Di fronte ad alcuni temi centrali della cultura del suo tempo
Vico appare dunque in una posizione singolarmente arretrata.
Né si tratta solo di temi attinenti alla «scienza»; in sede di
erudizione antiquaria la situazione non è molto diversa: «Vico
non fu praticamente toccato dai metodi di Spanheim, di
Mabillon e di Montfaucon. Egli ammirò Mabillon e fece
riferimento almeno una volta al Montfaucon, ma non assimilò
mai la loro esatta erudizione. Fu isolato nel suo tempo in
parte perché fu un pensatore più grande, ma in parte anche
perché fu uno studioso peggiore dei suoi contemporanei».
Questo crudo, ma esatto giudizio non può certo essere esteso
al di là dei limiti precisi nei quali è stato formulato da
Arnaldo Momigliano, anche se è opportuno qui ricordare che il
Nicolini - che certo nessuno vorrà accusare di scarso amore
per Vico ha notato che nel Vico «la conoscenza della
letteratura dei suoi innumeri argomenti si arresta agli ultimi
anni del secolo XVII» e ha parlato, a più riprese, della
«coesistenza» nel pensiero vichiano di una « tendenza
conservatrice e alquanto retriva» con una «tendenza
preromantica, rivoluzionaria e precorritrice»...
In realtà già sotto la patina retorica del De ratione, dietro
il gusto così arcaico e seicentesco delle pagine del De
antiquissima troviamo presenti motivi di importanza
fondamentale destinati a svolgere una funzione di primo piano
nel pensiero europeo: il rispetto per il momento fantastico
della vita umana; la difesa appassionata del mondo della
poesia, della fantasia, del mito - come un mondo che ha
dimensioni e caratteristiche sue proprie -; il richiamo al
mondo favoloso del fanciullo che non va negato o dimenticato
in nome del culto per una ragione tutta spiegata; l'insistenza
su una necessaria pluralità di metodi nei diversi campi del
sapere. Tutto ciò si presenta davvero come una riaffermazione
dei temi più validi e più alti legati all'eredità
dell'umanesimo italiano ed europeo. Un'eredità, questa, che si
fa particolarmente viva ed operante nelle pagine accese e
solenni della Scienza nuove: qui il pensiero del Vico é
davvero «operoso in mezzo ai problemi del suo tempo; è
impegnato ad intendere il significato dell'antico innanzi al
moderno, del selvaggio e del primitivo innanzi al civilizzato
e all'evoluto, della poesia innanzi alla scienza, del
fanciullo innanzi all'uomo».
Nella fase più matura del suo pensiero - approssimativamente
intorno al 1720 - Vico giunse, sulla base di un
approfondimento del suo criterio del verum factum, ad una
formulazione di importanza decisiva: l'uomo, al quale è
irrimediabilmente preclusa la conoscenza del mondo naturale,
può avere piena e reale conoscenza di quel mondo storico che è
costruzione e opera umana. C'è una «verità la quale non si può
a patto alcuno revocare in dubbio: che questo mondo civile
egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne
possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le
modificazioni della nostra medesima mente umana». La storia ha
quindi carattere scientifico, anzi nessuna scienza è più certa
della storia giacché in essa l'uomo narra le cose che egli
stesso ha fatto. Il fine della scienza della storia o scienza
nuova non è dunque la semplice raccolta dei fatti, ma la
scoperta della legge o dell'ordine secondo i quali si
susseguono nel tempo i fenomeni storici. Si tratta, nella
terminologia vichiana, di determinare quella «storia ideale
eterna» sulla quale corrono nel tempo le particolari storie
delle singole nazioni. La storia come scienza non è dunque né
mera erudizione (raccolta di fatti) né escogitazione di
significati arbitrari sovrapposti ai fatti: essa è insieme, e
contemporaneamente, scienza del particolare, del dato, del
«certo» e scienza dell'universale, del «vero», della legge
ideale nella quale si rispecchia il divenire storico. In
questo senso Vico parla di una sintesi tra filologia e
filosofia: «hanno mancato per metà, così i filosofi che non
accertarono la loro ragione con l'autorità dei filologi, come
i filologi che non si curarono di avverare la loro autorità
con la ragione dei filosofi». La filologia - che non è per
Vico semplice studio del discorso, ma indagine sulle lingue, i
costumi e le leggi, sulle guerre e le paci, sulle alleanze e i
commerci - dovrà così confermare e rendere «certe» le verità
della filosofia che, senza questo accertamento, resterebbero
arbitrarie ed astratte, simili a quelle dell'utopismo
platonico. D'altro canto la filosofia dovrà andar discoprendo,
entro il certo delle cose umane, le guise eterne onde nascono
i fatti umani e sostituire al «fu, è e sarà» della
constatazione empirica il «dovette, deve e dovrà» della
conoscenza scientifica. Verrà superata in tal modo la
frammentarietà dei fatti (il piano su cui per Vico si era
mosso Tacito): la vicenda temporale dell'uomo apparirà
«verificata» e questo inveramento del certo troverà
corrispondenza continua in un accertamento del vero.
