Purgatorio: canto XIX
Dante si trova nella cornice degli accidiosi allorché, mentre l'alba è ormai prossima, riceve in sogno una visione: gli appare l'immagine di una donna deforme, che in un secondo tempo si trasforma, agli occhi del pellegrino, in una bellissima sirena, che cerca di attirarlo con il fascino del suo canto. Ma un'altra figura femminile, comparsa all'improvviso a fianco del Poeta, rivela il male nascosto in quella femmina balba, riscuotendo Dante dal suo sonno.
I due pellegrini possono così riprendere il cammino, guidati verso il passaggio che porta al girone superiore dalla voce dell'angelo del quarto girone, che assolve Dante dal peccato di accidia. Subito dopo Virgilio spiega al discepolo che la mostruosa apparizione del sogno era simbolo dei peccati di avarizia, gola e lussuria, che vengono espiati negli ultimi tre gironi del purgatorio. Nella quinta cornice, dove le anime degli avari giacciono bocconi a terra, legate nelle mani e nei piedi, Dante incontra l'ombra di Ottobuono dei Fieschi, che fu papa col nome di Adriano V: dopo aver rivelato al pellegrino la sua dignità di un tempo, il pontefice confessale proprie colpe, dichiarando però di essersi convertito subito dopo essere asceso alla cattedra di Pietro; solo allora, infatti, comprese che nessun possesso terreno può placare la sete di conquista dell'uomo e che la vera felicità è data solo dai beni spirituali.
Introduzione critica
Nonostante i suggerimenti dei critici, ricchi di considerazioni inedite sul canto XIX del Purgatorio, appare di scarsa utilità tentare di stabilire un raccordo fra la prima parte di esso, occupata dal sogno antelucano di Dante e dominata dalle inquietanti metamorfosi del personaggio-emblema della femmina balba; e la seconda, nella quale il protagonista, ormai sfuggito alle brume di quella magia impura, ascolta contrito il resoconto che del proprio tacito, interiore volgersi al bene fa un romano pontefice: conversione dalle catene di una brama mai sazia alla pace di una, rinuncia liberatrice. Nemmeno il sommo tra gli splendori mondani - quel gran manto che sembrava dovesse coronare, placandola alfine, la sua sete di avere e di dominio - si riveli, allorché egli fu in grado di vedere, al di là deglì oggetti e della sete di conseguirli, la loro sostanziale vanità, tale da poter soddisfare il suo anelito a partecipare a tutt'altra sorta di beni: quelli dello spirito. Anzi, il successor Petri, nel dichiararsi umilmente conservo del pellegrino ancora gravato del peso della carne, sottolinea in modo esplicito il gravame di affanni, di responsabilità, di sollecitudini costanti, che si abbatté sulla sua anima - stanca all'improvviso e volta a più serene pause - allorché ricevette, lui, uomo fallibile e spento, l'investitura del sommo sacerdozio.
Né le proposte avanzate dal Tonelli, al fine di istituire criticamente una unità, poetica, oltre che strutturale e narrativa, del canto, risultano convincenti, e neppure, quelle del Marti, assai più puntuali e sfumate. Rileva il Marti che, se al Tonelli non é sfuggita "l'esistenza di un saldo legame tra l'episodio di Adriano V e l'orchestrazione onirica intorno alla femmina balba...", tale legame "egli credeva di poter cogliere, avvicinando la conversione di Adriano V all'altra, in verità assai diversa, della femmina balba in dolce sirena, in modo... fittizio e del tutto esteriore; là dove una più persuasiva corrispondenza é da cogliersi, invece, nel valore interiore, nel richiamo insomma alla legge morale, nella sintesi drammatica della lotta tra il bene ed il male, fra il peccato e la virtù, operanti insieme nel primo e nel secondo episodio".
