Paradiso: canto XIV
Nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti
di risolvere un dubbio che si sta spacciando alla mente di Dante riguardo
alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne. Risponde
l’anima di Salomone, la quale afferma che non solo essi conserveranno la
luce che li fascia ora, ma che i loro occhi corporei saranno resi capaci
di sopportare simile splendore.Intorno alle due corone che si erano
formate precedentemente appare una terza ghirlanda, così luminosa da
abbagliare la vista di Dante. Allorché egli risolleverà gli occhi che
aveva dovuto abbassare di fronte a quel fulgore eccessivo, si accorgerà di
essere giunto con Beatrice nel quinto cielo, quello di Marte, illuminato
da una luce rosseggiante. In questa sfera gli spiriti di coloro che hanno
combattuto per la fede sono disposti su due liste luminose, le quali si
intersecano formando una croce greca. Le anime si muovono lungo i bracci
della croce, scintillando con maggiore o minore intensità a seconda del
loro grado di beatitudine.Dalla croce esce un canto armonioso, ma Dante è
in grado di percepire la dolcezza della melodia, non il significato
completo dell’inno. Tuttavia le uniche parole che giungono al suo
orecchio, "Resurgi" e "Vinci", indicano il valore liturgico del canto
innalzato dagli spiriti combattenti, che esaltano Cristo come trionfatore
della morte e del peccato.
Introduzione critica
È chiaro che Dante nel Paradiso ha voluto costruire un
quadro completo dell’ordine fisico, metafisico e morale dell’universo, ma
è altrettanto chiaro che egli si è proposto di innestare il discorso
teologico nell’azione drammatica, in modo che questa offrisse l’occasione
a quello. Così la salita al primo cielo permette di affrontare il problema
dell’ordine fisico dell’universo, l’incontro con Piccarda quello della
volontà dei beati, la figura di Giustiniano quello dell’Impero universale,
tema che a sua volta prepara quello della redenzione e così via. Occorreva
tuttavia stabilire un rapporto vitale fra il discorso teologico e l’azione
drammatica, affinché l’occasione non si trasformasse in pretesto, magari
faticosamente cercato, ma apparisse come la generatrice naturale di una
visione che, di canto in canto, scopriva il mondo della beatitudine e
l’armonia del cosmo, fino a raccogliere l’uno e l’altra nella visione di
Dio nell’Empireo. La pagina dottrinale doveva diventare, cioè, momento
vivo ed essenziale dell’azione stessa, per non restare una pagina di
trattato sapienziale. Nella prima parte del Paradiso questo rapporto
teologia-azione resta, in buona parte, irrealizzato, perché la teologia
appare estranea al tessuto narrativo, occupando un posto preponderante nei
singoli canti senza fondersi con esso. Nei canti teologici che precedono
il XIV il Poeta solo nel canto primo e nel terzo è riuscito a stabilire
veramente un’occasione poetica, un’adesione logica e fantastica del
discorso all’azione: così nel canto primo la domanda di Dante nasceva
spontanea e naturale (ma ora ammiro com’io trascenda questi corpi levi) e
la risposta, che presentava l’armonico ritorno di tutte le cose verso Dio,
accompagnava mirabilmente l’ascesa del Poeta e di Beatrice attraverso i
cieli. Il tema della risurrezione dei corpi nel canto XIV non ha neppure
bisogno di una occasione che lo presenti, perché esso fa parte della vita
stessa dei beati; la domanda di Dante rientra tra quelle, numerose durante
il corso del suo viaggio nel terzo regno, in cui chiede alle anime beate
notizie sul loro stato: diteli se la luce onde s’indora nostra sostanza,
rimarrà con voi etternalmente sì com’ell’è ora. Così alla gioia di cui si
illuminano gli spiriti sapienti, perché, rispondendo a questa richiesta,
soddisfano un desiderio del Poeta, si unisce la gioia per la propria
