CRITICA: GIAMBATTISTA VICO

 VICO E IL SUO TEMPO

 AUTORE: Paolo Rossi    TRATTO DA: Opere

 

Di fronte ad alcuni temi centrali della cultura del suo tempo Vico appare dunque in una posizione singolarmente arretrata. Né si tratta solo di temi attinenti alla «scienza»; in sede di erudizione antiquaria la situazione non è molto diversa: «Vico non fu praticamente toccato dai metodi di Spanheim, di Mabillon e di Montfaucon. Egli ammirò Mabillon e fece riferimento almeno una volta al Montfaucon, ma non assimilò mai la loro esatta erudizione. Fu isolato nel suo tempo in parte perché fu un pensatore più grande, ma in parte anche perché fu uno studioso peggiore dei suoi contemporanei». Questo crudo, ma esatto giudizio non può certo essere esteso al di là dei limiti precisi nei quali è stato formulato da Arnaldo Momigliano, anche se è opportuno qui ricordare che il Nicolini - che certo nessuno vorrà accusare di scarso amore per Vico ha notato che nel Vico «la conoscenza della letteratura dei suoi innumeri argomenti si arresta agli ultimi anni del secolo XVII» e ha parlato, a più riprese, della «coesistenza» nel pensiero vichiano di una « tendenza conservatrice e alquanto retriva» con una «tendenza preromantica, rivoluzionaria e precorritrice»...

In realtà già sotto la patina retorica del De ratione, dietro il gusto così arcaico e seicentesco delle pagine del De antiquissima troviamo presenti motivi di importanza fondamentale destinati a svolgere una funzione di primo piano nel pensiero europeo: il rispetto per il momento fantastico della vita umana; la difesa appassionata del mondo della poesia, della fantasia, del mito - come un mondo che ha dimensioni e caratteristiche sue proprie -; il richiamo al mondo favoloso del fanciullo che non va negato o dimenticato in nome del culto per una ragione tutta spiegata; l'insistenza su una necessaria pluralità di metodi nei diversi campi del sapere. Tutto ciò si presenta davvero come una riaffermazione dei temi più validi e più alti legati all'eredità dell'umanesimo italiano ed europeo. Un'eredità, questa, che si fa particolarmente viva ed operante nelle pagine accese e solenni della Scienza nuove: qui il pensiero del Vico é davvero «operoso in mezzo ai problemi del suo tempo; è impegnato ad intendere il significato dell'antico innanzi al moderno, del selvaggio e del primitivo innanzi al civilizzato e all'evoluto, della poesia innanzi alla scienza, del fanciullo innanzi all'uomo».
Nella fase più matura del suo pensiero - approssimativamente intorno al 1720 - Vico giunse, sulla base di un approfondimento del suo criterio del verum factum, ad una formulazione di importanza decisiva: l'uomo, al quale è irrimediabilmente preclusa la conoscenza del mondo naturale, può avere piena e reale conoscenza di quel mondo storico che è costruzione e opera umana. C'è una «verità la quale non si può a patto alcuno revocare in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana». La storia ha quindi carattere scientifico, anzi nessuna scienza è più certa della storia giacché in essa l'uomo narra le cose che egli stesso ha fatto. Il fine della scienza della storia o scienza nuova non è dunque la semplice raccolta dei fatti, ma la scoperta della legge o dell'ordine secondo i quali si susseguono nel tempo i fenomeni storici. Si tratta, nella terminologia vichiana, di determinare quella «storia ideale eterna» sulla quale corrono nel tempo le particolari storie delle singole nazioni. La storia come scienza non è dunque né mera erudizione (raccolta di fatti) né escogitazione di significati arbitrari sovrapposti ai fatti: essa è insieme, e contemporaneamente, scienza del particolare, del dato, del «certo» e scienza dell'universale, del «vero», della legge ideale nella quale si rispecchia il divenire storico. In questo senso Vico parla di una sintesi tra filologia e filosofia: «hanno mancato per metà, così i filosofi che non accertarono la loro ragione con l'autorità dei filologi, come i filologi che non si curarono di avverare la loro autorità con la ragione dei filosofi». La filologia - che non è per Vico semplice studio del discorso, ma indagine sulle lingue, i costumi e le leggi, sulle guerre e le paci, sulle alleanze e i commerci - dovrà così confermare e rendere «certe» le verità della filosofia che, senza questo accertamento, resterebbero arbitrarie ed astratte, simili a quelle dell'utopismo platonico. D'altro canto la filosofia dovrà andar discoprendo, entro il certo delle cose umane, le guise eterne onde nascono i fatti umani e sostituire al «fu, è e sarà» della constatazione empirica il «dovette, deve e dovrà» della conoscenza scientifica. Verrà superata in tal modo la frammentarietà dei fatti (il piano su cui per Vico si era mosso Tacito): la vicenda temporale dell'uomo apparirà «verificata» e questo inveramento del certo troverà corrispondenza continua in un accertamento del vero.

