Nato a Morra
Irpino (Avellino) nel 1817, fu discepolo prediletto del purista
Basilio Puoti, dal quale attinse una vasta cultura umanistica che
non gli impedì tuttavia di aderire ben presto alle istanze
romantiche: i suoi maestri d’elezione furono in effetti Hegel e
Vico. Nel 1839 aprì a Napoli una scuola privata e fu per i suoi
discepoli anzitutto un maestro di vita ed un apostolo di libertà:
con essi combatté sulle barricate per l’indipendenza e l’unità
della Nazione, con essi divise carcere ed esilio. Per questo fu
chiamato dal Cavour a far parte del primo governo del Regno
d’Italia come ministro della pubblica istruzione e in questa veste
si prodigò molto perché l’istruzione venisse estesa a tutti i
ceti sociali e l’insegnamento fosse improntato ai valori della
libertà e della democrazia, in modo da affrancare anche i più
umili dalla soggezione «al
confessore, al notaio, all’uomo di legge, al proprietario, a tutti
quelli che hanno interesse di volgerli, d’impadronirsene».
Morì a Napoli nel 1883.
Le premesse che
si possono considerare
alla base
dell’attività critica di Francesco De Sanctis sono di origine
romantica e si caratterizzano in due principi fondamentali: che la
letteratura è “espressione”
della società e che l’opera d’arte è un “prodotto”
del genio. Spinto da tali considerazioni, il De Sanctis operò
instancabilmente per una moderna concezione dell’arte, a livello
filosofico, e per una chiarificazione del concetto di storia
letteraria. Conseguentemente la sua attività pratica di critico e
di storico si rivolse alla scoperta del genio nelle opere d’arte
esaminate ed alla composizione di una “Storia
della letteratura” italiana che fosse rispondente ai nuovi
orientamenti. Esaminiamo, quindi, la sua concezione dell’arte e
quel capolavoro che fu la sua storia letteraria.
Per il De
Sanctis l’opera d’arte è sintesi di
“contenuto” e
di “forma”, concetti,
questi, che possono considerarsi distintamente solo dal moralista e
dallo stilista, cioè a dire da chi consideri l’opera da punti di
vista diversi da quello propriamente estetico, ma non certamente dal
critico estetico, cui non possono e non debbono interessare i
problemi morali o retorici connessi all’opera.
Il critico
estetico ha il compito di esaminare se, e fino a che punto,
l’opera d’arte esprima l’ispirazione che l’ha determinata.
Il genio poetico
può essere animato, al pari di qualsiasi altro uomo, da un
determinato sentimento che può restare allo stato di puro
sentimento o, per la presenza del genio, tradursi spontaneamente in
immagine fantastica. Questa operazione è un fatto tutto intimo
dell’artista e, quando si è conclusa, ha spiritualmente
determinato l’opera d’arte. La quale, pertanto, non consta di
uno stato d'animo cui debba artificialmente sovrapporsi una forma
d’espressione, ma di uno stato d’animo che si è spontaneamente
disciolto in una Forma fantastica. Comporre un’opera d’arte
significa tradurre in una forma d’espressione accessibile a tutti
e, pertanto, materiale (in una scultura, in un dipinto, in una
lirica, ecc.) quella forma spirituale che l’artista ha intimamente
già realizzato in sé. Nella misura in cui il corpo estetico
realizza la Forma, cioè l’ispirazione, l’opera d’arte si può
dire riuscita o meno. E perché riesca il più possibile,
l’artista deve utilizzare al meglio la sua capacità e la sua
esperienza tecnica nel mezzo espressivo che gli è più congeniale
(la parola, il suono, il marmo, ecc.), capacità ed esperienza che,
in pratica, condizionano la realizzazione dell’opera d’arte e
giustificano, in un certo senso, il diverso grado di validità
artistica, ad esempio, dell’ “Ortis”
e dei “Sepolcri”.
Se l’opera
d'arte, ora, è la trasformazione in un’immagine fantastica di uno
stato d'animo, è evidente che essa sia opera individuale e che non
possa essere considerata in rapporto ad altre opere, neppure a
quelle dello stesso autore: ogni opera d’arte vive per sé al di là
di ogni apparente legame con altre opere
(l’episodio di Cloridano e Medoro, nel “Furioso”,
ha, come sua fonte filologica, l’episodio di Eurialo e Niso
dell’ “Eneide”, ma
da un punto di vista squisitamente estetico i due episodi non hanno
alcuna parentela tra loro).
Ciò premesso,
è naturale che per il De Sanctis non dovrebbe essere possibile la
composizione d’una storia letteraria che includesse le opere
poetiche in rapporto tra loro. Ma l’opera d’arte parte pur
sempre da un sentimento, che è sorto in una coscienza umana
necessariamente vincolata ai problemi di una generazione e
condizionata da una determinata civiltà; sicché l’opera d’arte
non può non risultare, come abbiamo premesso, anche l’espressione
di una certa società. E poiché i vari periodi della storia civile
sono legati ad una trama unitaria di avvenimenti spirituali e
pratici, risulta che è possibile stilare una storia letteraria solo
a condizione che essa sia ad un tempo storia civile d’una nazione.
Un esemplare
notevole di tal genere di storia letteraria è appunto il capolavoro
del De Sanctis.
Oltre alla Storia
della letteratura italiana
(1870), che è «la più
bella fra le storie letterarie possedute non solo dall'Italia, ma da
ogni altra nazione» (Giovanni Getto), il De Sanctis scrisse
numerosi saggi critici, fra i quali ricordiamo quelli più famosi
sul Petrarca, sul Manzoni, sul Leopardi e, in modo particolare,
quelli sulla “Divina
Commedia”.
Un limite,
tuttavia, la sua opera l’ha e consiste nella passionalità
del temperamento che lo indusse a preferire autori ed opere dalla
profonda tempra morale. Ma è un limite che fa scarso torto al “critico”
e molto onore all’ “uomo”. |