Più che il raffronto fra la prima parte del canto e l'incontro di Dante con il pontefice espiante potrebbe forse riuscire istruttivo il paragone, proposto già in una nota del suo commento dal Momigliano, fra la conversione di Ottobuono dei Fieschi e quella di Guido da Montefeltro. Un altro raffronto, marginale ma non per questo meno indicativo di certe costanti del pensiero del Poeta, potrebbe istituirsi tra l'incontro del XIX del Purgatorio e il colloquio, ispirato da ambo le parti a satanico cinismo, tra Dante e il capovolto papa simoniaco, nel XIX dell'Inferno: nella terza bolgia Dante s'inginocchiava accanto alla buca del pontefice quasi ad afferrarne, in tutta la loro estensione d'infamia, le parole come l frate che confessa lo perfido assessin -: nella cornice degli avari l'atto dell'inginocchiarsi esprime invece riverenza non soltanto per la dignità sacerdotale rivestita in vita da Adriano V - le somme chiavi con tanta leggerezza schernite, nel XXVII della prima cantica, da Bonîfacio VIII - ma per la persona stessa del penitente, considerato nella sua più segreta umanità. Ma il raffronto con la «conversione» di Guido da Montefeltro risulta più ricco, investe una zona più ampia del sentire del Poeta: La conversione di Guido da Montefeltro é stata inautentica: questo processo interiore e di progressiva conquista dell'interiorità dovrebbe esprimere una spontaneità assoluta, priva di fini che non siano assorbiti e come annullati nella considerazione di un fine ultimo e sacro, in virtù del quale sussistono tutti gli altri. Ma, dalle sue stesse parole, abbiamo appreso che l'uom d'arme si era fatto cordigliero per coronare quasi, con un supremo implacabile inganno, una vita che nell'inganno aveva trovato le sue sufficienti difese.
Come hanno sottolineato sia il Tonelli sia il Marti, la conversione di Adriano V é veduta dal Poeta nel pudore del suo approfondirsi: dal sommesso accenno ad una felicità edenica perduta (intra Siestri e Chiaveri s'adima...), barattata in seguito col vano inseguire false apparenze di bene (la vita bugiarda), alla fase del suo saldo rito-. stituirsi, attraverso la preghiera e il sacrificio di sé.
Laddove la conversione di Ottobuono dei Fieschi ci appare - nel prorompere irresistibile eppure lento, meditato (goccia a goccia preciserà nel canto successivo il Poeta) delle lagrime - limpida, sincera, espressione di un ripensamento dolente, quella del Montefeltrano si configura invece come il risultato di un calcolo duro e superbo; di una sollecitazione incontenibile del suo « io » accentratore e rapace: estremo inganno teso, alle soglie della vecchiaia, a se medesimo e, nell'interiorità profanata della sua anima, a Dio. Guido da Montefeltro volle « forzare » la mano del cielo, imporre anche ad essa (ultima beffa e bestemmia) la sua volontà implacata, quell'astuzia che lo aveva fasciato di corruschi, temibili bagliori agli occhi del mondo. Non chinò il capo, non ebbe l'intuizione che la sua intelligenza avrebbe acquistato peso reale, calore, ricchezza di orizzonti nell'atto che l'avrebbe integrata entro l'intelligenza che ritma il respiro del mondo, non concepi la propria redenzione come sottomissione ai decreti di un volere che non fosse il suo. Ignorò l'umiltà; come nella ferrea armatura da lui indossata nel primo periodo della sua vita, restò murato - anche, dopo aver rivestito il saio francescano - nell'immagine contraffatta che di se stesso si era voluta orgogliosamente foggiare e che con tanta crudeltà e clamore l'inganno mondano - corrispondendo ai suoi inganni - aveva riverberata su di lui: quella dell'uomo che seppe li accorgimenti e le coperte vie, quella dell'anima che in seguito, sottratta ai miraggi del tempo, si vanterà ancora della riuscita di un cupo, miserabile consiglio frodolente.
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