La scienza nuova si pone quindi come una «teoria civile e
ragionata della Provvidenza divina», come la dimostrazione
cioè di quell'ordine provvidenziale che ha condotto gli
uomini, mossi sempre da impulsi e finalità particolari, fuori
del loro originario stato di primitivi bestioni, verso le
forme della vita civile. La «città del genere umano» si
costruisce quindi nel tempo con la collaborazione divina. La
provvidenza opera , «senza verun umano scorgimento o
consiglio», sovente contro «i proponimenti degli uomini»: il
mondo - scrive Vico - è senza dubbio «uscito da una mente
spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre
superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan
proposti». Nel grandioso processo di costruzione della «gran
città del genere umano» non dominano né il caso di Epicuro,
Hobbes e Machiavelli, né il fatto degli epicurei e di Spinoza,
che escludono ogni iniziativa umana; in esso agisce un
principio eterno o una direzione ideale che, mentre non si
identifica senza residui con il divenire delle cose, appare
tuttavia in esse continuamente attivo e operante.
Di un processo storico così inteso, Vico traccia, nella
Scienza nuova, le linee di sviluppo, e determina il ritmo che
è, come si è detto, quello medesimo della mente umana: alle
tre fasi del senso, della fantasia, della ragione,
corrispondono i tre successivi momenti del divenire storico:
l'età degli dei, degli eroi, degli uomini. Secondo la
notissima formula vichiana, gli uomini dapprima «sentono senza
avvertire, dipoi avvertono con animo perturbato e commosso,
finalmente riflettono con mente pura». Alle origini della
storia umana non sta quindi, come avevano sostenuto fra gli
altri i platonici del Rinascimento, Bacone e lo stesso Vico
nel De antiquissirna, una misteriosa, riposta e sublime
sapienza filosofica, ma la immane rozzezza e la stupefatta
barbarie dei primitivi «bestioni» incapaci di riflessioni e
dotati di forti sensi e di robustissima fantasia. Dopo questa
«discoverta», si è «dileguata l'oppenione della sapienza
inarrivabile degli antichi, cotanto disiderata di scuprirsi da
Platone infin a Bacon da Verulamio, De sapientia veterum, la
quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il
genere umano, non già sapienza riposta di sommi o rari
filosofi».
Le favole o miti non sono travestimenti di verità filosofiche
né arbitrarie invenzioni: in essi trova spontanea espressione
la natura miticofantastica dell'umanità primitiva. Per
ricostruire quella metafisica non «ragionata e astratta », ma
«sentita e immaginata» dalla quale ebbe origine la sapienza
poetica che fu caratteristica dell'aurora del genere umano, è
necessario superare da un lato la «boria dei dotti» che ha
attribuito ai primitivi una sapienza profonda, dall'altro la
«boria delle nazioni» che ha fantasticato origini illustri
agli stati; è necessario cioè rifiutare quell'atteggiamento
antistorico che proietta nel mondo delle origini le
caratteristiche e le proprietà del mondo maturo dominato dalla
ragione e deforma in tal modo il significato originario dei
racconti mitologici. Fonti per la ricostruzione di quel mondo
remoto al quale Vico si volge non saranno dunque più, come
voleva la storiografia tradizionale, le testimonianze degli
storici, dei filosofi e dei letterati, ma gli stessi miti, le
etimologie, la legislazione delle XII Tavole, i poemi omerici
e i grandi frantumi dell'antichità: gli avanzi archeologici,
le monete, le leggende, gli usi e i costumi popolari...
L'atteggiamento che Vico assume nei confronti della storia
umana non è, nella sostanza, molto dissimile da quello che il
pensiero moderno aveva assunto nei confronti del mondo della
natura, quando aveva posto in luce il valore di un'esperienza
che fosse in grado di organizzarsi in teoria e di una teoria
che si ponesse a sua volta come strumento di guida e di
controllo dell'esperienza. La filologia appare a Vico il mezzo
necessario a vedere come la storia è davvero accaduta; la
filosofia, cui spetta il compito di «ridurre la filologia in
forma di scienza» diviene, a sua volta, il metodo di
comprensione della realtà accertata dalla filologia, trasforma
quell'esperienza del certo in un'esperienza sistematica e
razionale. Fra esperienza e teoria, fra l'individuale e il
tipico, tra i fatti e le idee si pone per Vico, come sintesi
attiva, quella scienza che è stata finora, in nome della
fisica, trascurata dai dotti e alla quale spettano compiti
diversi da quelli propri della filosofia naturale: giungere ad
una piena, razionale comprensione della totalità di quel
processo temporale nel cui ambito si è andata realizzando la
vita civile del genere umano.
Proprio in quell'ambiente napoletano, entro il quale si era
mosso il Vico, un ambiente imbevuto di matematismo e di
sperimentalismo e insieme ricco di interessi letterari,
storici e giuridici, si era del resto manifestata, attraverso
il richiamo al concreto e al particolare, all'esperimento e al
documento, l'esigenza di una scientificità che caratterizzasse
non solo le ricerche dei fisici e dei naturalisti, ma anche
quelle dei giuristi e degli storici. Di fronte alla grande
rivoluzione scientifica del suo tempo, di fronte cioè ad
un'esperienza fondamentale della cultura moderna, Vico aveva
assunto un atteggiamento di incomprensione e di chiusura; le
sue critiche al cartesianesimo, al giusnaturalismo, alla
cultura settecentesca erano nate sovente sul terreno di un
accentuato conservatorismo culturale. Ma sul terreno della
storia e delle umane cose civili, in un dialogo di respiro
europeo con Bacone con Grozio con Cartesio, Vico si propose
problemi essenziali e prospettò soluzioni alle quali,
sottolineando aspetti diversi del suo pensiero, si
richiameranno, più tardi, il positivismo e lo storicismo. |