Purgatorio: canto XIV
Il secondo canto dedicato agli invidiosi si apre con un dialogo fra le anime di due nobili romagnoli, vissuti nel secolo XIII, Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Il primo, avendo notato che Dante è ancora vivo, lo prega di rivelargli la patria e il nome: il Poeta, per mezzo di una lunga perifrasi, spiega che la sua città di nascita è situata lungo le rive di un fiumicel che per mezza Toscana si spazia, ma tace il suo nome che non è ancora sufficientemente conosciuto. Guido del Duca pronuncia contro gli abitanti delle località (il Casentino e le città di Arezzo, Firenze e Pisa) percorse dall'Arno una dura requisitoria, accusandoli di avere abbandonato ogni virtù e, di avere trasformato la valle del fiume in un covo di malizia. Per sottolineare la gravità della degenerazione dilagante in questi luoghi, il romagnolo inizia una fosca predizione intorno al nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, che tiranneggerà la città di Firenze spargendovi il terrore. Dopo aver confessato il proprio peccato e dopo aver rivolto una breve apostrofe all'umanità che si lascia traviare dall'invidia, Guido, n'ell'ultima parte del suo discorso, ricordata la corruzione presente della Romagna, rievoca con nostalgia e rimpianto il tempo passato, nel quale le virtù, il valore e la cortesia guidavano la vita di ciascuno. Quando i pellegrini riprendono il viaggio, voci misteriose ricordano due esempi di invidia punita.
Introduzione critica
Nell'Inferno la polemica politica - anche se, nello stesso momento in cui veniva posta, si allargava in una prospettiva morale, ergendosi a condanna del male diffuso nel mondo, perché ad una costante preoccupazione etica Dante é condotto dalla sua naturale predisposizione e dalla decisa influenza del suo tempo, che tutto sottoponeva al vaglio della morale - si risolveva nel duro giudizio contro il peccatore, nell'inflessibile condanna del vizio, nella situazione drammatica che, attraverso l'orrore della pena, reintegrava la giustizia, quasi che l'animo del Poeta, in continua, recisa antitesi con il suo mondo, in nome di un superiore ideale di virtù e di giustizia, venisse appagato dalla "vendetta" con la quale, trasformando il suo giudizio nel giudizio divino, dannava ai tormenti dell'inferno i responsabili delle lotte e delle discordie civili.
Nella seconda cantica, allorché la mutata situazione spirituale schiude l'anima al divino, allontanandola dall'urgenza del peccato, la possibilità di un giudizio sul mondo e di un confronto, doloroso, fra il mondo reale e il mondo ideale, si propongono con ben più vasta ampiezza di prospettiva. "Nel Purgatorio - rileva con acutezza il Grana - il necessario atto giudicativo (insopprimibile affermazione di coscienza del poeta-giudice) supera la dura deliberazione di una condanna delle anime e non incide più inflessibilmente sui - singoli affrancati da una sentenza di espiazione salvifica, di gioia-dolore ansiosa di bene e di vita eterna; ma allora si riversa sui viventi, e però si risolve in una visuale più larga e se si vuole più astratta, nel giudizio morale sulle genti,
sull'umanità peccatrice perciò la condanna del mondo nel Purgatorio infierisce sempre (e sempre assai grave sarà anche nel Paradiso), ma anziché essere «-attuata » nella pena eterna, come nei cerchi del baratro infernale, è pronunciata e conclamata dai giudici-testitnóni (le guide, il pellegrino) e dai personaggi stessi..."
L'esemplificazione di queste parole, da cercarsi nel discorso di Guido del Duca,
che ben presto supera i limitati confini della Toscana e della Romagna, trascendendoli in una inflessibile sentenza morale, spaziando dovunque virtù.. per nimica si fuga, risolvendo il contenuto aspro e mordente della sua invettiva in una tonalità elegiaca che chiede le sue note più vere al rimpianto e alla rievocazione di un mondo ormai trasfigurato in un clima di epopea e di mito (versi 109-111). Una lettura in chiave contenutistica del canto si presenterebbe ricchissima di risultati, poiché nel breve arco di 95 versi é possibile evidenziare tutta una concezione politico-storica densa di problematicîtà (il grande sogno medievale di una palingenesi che, attraverso la purificazione degli animi, dovrebbe riportare nel mondo la felicità, l'urto insanabile fra un presente -corrotto è un- passato pieno, di virtù, fa possibilità di redenzione solo attraverso un ritorno, ai nobili ideali di un tempo), ché si riproporrà in termini ancora più fermi nella meditazione di Marco Lombardo e, nel Paradiso, nei tre canti dedicati a Cacciaguida. Tale lettura, però, trasformerebbe in una pagina di meditazione e di oratoria quella che è soprattutto una creazione di poesia, nella quale la politica diventa, "affetto di tutta l'anima" (Croce).
Attraverso, una calcolatissima tripartizione di motivi e di stili, l'invettiva esamina il triplice ritmo del tempo, distendendosi dallo sdegno e dal sarcasmo iniziali, che elaborano un linguaggio simbolico denso di passione morale (versi 294) per flagellare il presente, alla visione apocalittica della parte centrale (versi 55-66), che svolge attraverso un registro profetico la predizione del futuro, alla elegia finale, che conferisce una forma epico-drammatica al vagheggiamento del passato (versi 88-123). Il motivo centrale, l'ispirazione profonda dell'apostrofe - l'invidia configurantesi come superbia e cupidigia fomentatrici di odi e violenze - sorregge la costante tensione emotiva nella quale questa diversità di temi e di cadenze sentimentali trova unitaria disposizione, risolvendo in efficace integrazione i due poli lirici di questi versi: il dolore con il quale il Poeta guarda alla realtà storica del suo tempo e l'amore attraverso il quale vorrebbe redimerla, i due sentimenti che giustificano l'intransigenza del moralista (nella misera valle dell'Arno la virtù per nimica si fuga da tutti come biscia, il paese tra 'I Po e 'l monte e la marina e 'l Reno é tutto ripieno di venenosi sterpi) e il pessimismo dell'indagatore che giunge a negare la continuità stessa della vita (ben fa Bagnacaval, che non rifiglia). Soprattutto giustificano i modi della satira e del sirventese - che percorrono, sia pure son modulazioni più attenuate, anche la parte dedicata al rimpianto del passato "cortese" - riportandoci al gusto realistico della tradizione letteraria europea del tempo, all'uso della metafora vigorosa e concreta che fa pensare al Dante delle Rime petrose o realistiche, che dichiara di volere parlare aspro per esprimere uno stato d'animo iracondo, duro, a volte esasperato. Allorché il pianto spezza le parole di Guido del Duca, chiudendo la sua figura in un virile ed eroico silenzio, la linea drammatica caverà del canto, la sua solennità contenutistica ed espressiva, continua nelle voci degli esempi di invidia punita, che prorompono improvvise con la violenza di un tuono. Contenuti ciascuno in un breve e veloce verso, i due esempi hanno una drammatica concisione epigrafica, "si scoscendono procellosamente per l'aria" (Momigliano), lasciando nel pellegrino un'eco paurosa, finché il commento sentenzioso e il monito di Virgilio, nella ricomposta serenità della scena, in una solitudine circondata di silenzio (già era l'aura d'ogne parte queta), perfezioneranno "il motivo religioso, sollevando il tono passionale e terrestre del cauto, oltre il suo culmine tempestoso, in una sfera di astrazione contemplativa e di ascetica severità, con un richiamo dalla terra alle bellezze dell'universo creato" (Grana).
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