Inferno: canto I
Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba.
Irretito in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro
preannuncio della dannazione della sua anima.Egli non saprebbe nemmeno ricostruire le fasi del suo allontanamento dalla vita virtuosa, perché
quando cominciò a peccare, signoreggiato ormai dai soli istinti, privo di luce intellettuale (pieno di sonno), non aveva più la possibilità di
discernere il bene dal male.Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene,
dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago
sfuggito ai marosi e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre
peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia - o, secondo altri, delle tre categorie aristoteliche del peccato - la malizia, la
sfrenata bestialità e l’incontinenza -) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è
sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia)
il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida,
il regno dei dannati e quello delle anime purganti. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà
affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).
Introduzione critica
Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al << poema sacro " per la via additata dal suo autore, affrontando cioè per prima cosa l’intrico di simboli che ne adombrano il mistico significato. Una più cordiale adesione alla parola del Poeta, pur nel suo laborioso maturare, gioverebbe senza altro meglio allo
scopo.
L’ostacolo maggiore per noi, nel seguire Dante agli esordi del suo capolavoro, è senza dubbio costituito dall’allegoria, questo schema interpretativo che è stato argutamente definito da uno storico la << pianta parassita nella serra della tarda antichità " e che ritroviamo in tutte le manifestazioni dell’arte del medioevo. La nostra mentalità positiva, tutta volta al concreto e all’"effettuale", ben difficilmente trova di che nutrirsi nel miracoloso tessuto di rispondenze che la mente medievale scorgeva dappertutto nell’universo. Perduto il senso del "sacro", stentiamo a scorgere nelle cose la traccia di un Creatore, la misura di un ordine sottratto al fluttuare degli eventi. Ai tempi di Dante non era così. Il linguaggio dei simboli era di dominio comune, l’uomo era avido di "interpretazioni" che colmassero l’infinita distanza che lo separava da Dio. Ma anche a noi l’allegoria non può non apparire legittimata in pieno, là dove crea Un linguaggio autonomo, non vincolato alla lettura " in chiave " che essa propone. Se cioè essa non esaurisce le sue risorse espressive nella delimitazione del proprio ambito di concetti, ma anzi, come quasi sempre in Dante, conferisce alla parola, coll’immetterla in una prospettiva infinita, una dimensione espressiva che altrimenti non avrebbe, allora dobbiamo riconoscerle il diritto a una considerazione non prevenuta sul piano della poesia. Forse la poesia dei canti introduttivi della Commedia va cercata nel tono particolarissimo che l’uso dell’allegoria conferisce alla parola di Dante: tono severo, assorto, meditativo in cui rivive, riportato entro una prospettiva medievale, l’alta ispirazione dell’Antico Testamento." Il verso con cui si apre l’Inferno, e insieme la Divina Commedia, emerge da una memoria tutta percorsa da echi biblici e profetici. Il testo di Isaia " ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi " (XXXVIII, 10), direttamente citato dalle parole di Dante, e il testo del Salmo LXXXIX, 10 "dies annorum nostrorum sePtuaginta anni ", da esse indirettamente alluso, evocano un’atmosfera solenne in cui il discorso acquista come una dignità liturgica, il sigillo sacro di un annunzio misterioso." (Getto)Osservazioni analoghe si possono estendere al I canto nel suo complesso.Tra i momenti lirici di più agevole lettura spiccano, in questo canto, il drammatico paragone del naufrago, la paradisiaca apparizione della luce sulla cima del colle, la dolente elegia di Virgilio consapevole di essere per sempre bandito dal premio dei beati (oh felice colui cu’ivi elegge!). Dal canto suo la rappresentazione delle fiere, pur rispondendo a criteri allegorici, è tutt’altro che fredda e classificatoria. Non possiamo vedere in esse soltanto " tre motivi da miniatura medievale e da bestiario".Ancora il Getto, svolgendo alcuni spunti chiarificatori del Momigliano, per il quale nella presentazione delle tre fiere "si rivela la capacità di Dante di cogliere le linee significative di un essere vivente, di darne, per così dire, la definizione pittorica", precisa: "Dante non ci presenta degli animali rigidi, imbalsamati, ma al contrario degli animali in movimento, vivi... La lonza è tutta balzante leggerezza e morbida agilità e sferzante eleganza... Il leone, a sua volta, ha qualcosa di statuario, un’imponenza monumentale dà cui si sprigiona però una forza compressa, una fierezza energica... La lupa, infine, assume un profilo nervoso, sfinito e teso a un tempo... Essa è definita come la bestia sanza pace: un tratto che, di nuovo, coglie l’intimità e insieme il gesto dell’animale, il suo istinto e il suo agire, l’insaziabile cercare". E’ vero che le tre fiere sono nate nella fantasia del Poeta non da una presa diretta di contatto con la natura, ma da una sentita rielaborazione della Sacra Scrittura (Geremia, lamentando la corruzione del regno di Giuda, dice: "Ecco perché il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li sbrana, il leopardo è in agguato davanti alle loro città"; V, 6). Ma - conclude il Getto - "l’operazione poetica svolta da Dante" consiste qui in una "ricerca che è simultaneamente intellettuale ed estetica", così che, "come nel linguaggio biblico, in genere, e soprattutto in quello profetico, si determina una specie di continuo spostamento dal primo piano dell’immagine a quello più lontano e segreto del pensiero". Si trattava "da un lato di umanizzare, di rendere passionali, viziose le tre fiere, e d’altro lato di dare alle sue idee di peccati un carattere bestiale, sottolineandone l’aspetto disumano, ferino". La coordinazione tra figura e figurato non è pertanto riuscita arbitraria sul piano della poesia.
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