risurrezione, in modo che la spiegazione teologica si trasferisce subito
sul piano affettivo: i beati non solo fanno dono a Dante di una verità
logicamente dedotta da principii universali, ma rivelano la loro esultante
attesa del momento in cui, rivestita la carne gloriosa e santa, crescerà
la visione di Dio, il loro ardor, il loro raggio.Nei versi 37-60 la
teologia appare proprio come Dante la intende, sorretta da una forte
carica affettiva che è l’ebbrezza dello spirito anelante ad un’unione
sempre più profonda con Dio. Il ragionamento, dunque, non resta astratto e
chiuso davanti alla visione paradisiaca, ma diventa esso stesso un mezzo
per rivelarla, per esaltare la felicità degli eletti, la luce e
l’immensità dei cieli. La struttura sillogistica che sostiene queste
terzine si trasfigura in movimento poetico, in fervido circolo ritmico,
splendente di immagini.Nel canto XIV, infatti, il ritmo circolare -
ripetizione di parole, ritorno di concetti uguali, riecheggiamento di note
identiche - è la caratteristica dominante, impostata fin dal primo verso
(dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro). Subito dopo con
questo ritmo il Poeta affronta il tema della Trinità (quell’uno e due e
tre... in tre e ‘n due e ‘n uno), fondendo alla definizione dogmatica una
ineffabile emozione poetica, con un "vertiginoso ritorno di note sopra se
stesse" (Momigliano). Tuttavia tale mezzo raggiunge la sua massima potenza
espressiva nel breve discorso di Salomone, dove il ragionamento si
trasfigura liricamente grazie alla vibrante accensione di ardore e di
immagini generata dal ritorno incessante delle stesse note. Questo ritmo
circolare, infatti, è ben lungi dall’essere uno statico avvolgimento di
termini o concetti uguali, perché ad esso s’accompagna un intensificarsi
particolare delle immagini e dell’emozione lirica: dapprima un moto
ascendente di luce e di amore che si placa nella visione di Dio (versi
40-42), poi un moto discendente (che il Poeta ha già definito rifrigerio
dell’etterna ploia) che riporta quella luce e quell’amore da Dio alle
anime, cosicché si ha "l’impressione d’un mistico e lucido delirio " che
"rende evidente il rapimento nel quale fu concepito questo canto "
(Momigliano). Questo, inoltre, era l’unico ritmo con il quale il Poeta
poteva significare il misterioso processo di merito e di Grazia che lega
l’uomo al suo Creatore, per cui la vita divina rifluisce in lui
perennemente: l’uomo e Dio chiusi in un cerchio di amore che richiama
quello della vita trinitaria (e non a caso Salomone inizia il suo discorso
dopo che per tre volte si era alzato dai beati l’inno alla Trinità).La
critica riconosce nel canto XIV uno dei più alti e dei più ispirati del
Paradiso. Certamente uno dei più unitari. Esso appare dominato nella prima
parte da un nucleo di intensa poesia, il tema della gloria del corpo
risorto, che sembra esaurirsi dopo l’umanissimo accenno al legame che
anche nel mondo beato stringerà ognuno ai suoi cari. In realtà anche la
seconda parte del canto riecheggia, sia pure su un piano diverso, la
prima, perché anch’essa è alimentata dal tema della risurrezione e dallo
stesso tono spirituale (la gioia della liberazione della carne e la gloria
della beatitudine eterna): la croce non è più il legno insanguinato sul
quale il Figlio di Dio ha patito l’offesa suprema, ma è un vessillo
luminoso che si stende per tutto il cielo a testimonianza della vittoria
sulle tenebre e sulla materia; la figura di Cristo che vi "balena" non è
quella sofferente dell’Uomo-Dio crocifisso, ma quella trionfante del
Risorto, e le anime dei martiri della fede percorrono quella croce con un
moto di letizia incessante cantando un inno di risurrezione.
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