Inferno: canto XVII
Virgilio indica a Dante il mostro che è
salito dall’abisso e che, ad un suo cenno, si pone con la testa e il
tronco sull’orlo interno del settimo cerchio. L’aspetto di questa belva,
che simboleggia la frode e che ha il nome di un re crudelissimo ucciso da
Ercole, Gerione, è di uomo nel volto, di serpente nel corpo e di scorpione
nella coda. Mentre Virgilio si dirige verso Gerione per chiedergli di
trasportare lui e il suo discepolo sul fondo del baratro, Dante si
avvicina ad un gruppo di peccatori che, seduti sulla sabbia rovente e
colpiti dalla pioggia di fuoco, cercano inutilmente di alleviare il loro
tormento agitando le mani. Sono gli usurai.
Il Poeta non ne riconosce alcuno, ma nota
che tutti portano appesa al collo una borsa sulla quale è dipinto uno
stemma gentilizio: questi dannati non hanno dunque soltanto offeso Dio, ma
anche avvilito la dignità del loro nome. Uno di essi rivolge a Dante la
parola: si proclama padovano, dice che tutti i suoi compagni di pena sono
fiorentini e annuncia la prossima venuta di un altro usuraio, nobile
anch’egli e famosissimo.
Tornato sui suoi passi, Dante trova
Virgilio già salito in groppa a Gerione. Esortato dal maestro, vince la
sua paura e si pone anch’egli a cavalcioni del mostro, che, ad un comando
del poeta latino, inizia a scendere lentamente, a larghe spirali, mentre
appare, sempre più vicino, lo spettacolo dei tormenti del ripiano
infernale che si apre sotto i loro occhi. Gerione, dopo aver deposto i due
pellegrini sul fondo del precipizio che separa il settimo cerchio
dall’ottavo, si dilegua con la rapidità di una freccia.
Introduzione critica
Posto a metà della prima cantica, il
canto diciassettesimo segna una svolta importante nell’esperienza del male
che è quella di Dante nell’inferno. Col girone dei violenti contro Dio
termina la parte del poema dedicata all’esplorazione del peccato di
violenza ed inizia quella, ben più ampia, dedicata alle molteplici forme
della frode. Il canto ha quindi una funzione analoga a quella dei canti
ottavo e nono, che precedono l’ingresso dei due poeti in Dite; anche qui
Dante ribadisce esplicitamente il carattere allegorico e morale della sua
narrazione. Tuttavia la figura del protagonista di questo canto, il muto,
enigmatico Gerione, pur risultando composita in rapporto alle fonti
culturali che la alimentano e alle premesse ideologiche da cui scaturisce,
è a tal punto concreta, da aver persuaso più di un critico a tralasciare
completamente l’insieme dei significati che il Poeta ha voluto adombrare
in essa, per metterne in rilievo soltanto la perfetta riuscita sul piano
dell’arte.
Per il Croce Gerione "è la maggiore
incarnazione di quello che in Dante abbiamo chiamato senso possente della
vitalità, della immediata e sensibile vitalità, della vitalità organica,
configurata in esseri enormi e mostruosi". Questo giudizio che, sotto la
categoria della "vitalità", avvicina Gerione ai custodi infernali dei
cerchi superiori, non rende tuttavia conto di ciò che distingue
profondamente la figura di Gerione da tutte le apparizioni demoniache fin
qui incontrate.
Il canto è tutto dominato dalla presenza
del sovrannaturale, ma, come avviene sempre in Dante, anche le situazioni
più inverosimili e fantastiche, sono ricondotte nell’ambito della nostra
esperienza più comune. La stranezza di Gerione - quello che di inquietante
si sprigiona dalla sua figura e ne fa la manifestazione di una sapienza
che trascende il nostro intendere e intorno alla quale non possiamo se non
argomentare per indizi - non è data tanto dal fatto che in questa figura
coesistono, inspiegabilmente accostate, forme organiche tra le quali
nessuna comunicazione appare possibile, quanto, al di là di questa statica
giustapposizione di forme, da una contraddizione insita nel suo stesso
modo di manifestarsi, di muoversi. Mentre infatti la coda del mostro
denuncia quella "vitalità" che nel giudizio del Croce appare indebitamente
estesa all’intera figura di Gerione, tutto l’atteggiamento di quest’ultimo
è altrimenti quello di un essere inanimato, di una macchina prodigiosa ed
enorme.