La scienza nuova si pone quindi come una «teoria civile e ragionata della Provvidenza divina», come la dimostrazione cioè di quell'ordine provvidenziale che ha condotto gli uomini, mossi sempre da impulsi e finalità particolari, fuori del loro originario stato di primitivi bestioni, verso le forme della vita civile. La «città del genere umano» si costruisce quindi nel tempo con la collaborazione divina. La provvidenza opera , «senza verun umano scorgimento o consiglio», sovente contro «i proponimenti degli uomini»: il mondo - scrive Vico - è senza dubbio «uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti». Nel grandioso processo di costruzione della «gran città del genere umano» non dominano né il caso di Epicuro, Hobbes e Machiavelli, né il fatto degli epicurei e di Spinoza, che escludono ogni iniziativa umana; in esso agisce un principio eterno o una direzione ideale che, mentre non si identifica senza residui con il divenire delle cose, appare tuttavia in esse continuamente attivo e operante.

Di un processo storico così inteso, Vico traccia, nella Scienza nuova, le linee di sviluppo, e determina il ritmo che è, come si è detto, quello medesimo della mente umana: alle tre fasi del senso, della fantasia, della ragione, corrispondono i tre successivi momenti del divenire storico: l'età degli dei, degli eroi, degli uomini. Secondo la notissima formula vichiana, gli uomini dapprima «sentono senza avvertire, dipoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Alle origini della storia umana non sta quindi, come avevano sostenuto fra gli altri i platonici del Rinascimento, Bacone e lo stesso Vico nel De antiquissirna, una misteriosa, riposta e sublime sapienza filosofica, ma la immane rozzezza e la stupefatta barbarie dei primitivi «bestioni» incapaci di riflessioni e dotati di forti sensi e di robustissima fantasia. Dopo questa «discoverta», si è «dileguata l'oppenione della sapienza inarrivabile degli antichi, cotanto disiderata di scuprirsi da Platone infin a Bacon da Verulamio, De sapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il genere umano, non già sapienza riposta di sommi o rari filosofi».

Le favole o miti non sono travestimenti di verità filosofiche né arbitrarie invenzioni: in essi trova spontanea espressione la natura miticofantastica dell'umanità primitiva. Per ricostruire quella metafisica non «ragionata e astratta », ma «sentita e immaginata» dalla quale ebbe origine la sapienza poetica che fu caratteristica dell'aurora del genere umano, è necessario superare da un lato la «boria dei dotti» che ha attribuito ai primitivi una sapienza profonda, dall'altro la «boria delle nazioni» che ha fantasticato origini illustri agli stati; è necessario cioè rifiutare quell'atteggiamento antistorico che proietta nel mondo delle origini le caratteristiche e le proprietà del mondo maturo dominato dalla ragione e deforma in tal modo il significato originario dei racconti mitologici. Fonti per la ricostruzione di quel mondo remoto al quale Vico si volge non saranno dunque più, come voleva la storiografia tradizionale, le testimonianze degli storici, dei filosofi e dei letterati, ma gli stessi miti, le etimologie, la legislazione delle XII Tavole, i poemi omerici e i grandi frantumi dell'antichità: gli avanzi archeologici, le monete, le leggende, gli usi e i costumi popolari...

L'atteggiamento che Vico assume nei confronti della storia umana non è, nella sostanza, molto dissimile da quello che il pensiero moderno aveva assunto nei confronti del mondo della natura, quando aveva posto in luce il valore di un'esperienza che fosse in grado di organizzarsi in teoria e di una teoria che si ponesse a sua volta come strumento di guida e di controllo dell'esperienza. La filologia appare a Vico il mezzo necessario a vedere come la storia è davvero accaduta; la filosofia, cui spetta il compito di «ridurre la filologia in forma di scienza» diviene, a sua volta, il metodo di comprensione della realtà accertata dalla filologia, trasforma quell'esperienza del certo in un'esperienza sistematica e razionale. Fra esperienza e teoria, fra l'individuale e il tipico, tra i fatti e le idee si pone per Vico, come sintesi attiva, quella scienza che è stata finora, in nome della fisica, trascurata dai dotti e alla quale spettano compiti diversi da quelli propri della filosofia naturale: giungere ad una piena, razionale comprensione della totalità di quel processo temporale nel cui ambito si è andata realizzando la vita civile del genere umano.
Proprio in quell'ambiente napoletano, entro il quale si era mosso il Vico, un ambiente imbevuto di matematismo e di sperimentalismo e insieme ricco di interessi letterari, storici e giuridici, si era del resto manifestata, attraverso il richiamo al concreto e al particolare, all'esperimento e al documento, l'esigenza di una scientificità che caratterizzasse non solo le ricerche dei fisici e dei naturalisti, ma anche quelle dei giuristi e degli storici. Di fronte alla grande rivoluzione scientifica del suo tempo, di fronte cioè ad un'esperienza fondamentale della cultura moderna, Vico aveva assunto un atteggiamento di incomprensione e di chiusura; le sue critiche al cartesianesimo, al giusnaturalismo, alla cultura settecentesca erano nate sovente sul terreno di un accentuato conservatorismo culturale. Ma sul terreno della storia e delle umane cose civili, in un dialogo di respiro europeo con Bacone con Grozio con Cartesio, Vico si propose problemi essenziali e prospettò soluzioni alle quali, sottolineando aspetti diversi del suo pensiero, si richiameranno, più tardi, il positivismo e lo storicismo.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis