenze che separano lo
Zola e la sua scuola dal movimento verista di cui De Roberto
fu partecipe. A questo punto, infatti, subentra il secondo
momento della creazione artistica, la riproduzione della
realtà. Lo scrittore non dovrà presentar tali e quali,
fotograficamente, i risultati della sua osservazione, che sono
ancora materia prima rozza ed amorfa: dovrà dar loro un ordine
e un senso, correggendo, modificando, ricomponendo, in vista
del particolare risultato che intende conseguire. L'unica
legge inviolabile è che egli non alteri la natura della
materia prima»; di qui l'altra grande parola d'ordine, quella
dell'impersonalità. Essa però non implica un'assenza
d'ispirazione poetica da parte dello scrittore, il quale,
comportandosi en savant, osservi lo stesso atteggiamento del
chimico o del biologo: il canone dell'impersonalità indica
soltanto il rispetto dell'artista per il mondo da lui assunto
a propria materia, che è ormai suo e quindi non deve essere
turbato nella sua coerenza da elementi estranei; l'artista non
deve prestar orecchio ad alcuna suggestione moralistica o di
qualsiasi altra natura, e nella sua opera non deve trasferire
alcuna delle proprie preoccupazioni d'ordine pratico.
Sebbene De Roberto usi indifferentemente i due termini di
naturalismo e di realismo, è facile rilevare come le teorie
zoliane siano assai estranee al suo pensiero: naturalista è
infatti per lui «chi vuol riuscire naturale, cioè chi cerca di
dare alla finzione artistica i caratteri del vero». Dare alla
finzione artistica i caratteri del vero: a questo concetto è
ancorata la battaglia antiromantica del nostro scrittore, la
sua fedeltà alla vita vista così come essa è ed obiettivamente
riprodotta con la sincerità, con il coraggio di chi non vuol
ricamare un posticcio velo di fatue ed inutili illusioni sulla
concreta trama dell'esistenza. Qui risiedeva il significato
dell'autonomia dell'arte, per questo essa si spogliava di ogni
determinazione estranea: la fedeltà a se stessa in quanto arte
doveva identificarsi con la fedeltà al vero.
Questi principi vengono già esposti da De Roberto nella sua
prima opera: una serie di saggi e divagazioni critiche
raccolti sotto il titolo modesto e un poco anodino di
Arabeschi, editi nel 1883 dal Giannotta, a Catania, quando
l'autore era poco più che ventenne. Il credo artistico del
giovanissimo scrittore vi appare efficacemente formulato con
queste parole:
La scrupolosità nell'osservazione, la sincerità
nell'impressione, l'impersonalità nell'esecuzione: ecco le
norme prime, essenziali a cui ognuno dovrebbe attenersi.
Questo è per De Roberto il «metodo d'arte» realista, sul quale
fonderà la più proficua parte della sua attività di narratore.
Arte realista dunque, ma non naturalista; nei citati Arabeschi
egli sottolinea più volte la sua decisa avversione allo
zolismo, dichiarando categoricamente che ai suoi occhi il
romanzo sperimentale appare «una pretesa così sciocca e
assurda da doversi accogliere soltanto con una scrollata di
spalle», e aggiungendo che fare un «romanzo vero», un romanzo
di una «verità efficace, spassionata, impersonale» non
significa fare un romanzo «realista»: significa evitare la
retorica, la «sentimentalità falsa e imparaticcia», ma non in
nome di altri e sia pur diversi convenzionalismi, poiché è
altrettanto assurdo far dipendere l'arte «dall'impero della
scienza o da quello della morale» .
Da questi principi sarà poi possibile dedurre alcuni
corollari. In primo luogo, il narratore realista dovrà cercare
i propri soggetti là dove il vero presenta caratteristiche più
spiccate, più individualizzabili, e salienti; egli si volgerà
dunque non agli «stati di virtù» e di salute, che sono
uniformi e monotoni, ma a quegli «ambienti corrotti» e «tipi
degenerati» e «casi patologici» nei quali si trova più ricca
messe di «circostanze significative». Il mondo dei realisti
sarà dunque quello della povera gente
. . . a misura che si scende nella gerarchia sociale, le
differenze si accrescono e i tipi si determinano più
nettamente. Un contadino, un operaio, un marinaio, un minatore
hanno dei caratteri esclusivamente propri, specifici, nella
fisionomia, nell'abito, nel modo di fare e di parlare, da
renderli riconoscibili a cento miglia lontano; la folla
elegante che popola un salone è più uniforme, offre meno presa
all'osservazione.
La stessa volontà di rispettare i caratteri del vero porta ad
una seconda conseguenza, cioè che lo scrittore abbia
sott'occhio i propri modelli. Di qui il cosiddetto «
regionalismo » verista, e di qui la natura particolare dello
stile, in quanto sarà necessario che i personaggi
realisticamente ritratti parlino la loro lingua, non quella
dell'autore o dei suoi lettori. Ma come raggiungere, in
pratica, quest'ultimo obiettivo Sta bene evitare il ridicolo
convenzionalismo di far parlare i popolani di Sicilia con
accento toscano e modi classicheggianti, ma la soluzione di
riprodurre il dialetto così com'esso è rischia di rendere
l'opera incomprensibile al lettore:
Fra i due partiti estremi, io tento, con l'esempio del Verga,
una conciliazione; sul canovaccio della lingua conduco il
ricamo dialettale, arrischio qua e là dei solecismi, piglio di
peso dei modi di dire, cito dei proverbi, pur di conseguire
questo benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella
descrizione e nella narrazione ancora.
Queste parole di De Roberto, questa teorizzazione di una
poetica realista distinta e contrapposta a quella del
naturalismo, riecheggiano posizioni assai diffuse tra i
narratori veristi italiani, i quali avevano guardato con
vivace interesse alla grande esperienza zoliana, ma erano
stati ben lungi dall'accettarla indiscriminatamente, in tutti
i suoi presupposti scientifici o pseudo-scientifici. |