A suggerire questa duplicità di
atteggiamenti nella quale si concreta poeticamente l’intento di rendere
attraverso le immagini la doppiezza dell’azione fraudolenta, sono
soprattutto le similitudini, alcune delle quali riconducono la figura del
mostro al trionfo degli esseri viventi (il bivero, il falcon), mentre
altre la avvicinano al cosmo degli oggetti inanimati e precisamente di
quegli oggetti che sono il frutto del lavoro dell’uomo e all’uomo devono
servire (i drappi, i burchi, la navicella). Gerione non oppone ai decreti
del cielo la propria vitalità immediata ed arrogante, ma si presta invece
docile, come uno strumento meraviglioso, alla loro attuazione. Soltanto la
coda, infida e minacciosa in uno sfondo di tenebre, indica, in questa
macchina possente e precisa, un residuo di vita e un’apparenza di
libertà.
I critici che, come il Croce, si sono
fermati soprattutto sull’immediatezza derivante alla figura di Gerione
dalla capacità di sintesi e dal realismo propri della poesia di Dante e
che, in conseguenza, cedendo al desiderio di semplificare anche là dove il
Poeta aveva indicato una ricchezza di determinazioni contrastanti, hanno
preteso di vedere in Gerione null’altro che una figura animale, non hanno
saputo cogliere, nel canto diciassettesimo, altra tonalità se non quella
descrittiva, propria di un poeta tutto preso dalla gioia di rappresentare.
Essi hanno in tal modo trascurato la nota che meglio definisce questa
manifestazione del mistero - e cioè il suo carattere ibrido, innaturale,
disarmonico - nonché l’accento che alla poesia di Dante deriva dal
proporsi anzitutto come una tesa meditazione sul destino degli uomini e
una severa esplorazione del male. Da questo punto di vista anche una
ricerca volta a proporre una concordanza tra forme e atteggiamenti di
Gerione e sua significazione allegorica non può non risultare stimolante e
utile, per via indiretta, alla comprensione della stessa poesia di questa
pagina dantesca. Interessante, fra le altre, appare l’interpretazione
politico-religiosa che della figura di Gerione dà il Pasquazi, dopo averla
ricollegata alle sue fonti scritturali (Abaddon, Satana e l’Anticristo
dell’Apocalisse).
Gerione corrisponderebbe, secondo questa
tesi, alla "bestia di color rosso scarlatto" coperta di nomi di bestemmie
(e i nodi e le rotelle che screziano la pelle del mostro sarebbero
l’equivalente figurativo di questa determinazione concettuale della
profezia di San Giovanni), di cui nell’Apocalisse (XVII, 3 sgg.) e’ detto
che "era, ma già non è più; essa sta per risalire dall’abisso e andare
alla sua perdízione". Sulla base di un raffronto tra simbolo mitologico e
simbolo scritturale, l’interpretazione del Pasquazi risulta assai
suggestiva e meritevole comunque di tradursi in un approfondimento di
prospettive nella considerazione critica del canto: "nel passato la bestia
comparve una volta sulla terra (come il Gerione mitico, e come il mondo
greco e orientale superbo dei suoi sofismi); più tardi, fu ricacciata
nell’abisso (come il Gerione mitico, ucciso da Ercole, e come il mondo
greco e orientale, domato dall’aquila di Roma); tuttavia, in un prossimo
futuro salirà dall’abisso dove attualmente è confinata (e l’ascesa del
Gerione dantesco, come si è visto, dimostra esservi in lui [Dante]
siffatta aspettazione: così come nel " secolo senza Roma " è riaffiorata,
sotto forme bizantine e averroiste, l’antica superbia discettatrice dei
greci e degli orientali); infine, la bestia va in rovina, così come, a più
riprese, è vaticinato nella Commedia".
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