L'opera del Vico è una narrazione mitologica e poetica,
informata alla fantasia divinamente fanciullesca ch'egli ebbe,
in un rapimento che assomiglia l'heroico furore bruniano.
Mentre egli ricerca religiosamente il vero; e col rito più
grave, la fantasia gli traduce in forme viventi d'uomini e di
terre quelle nude concezioni. I tempi e gli spazi della storia
si fan suono e lume: e quel che di corporeo porta in noi ogni
più assottigliata idea, ai confini ultimi in cui la mente
chiude tutti i sensi e fino i sogni della memoria per pensare
il puro essere e il puro nulla, e sempre trova un'immagine e
un segno, ombra di vuoto, numero matematico, il Vico sentì in
grado sovrumano. La verità gli si traduce in una metafora,
che, talvolta, amata per se medesima, gli farà quasi
dimenticare l'idea donde nacque.
Il senso di un poema fu subito avvertito da coloro che primi
amarono la Scienza nuova, e taluno ne indicò l'estro lirico e
richiamò l'ode, e talaltro la paragonò alla Divina Commedia.
Il paragone è spontaneo, se pur l'opera vichiana non raggiunga
per alcun verso l'euritmia indicibilmente compiuta della
Commedia: spontaneo per l'ambizione comune alle due opere di
serrare in un circolo eterno tutto il mondo e gli eventi
passati e i futuri, per l'energia che muta i concetti in forme
corporee e metaforiche, per l'altezza severa dell'espressione,
verde a un tempo e matura, nuovissima e pure antica...
Un concetto, un momento ideale della mente e della storia,
prende forma e figura nello stile del Vico: diventa una
persona, un fatto mitico. Ha trovato l'essenza della poesia
come «prima operazione della mente umana», eterna fantasia
dell'uomo che precede idealmente la riflessione logica, come
scoprirà Omero «un'idea ovvero un carattere eroico d'uomini
greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie»; ha
trovato la «Logica poetica» che i moderni han tradotto nella
parola «Estetica», riconoscendo in lui il padre di questa
nuova dottrina: ed ecco come, in un certo suo passo, esprime
quella scoperta filosofica:
«Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare
senso e passione.» Ma subito la sua idea si tramuta in
immagine: «ed è proprietà de' fanciulli di prender cose
inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarci come se
fussero, quelle, persone vive». Allora, assumendo come unità
l'idea e l'immagine, trae una nuova conclusione mitologica:
«Questa degnità filologico-filosofica ne approva che gli
uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti».
Ognuno può cogliere i balzi pindarici d'un periodo come quello
citato.
Ha scoperto la spontanea nascita del mito «nella vasta
immaginativa di que' primi uomini, le menti de' quali di nulla
erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla
spiritualizzate, perch'erano tutte immerse ne' sensi, tutte
rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne' corpi»: e il
mito gli si è svelato una storia primitiva che gli uomini
formano e credono, non già l'allegoria di concetti o il
travestimento di fatti eroici reali. Così, dicendo egli che i
primi uomini furori di natura sublimi poeti, ha veramente
detto che furono gli inventori della storia primitiva. E d'un
subito la scoperta gli si traduce essa stessa in immagini
mitologiche.
Qui si svolgono alcuni di quei suoi motivi primevi, un che di
silvestre e di aurato, che han la trama di una sinfonia: e par
che il richiamo d'un solo, come in rime ideali ed echi e
specchi della mente, faccia risuonare tutti gli altri nelle
loro armoniche segrete. Perfino la sintassi coltissima, e
tuttavia irregolare, contribuisce a questo incanto...
Il Vico scrittore aveva ben chiara coscienza della sua virtù
letteraria e nell'Autobiografia, a proposito di una sua
orazione in morte di donna Angiola Cimini marchesana della
Petrella, scrive: «il Vico vi volle fare esperienza quanto la
dilicatezza de' sensi greci potesse comportare il grande
dell'espressioni romane, e dell'uno e dell'altro fosse capace
l'italiana favella».
Tra i sublimi irregolari della nostra letteratura, sino al
Cellini, la sua prosa è coltissima. Alla base della sua
espressione e della sua, talvolta, anarchica sintassi è un
humus di classico latino, specialmente tacitiano; ed è degno
di nota che la sua prosa latina ha una compostezza ed euritmia
assai maggiori che non abbia la sua prosa italiana. Le
proposizioni del suo periodo non si possono ripetere se non
come versi, con un'intenzione di canto: e alla poesia sempre
riportano le rispondenze analogiche delle idee e i paralleli
delle metafore, non per la gioia del concettismo, ma per la
genuina letizia delle discoverte, degli accostamenti, dei
ricorsi.
In alcuni suoi numeri, o anzi nella grandezza del numero,
questa prosa richiama poi la splendente prosa del Tasso, che
unisce la duttile e un po' languida eleganza metrica del
Mezzogiorno, con la netta proprietà toscana; ma è più rilevata
e succinta. Talvolta la sua espressione sembra tradotta in
termini toschi dal dialetto napoletano: talaltra si direbbe
che egli abbia seguito un cammino più lungo, e avendo tradotta
in latino la frase dialettale, la ritraduca in aulica parlata
toscana, con quell'aria assorta e canora che è attenta al
minimo rilievo: al punto che anche tipograficamente il Vico
sembra aver percorso con l'abbondanza dei caratteri la stampa
dei moderni paroliberi.
In quei casi l'ammirazione nostra per il Vico è sempre
accompagnata da un sorriso, che non è già quella tenerezza
stupita con la quale si accompagna la prosa fanciulla dei
primi secoli, ma la previsione di un non so che ingenuamente
comico. Sono confidenze che il genio del Vico non potrebbe
considerare irriverenti, tanto sono accompagnate dalla
riverenza genuina verso la sua grandezza; ma esse sono
incoercibili quando, in quei periodi che scoppiano l'uno
dall'altro come fuochi d'artificio, la prosa si concentra come
può in una descrizione solenne, e scatta improvviso un
particolare di tutto diverso tono. Pensate questa meravigliosa
visione: «Gli eroi, per la fresca origine gigantesca, erano in
sommo grado goffi e fieri, quali ci sono stati detti los
patacones, di cortissimo intendimento, di vastissime fantasie,
di violentissime passioni. Per lo che dovetter essere zotici,
crudi, aspri, fieri, orgogliosi, difficili ed ostinati ne'
loro propositi e, nello stesso tempo, mobilissimi al
presentarsi loro de' nuovi contrarii obbietti». Ma quei
patacones inattesi, in una così severa prosa, sforzano
irrimediabilmente al sorriso.
È un linguaggio «ricercato» sempre, e tuttavia spontaneo,
virgineo. Tutta una serie di espressioni vichiane ha tal
personale suggello che il dizionario e la grammatica non ci
hanno che fare: e son restate sue, e non han possibilità di
accasarsi nella prosa altrui, senza subito parere: non hanno
agevolezza di entrar nella comune lingua, come, ad esempio,
nella nostra poesia entrò tutta la fraseologia petrarchesca:
conservano la lor origine vichiana, che com'era insolita pur
nei suoi tempi, è stranamente antica e solitaria anche per
noi. Le parole «eroico, favoloso, barbarie, favole eroiche,
degnità» ecc., come in parte abbiamo notato, sono assunte dal
Vico in un significato tutto suo, anzi originario: e non so
quale scrittore italiano fu mai da dire come il Vico inventore
di parole e di significati nuovi. |